“Difesa della poesia” di Ben Lerner
Platonismo metaforico
Odiare la poesia (Sellerio, 2017) per difenderla. Se fosse solo una provocazione per antitesi, sarebbe poca cosa. Invece quella scritta da Ben Lerner, poeta, romanziere, accademico statunitense di poco meno di quarant’anni – dunque un “giovane”, secondo le nostre categorie – è una compiuta «defence of poetry» (Shelley, citato dall’autore), fondata su una tesi chiarissima, riconoscibile, affascinante.
A me pare che Lerner si collochi, ma in modo originale, lievemente disallineato, nel profondo solco romantico. Shelley aveva organizzato la sua difesa della poesia intorno a un caposaldo: la poesia è un sapere che il moderno sviluppo tecnico-scientifico, con la sua produttività e il suo utilitarismo, non potrà mai superare, perché esso è connesso a una facoltà creativa che nell’uomo è originaria. Ma sappiamo bene che questa concezione, in epoca romantica, era fondata su un principio metafisico indubitabile: la fiducia in una Natura divina e creatrice, imitando la quale anche l’uomo – l’artista – è demiurgo.
Come fa Lerner a restare fedele a quest’idea, in un’età, come la nostra, sostanzialmente antimetafisica, peraltro età di assoluta marginalità della poesia e dei poeti? Anzi, come fa ad accordarla con il credo antilogocentrico dei vari studies che dominano i campus americani, antilogocentrismo in cui Lerner si riconosce, quando polemizza esplicitamente con un critico letterario che rivendica alla poesia un’aspirazione universalistica, ma che «lascia intendere in maniera piuttosto evidente che secondo lui quella di parlare per tutti è una prerogativa riservata ai maschi bianchi»? (p. 58).
L’astuzia teorica e retorica di Lerner consiste nel fare riferimento a una sorta di platonismo metaforico, non più sostanzialistico.
Platone aveva ragione a cacciare i poeti dalla sua repubblica ideale: i poeti sono davvero dei fingitori. Ma non nel senso che intenzionalmente ingannino i propri ascoltatori o lettori, bensì – secondo Lerner – perché nessuna poesia concreta raggiungerà mai la poesia vera e propria, che è certo un impulso primigenio dell’uomo ma anche un sogno mai realizzato: questa o quella poesia è e sempre sarà uno scacco, una copia imperfetta. Per questa ragione noi non possiamo che odiare la poesia – questa o quella poesia, perché essa è l’emblema del nostro fallimento a dire la verità (sulla nostra condizione umana, sull’universo, su tutto quello di cui la poesia si occupa da millenni).
Ma perché «platonismo metaforico»? Per Platone e per i romantici l’Idea o la Poesia avevano una consistenza tangibile, sia pure solo all’intelletto; insomma, l’ideale era reale. Per Lerner, al contrario, essa non è altro che un luogo vuoto, un’ipotesi, una virtualità, un modello idealtipico che funge da metro di paragone per le poesie concretamente scritte.
In effetti, fin qui, niente di nuovo; ma la mossa originale di Lerner consiste nello sforzo di cogliere il potenziale pluralistico e democratico di questa pretesa trascendente e totalizzante della poesia (si vedano le pagine che Lerner dedica al più esemplare poeta americano, Walt Withman): se nessun poeta, nemmeno il più eccelso, ha mai raggiunto la poesia, tutti i tentativi di poesia, persino quelli completamente fallimentari (William Topaz McGonagall, «celebrato da più parti come il peggior poeta della storia», p. 29) o quelli eversivi del concetto stesso di poesia (le avanguardie) o quelli eccentrici rispetto ai canoni (la poesia nera negli USA), ci dicono qualcosa della poesia e ci obbligano a misurare costantemente il nostro scarto da essa.
Un odio perfetto
Soltanto odiando la poesia – le poesie – per la loro insufficienza e mancanza di autenticità, possiamo amarle davvero come plurali e umani tentativi di infinito. Ma è a questo punto che la tesi di Lerner manda qualche (sano) scricchiolio. La poesia, dice Lerner, richiede un odio perfetto (o un perfetto amore: ma questo è negato su questa terra agli uomini, capaci solo di amori imperfetti, così come di poesie imperfette):
il nostro disprezzo per la singola poesia dev’essere perfetto, dev’essere totale, perché solo una lettura spietata che ci permetta di misurare la distanza fra il reale e il virtuale ci consentirà di fare esperienza, se non di una poesia autentica – dato che non ne esistono – di uno spazio per l’autentico, qualunque cosa esso significhi (pp. 14-15)
Lerner è però reticente: che cos’è, in effetti, questo “odio perfetto” e quali conseguenze ne deve trarre un lettore di poesia? A me pare che esso alluda, fra le altre cose, al fatto che ogni sentimento accomodante – la garbata e democratica simpatia o antipatia verso le opere letterarie di “buon livello medio” che confondono la nettezza del confine tra la letteratura e il consumo – ci impedisce di fare vera esperienza della poesia, appagandoci completamente con quello che c’è e anestetizzando in noi quell’infinita inquietudine per l’insufficienza di ogni poesia e l’aspirazione a qualcosa di più, insufficienza che è poi solo lo specchio della nostra condizione.
