Il teatro della parola. Il caso Ferrante/6
C’è forse una questione aperta, che non riguarda solo la Ferrante. Negli anni, con una certa insistenza negli ultimi, si sono ripetuti romanzi, anche di un certo impegno, in cui la vicenda privata di un personaggio (che spesso è il narratore) consente di attraversare la storia italiana; o almeno diventa la storia di una generazione: Con le peggiori intenzioni di Piperno, Il desiderio di essere come tutti di Piccolo, La vita in tempo di pace di Pecoraro, e appunto il ciclo L’amica geniale. L’elenco è per difetto e ovviamente impreciso. Se la formula è il novel inteso come accesso da un punto di osservazione parziale e relativizzato alla vicenda collettiva, che consente di restituire una lettura problematica della storia recente, rimane sempre la sensazione che l’operazione non riesca fino in fondo o sia forzosa. Pecoraro è esemplare: in La vita in tempo di pace i movimenti e i mutamenti del corpo o il rapporto da manuale clinico con Padre e Madre finiscono per essere più in vista (e per essere il vero motore della scrittura) rispetto alla storia pubblica degli anni Sessanta e dei decenni successivi. La storia viene catturata nella lente opaca di una soggettività irrisolta e solipsistica. Neanche L’amica geniale si sottrae a questa dinamica. Il punto di osservazione – come è evidente nel circolo che si chiude fra prologo del primo volume e l’Epilogo dell’ultimo, Storia della bambina perduta – rimane sempre quello della narratrice che elabora retrospettivamente il senso dell’esperienza (propria e del proprio mondo di affetti), piallando e levigando ogni asperità esterna. Ne deriva un’epica della non collettività ma della soggettività, una dilatata impalcatura automitologica che riconfigura la funzione della realtà relegandola al margine del romanzo, se non fuori. Quando un servizio di «Panorama» reinterpreta in chiave di denuncia il romanzo appena pubblicato, sconcertata dalla reazione violenta dei fratelli Solara, camorristi, Elena, la narratrice, dice: «Non volevo metter bocca nelle loro faccende vere, cosa c’entrava “il feudo dei fratelli Solara”. Avevo scritto un romanzo» (p. 267). L’affermazione a prima vista trascrive il senso d’impotenza della letteratura di fronte alla storia: «l’Italia in cui viviamo è assai peggio di quello che ci raccontiamo» (p. 295). A prima vista, perché in realtà la storia entra in scena come un accidente inevitabile, subìto, ma non rappresenta mai il vero centro della narrazione, che invece si ristabilisce con forza sul versante della soggettività, risucchiando verso di sé la misura e il senso delle cose. L’impotenza di fronte alla realtà potrebbe diventare (con un pericoloso ribaltamento di cui si avvertono le tracce) l’alibi per raccontare quello che si vuole. O meglio quello che al soggetto serve per fare il punto di sé.
L’ipotesi può apparire tendenziosa; ma pensando ad un quadro non militante e non agiografico della narrativa italiana recente (magari l’agiografia finanziata del mercato editoriale), sarebbe il caso di interrogarsi sulla sua effettiva capacità di stabilire un nesso che davvero funzioni fra il marcato soggettivismo del narratore autobiografico e un’idea di un romanzo che restituisca l’affresco, controverso, della società contemporanea e delle grandi vicende collettive che l’hanno segnata. Il nodo interessa anche il cinema, se pensiamo alla piega ‘intimistica’ di molte pellicole di questi anni; e forse non riguarda solo questi anni. Viene in mente La storia della Morante e come i due piani, della Grande storia e della vicenda personale, vi compaiano strutturalmente distinti. All’origine, probabilmente, si riconosce il marchio di fabbrica manzoniano, di un legame veramente mai risolto fra storia e invenzione.
Malgrado tutto, in Italia non si riesce ad avere – ed è solo un esempio – un romanzo che assomigli a Una storia di amore e di tenebra di Oz. In Oz sguardo e memoria sono del soggetto narrante, ma consentono di ripercorrere la storia di un popolo: la narrazione si fa carico di una storia che spiega (e talvolta non riesce a spiegare) il presente drammatico in cui il protagonista è immerso. Il soggetto che narra non esisterebbe senza la storia. In Ferrante, ma anche in Piccolo o Pecoraro, la tragedia degli anni di piombo e poi della fine della prima repubblica sembra più che altro lo scenario su cui progettare il monumento a un’inguaribile fascinazione per il proprio sé, di un narratore che troppo spesso è lo specchio dell’autore. La Ferrante scrive di Elena che a sua volta scrive: il romanzo narcisistico ha la meglio sulla pretesa di storia, di riconoscere negli eventi un significato collettivo di cui il narratore si fa interprete. Nella Storia della bambina perduta si assiste ad un impressionante deficit di realtà: la realtà viene confinata dietro la coltre spessa e levigata di una scrittura / memoria che attutisce ogni violenza; prodotto davvero di grande mestiere, o come si legge nel romanzo di una «cura ossessiva» (p. 292). Siamo di fronte ad una sorta di teatro della parola che ripropone ossessivamente se stessa e continuamente si mette alla prova, in un gioco di specchi per cui la verità è menzogna e viceversa. Oltre non c’è forse nulla. Tra Firenze Genova Milano Napoli non rischiamo di incontrare Ben Gurion o il Nobel della letteratura Agnon, per tornare a Oz, ma improbabili – e tuttavia nel romanzo famosissimi – professori universitari (Pietro Airota), improbabili scrittori e altrettanto improbabili editori, per non parlare dell’improbabilissimo Nino Sarratore professore (anche lui!), poi deputato socialista (ovviamente) e quindi – si intuisce – berlusconiano (dovrebbe essere lo specchio della crisi della prima repubblica?). Non c’è più la storia, c’è una meccanica e ci sono i personaggi di un prevedibile romanzo. La complessità e le lacerazioni della storia italiana vengono rideclinate a misura di «rione», attraverso le dinamiche di una famiglia allargata che esaurisce in sé il mondo. L’accadere con la sua drammatica violenza resta fuori o ai margini (la morte / rapimento di Tina), sfiora, ma appare sempre filtrato a posteriori da una memoria che rialloca i fatti nella storia privata, dove i conti tornano sempre. Ma perché sono conti di parole.
Tutto perde corpo – uno dei pochi tratti di fisicità è l’odore del sesso, ma è una fisicità che repelle – e si dissolve nella medietà e banalità dei sentimenti e dei comportamenti. I personaggi in fondo fanno quello che potremmo fare noi. Storia della bambina perduta è il romanzo in cui ciascuno di noi si può riconoscere senza sforzo. L’operazione è calibratissima, perfetta nella sua evasività. Persino l’eclissi dell’autore non ha nessuna forza di contestazione del mercato (La frantumaglia è da questo punto di vista esemplare); al contrario lo sfrutta con sapienza, ritraendo l’autrice – una di noi – dalla storia pubblica, nello spazio ineffabile di una tormentata ma raffinata sensibilità che è il vero teatro della scrittura.
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