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diretto da Romano Luperini

len 20170215 07

I nuovi insegnanti

 Chi legge il cambiamento?

Degli insegnanti italiani, oltre che la vincente e strumentale rappresentazione giornalistico-politica, abbiamo una frammentata lettura statistica (compendiata qualche anno fa nel libretto di Salvo Intravaia, L’Italia che va a scuola, Laterza 2012), che si presta, come è nella natura dei dati, a interpretazioni di qualsiasi segno. Esiste poi un’ampia e disuguale rappresentazione letteraria degli insegnanti. C’è un intero filone editoriale dedicato al mondo della scuola e ai suoi eroi. Di quest’ultimo si è occupata in modo interessante Tilli Bertoni.  Per non parlare delle fortunate serie tv sui professori.

Ma in fin dei conti non esiste un’analisi complessiva dei “nuovi insegnanti”, mentre abbondano le narrazioni testimoniali in prima persona (si pensi al successo che hanno insegnanti-narratori come D’Avenia) e le interpretazioni pseudo-oggettivanti (la miglior fucina in questo campo è il Corriere della Sera con una delle sue maggiori firme, quella di Gian Antonio Stella). Le une e le altre, però, indipendentemente dai contenuti che veicolano, sono letture impressionistiche che discendono dall’assenza di una prospettiva unificante (nel primo caso) e dalla mancanza di un metodo rigoroso (nel secondo).

Nei prossimi mesi vorremmo tratteggiare il volto dei nuovi insegnanti cercando di forzare i limiti di questo dibattito. Per affrontare questo tema ci occuperemo di un argomento che non è soltanto scolastico, ma di civiltà, e cioè della barbarie comunicativa che ha investito la comunicazione sociale e politica del nostro paese. D’altro canto cercheremo anche di capire chi sono i “nuovi studenti”, da quanto tempo, in che misura e come sono cambiati sotto i nostri occhi. Indagine sugli insegnanti, dibattito pubblico e riflessione sugli studenti saranno i tre filoni di intervento che caratterizzeranno i nostri prossimi articoli. Iniziamo dagli insegnanti.

I nuovi insegnanti

In questi anni non sono cambiate soltanto le norme, gli assetti organizzativi, i ministri, gli studenti o i modi di produrre e rielaborare i contenuti culturali della scuola. Per effetto di tutte queste cose, e anche per uno smottamento dei valori di riferimento, sono cambiati anche gli insegnanti. È indubitabile che ci muoviamo dentro un nuovo campo di forze che ha ridisegnato le finalità della scuola allontanandola da quelle costituzionali. In altre parole siamo a valle di una mutazione già consumata (ma non per questo immodificabile) che ha corroso anche il cardine identitario degli insegnanti e cioè l’illusio di esercitare una funzione di mediazione intellettuale tra tradizioni e nuove generazioni. Faccio alcuni esempi per spiegare cosa intendo.

Insegnanti e saperi: chi fa la mediazione?

La maggior parte dei corsi di formazione oggi proposti dagli enti formatori (istituzionali e privati) riguarda le tecniche di insegnamento. C’è una tecnica per ogni occorrenza, anzi ci sono più tecniche che bisogni. Basta una breve incursione nel mercato della formazione scolastica per notare che nel “gradino più alto” della formazione si è affermata la propensione ad occuparsi del “gradino più basso” in termini immediati, concreti e spendibili. I formatori trasmettono tecniche didattiche, metodiche, espedienti pratici da riutilizzare in classe. Tutto questo può sembrare un fatto positivo (e in parte lo è), la fine di un atteggiamento accademico culturalmente astratto, distante e inconcludente (e in parte lo è), ma a noi interessa conoscere quel che arriva a valle.

L’insegnante che recepisce e applica la tecnica, infatti, non è più un mediatore. È un esecutore di un sapere selezionato ed elaborato altrove. L’investimento sulla specializzazione degli insegnanti (di cui il mercato della formazione è soltanto un aspetto e il MIUR il maggior propugnatore) è direttamente proporzionale al disinvestimento sulla loro funzione culturale e intellettuale, sulla loro capacità di rielaborare i saperi e mediarli in forma soggettiva e autonoma.

E così può capitare che un insegnante della mia generazione sia formato a guidare dei laboratori teatrali in classe, ma non sappia chi sono Thomas Bernhard, Sarah Kane o l’Odin Teatret e cioè si trovi nella situazione opposta, ma per questo non migliore, in cui si trovava un insegnate di qualche generazione fa, che invece sapeva chi erano Pirandello, Brecht e il teatro dell’assurdo, anche se li insegnava leggendone i testi come fossero romanzi.

Insegnanti, canone e valori: chi fa la mediazione?