Poesia, desiderio, capitalismo
Nelle ultime pagine, Lerner ricorda il suo aggirarsi da bambino, sui pattini, fra le corsie e le luminose merci («zuccherose infinità») del nuovissimo ipermercato di Topeka (Kansas), la sua città natale, e commenta questo racconto con una riflessione sul denaro e le merci e sul piacere che essi danno, identificandolo con il piacere della poesia:
«Il denaro è una sorta di poesia», ha detto Wallace Stevens; come il denaro, la poesia fa da intermediario fra l’individuo e la collettività, dissolve il primo nella seconda, o fa sì che dalla seconda si riformi il primo, solo per poi dissolversi di nuovo. Vi ricordate la sensazione (o magari ce l’avete tuttora) di essere un nodo vacillante all’interno di una rete infinita di prodotti e di flussi? Perché anche quella è poesia, benché in una forma perversa, dove i rapporti fra le persone devono apparire come cose (p. 81).
Quest’analogia apparentemente vertiginosa fra poesia e consumismo è meno stupefacente di quanto non possa sembrare. Proprio l’America è il luogo dove questa analogia si è storicamente inverata. Lerner cita non a caso Andy Warhol, colui che ha fatto poesia e arte delle merci e dei prodotti industriali e che ha colto le potenzialità egualitaristiche della società consumistica («Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca migliore di quella che si beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone», p. 80).
Se consideriamo alcune delle esperienze poetiche americane più native ed estranee alla tradizione europea – penso a Thoreau, a Withman, alla Beat Generation – notiamo come esse siano pervase da un afflato democratico e populista, ma in effetti, a considerarle più da vicino, accentuino piuttosto la protesta e l’espressione individuale, quasi sempre negando o ignorando la società storicamente costituita: ed è quindi un individualismo al quadrato, un potenziamento della ricettività e creatività personale al di fuori di ogni schema tradizionale, che spesso coincide con il rientro fusionale e mistico nella Natura (nei beatnik anche attraverso l’uso di alcol e allucinogeni). È, questa, un’ennesima incarnazione del romanticismo nella sua accezione titanica, nella quale i soggetti presenti sulla scena solo solo due, l’individuo e la Natura.
Lo statunitense Lerner è convincente quando suggerisce che quel desiderio di infinito che ci abita, e che rende possibile all’uomo anche la poesia, è desiderio di annullamento-potenziamento del sé in una «rete infinita» dove siamo puro flusso spersonalizzato, ma dove siamo anche soltanto «cose», dunque, capitalisticamente, «prodotti». Non è casuale, perciò, che Lerner associ questo senso di pienezza “romantica” data dalla poesia e dal consumo di merci allo «scopare, [al]lo sbronzarsi, e [al] drogarsi» (p. 81), come è significativo che descriva questa esperienza in cui coincidono massima intensità personale e massima dispersione del soggetto nel tutto, con un lessico che è (preterintenzionalmente?) platonico: «l’identica bontà, la buona identicità». Eterno romanticismo, quindi, ma anche eterno platonismo.
Se il capitalismo può, addirittura, confondersi (coincidere?) con il nostro bisogno di poesia allora è forse vero che esso non è altro da noi – il padrone che ci vuole schiavi – ma siamo noi stessi, nelle nostre più profonde fibre di esseri desideranti. Il problema, appena suggerito e subito lasciato cadere da Lerner, che si limita a stabilire il discrimine tra poesia e capitalismo in una sorta di “corruzione” («forma perversa») del desiderio del secondo rispetto alla prima, è che questo nostro desiderio di infinito sembra combaciare perfettamente con le esigenze di autoriproduzione del sistema economico capitalista, che è a dire con la sua volontà di sfruttamento, di alienazione personale, di violenza. E vien fatto di pensare che a questa moderna difesa della poesia in termini controfattuali e ideali, ma postmetafisici, manca un’altra forma di controfattualità e idealità, quella dell’utopia politica.
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