Lo stesso processo si può cogliere esaminando la manualistica scolastica, quanto mai ricca di servizi didattici, di guide, di apparati sempre meno complementari e sempre più sostitutivi dell’insegnamento. Nelle guide degli insegnanti sono già svolte le programmazioni per competenze e inclusive, sono redatti i test d’ingresso e le verifiche finali, sono fornite le soluzioni dei quesiti; mentre nei manuali sono spiegati anche i termini di uso comune, vengono proposte attività articolate fin nel minimo dettaglio ed è usato un linguaggio molto semplificato (quando non banalizzato) rivolto direttamente agli studenti. Si può pensare che la riorganizzazione retorica dei contenuti (in cui grandissimo peso riveste l’uso delle immagini) sia una forma di democratizzazione dei saperi a cui si riferiscono: la manualistica si è finalmente aperta a tutti! Ma in realtà questa ostentazione di leggibilità manifesta anche un’insofferenza verso le forme di mediazione culturale, che sono sempre necessarie quando gli apprendimenti sono veramente democratici. Il linguaggio “chiaro” di storie della letteratura come quelle di Giunta, o la semplificazione estrema dei concetti come nel manuale di Carnero e Iannaccone – per citare due delle maggiori novità editoriali nel campo della letteratura di questi anni – a mio parere rientrano in questa tendenza: quella di saltare di fatto la mediazione dei docenti. Non serve la loro parola per spiegare i contenuti, perché il problema non è pronunciarsi sui valori e interpretare i contenuti, ma acquisirli.

Al biennio la situazione è ancora più critica, perché è al biennio che di fatto si forma il canone scolastico contemporaneo. Ebbene, si tratta di un canone prevalentemente commerciale in cui gli autori non vengono proposti in base al loro valore, ma in base al loro successo e ancora una volta in base alla loro “leggibilità”. E così nelle trattazioni per generi (su cui sarebbe più che mai necessario uno svecchiamento teorico) si trovano posti sullo stesso piano mostri sacri della tradizione con autori che rimarranno sulla scena editoriale un paio di lustri. Dostoevskij accanto a Paolo Giordano. E anche qui gli insegnanti non giocano più la partita della formazione del gusto e dei valori. Ma su questo aspetto torneremo nei prossimi mesi con una piccola inchiesta su quali siano i libri di lettura più diffusi nelle nostre scuole.

Insegnanti e potere: chi fa la mediazione?

Un altro ambito in cui la funzione di mediazione intellettuale degli insegnanti è divenuta inessenziale è quello istituzionale. I processi di riforma, da Berlinguer in poi, hanno spinto verso la ridefinizione del ruolo dei docenti in versione impiegatizia e burocratica. Per far questo sono stati usati alcuni specchietti delle allodole, come la creazione di un middle management interno alle scuole, la gerarchizzazione delle mansioni, e da ultimo, l’introduzione del bonus premiale. Tutti questi dispositivi si applicano a mansioni concrete, a performance misurabili, non certo all’esercizio di una funzione intellettuale. Gli insegnanti vengono insomma equiparati a degli impiegati che devono produrre progetti, carte e diplomati.

Inoltre gli insegnanti non svolgono più nessuna mediazione nei confronti del potere: le decisioni politiche ricadono su di loro che tendenzialmente si limitano ad assumerle, dopo qualche protesta sempre più stentata e isolata. Anche le recenti assunzioni dei nuovi colleghi, avvenute in base ad una logica ricattatoria e umiliante e senza nessuna solidarietà collettiva, dimostrano che ormai è il posto quello che conta.

La tecnicizzazione burocratica e impiegatizia degli insegnanti è quindi incentivata a livello formativo-ministeriale, data per acquisita a livello editoriale-culturale e spinta a livello politico-organizzativo a discapito della loro funzione intellettuale.

Il capitolo di un romanzo

La scuola italiana e le discipline umanistiche, come sappiamo, sono state il cardine del “romanzo della nazione”. Il mezzo attraverso cui sono stati elaborati e trasmessi (anche nelle forme più deteriori e retoriche) i nostri valori collettivi e identitari. Adesso che gli stati-nazione sono esautorati dai poteri economici globali, la scuola italiana, a livello organizzativo, valutativo, di precarizzazione dei lavoratori e di ri-strutturazione perfomativa dei contenuti, è ormai uno dei capitoli del “romanzo dell’economia” e le discipline umanistiche (a torto o a ragione) sono finite in appendice.

Si vuole che sia così anche a livello umano e di tensione ideale, ma, se è vero che per quanto marginali e isolati gli insegnanti sono pur sempre i gangli della scuola, l’affermazione della nuova illusio dipende anche da loro e dal loro livello di consapevolezza.

Cose che ho detto e che non volevo dire

Detto questo, e condividendo la certezza che ci muoviamo dentro un universo di barbarie comunicativa (di cui, come anticipavo, parleremo più in profondità nei prossimi articoli), desidero precisare che non penso e non ho detto:

  • che la formazione degli insegnanti non serva;

  • che la didattica è tutta fuffa;

  • che i manuali del triennio devono essere difficili ed enciclopedici;

  • che i manuali del biennio non devono aprirsi al canone contemporaneo;

  • che gli insegnanti sono tutti impiegatucci obbedienti e passivi;

  • che i giochi sono fatti e non ne possiamo immaginare di nuovi;

  • che l’esercizio della funzione intellettuale sia un bene in assoluto.

Quello che ho detto, in fin dei conti, è che vorrei sapere chi sono.


Fotografia: G. Biscardi, Scuola, Palermo 2017

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