Essere solo se stessi. Guido Mazzoni incontra gli studenti
A cura di Daniele Lo Vetere
Il poeta Guido Mazzoni ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sulla sua poesia. Pubblichiamo l’intervista che gli è stata fatta in quell’occasione dal nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.
1. Durante l’incontro, gli studenti sono rimasti colpiti dalla presenza ricorrente del tema della violenza nelle tue poesie, ad esempio nell’inedito Sedici soldati siriani, che parla del noto video dell’Isis in cui si assiste in diretta al loro sgozzamento. Rispondendo loro, tu hai parlato della violenza nella nostra epoca e nella storia, nonché della sua percezione nella società dello spettacolo (magari proprio da parte dei giovani). La violenza è un tema che può davvero ossessionare così tanto un poeta?
È una domanda legittima. L’ultima guerra combattuta sul suolo europeo occidentale risale a oltre settant’anni fa; in Italia il servizio militare obbligatorio è stato abolito nel 2005. Se si guarda alla storia di media durata, le persone nate in Europa occidentale e negli Stati Uniti dopo il 1945 hanno vissuto in un lungo tempo di pace interrotto da alcuni episodi di violenza statisticamente marginali, che hanno provocato molti meno morti degli incidenti stradali. L’11 settembre 2001, il più importante attentato degli ultimi decenni, ha ucciso circa 3000 persone; durante tutto il 2001 negli Stati Uniti più di 42000 persone sono morte sulle strade. Questi sono i numeri.
Le statistiche ignorano però l’immaginario. Insieme al sesso, al gioco e al gossip, la violenza è il tema preferito dalla comunicazione di massa. Circola in forma diretta (i videogiochi e i film hollywoodiani destinati al pubblico maschile raccontano omicidi; di omicidi parla una parte consistente dell’infotainment), o in forma di spettro, come accade nell’ossessione paranoica per la sicurezza, nel culto delle vittime, nella fortuna etico-politica del vittimismo. Questo esteso fenomeno di ritorno del represso significa due cose: l’appagamento di un bisogno antropologico primario (la violenza, la pulsione di morte, è anche una fonte di piacere) e la percezione fantasmatica dei conflitti reali che la nostra cultura rimuove.
Sedici soldati siriani nasce da un’esperienza personale. Mi capita spesso di far colazione leggendo i siti sportivi e i siti dei giornali. Una mattina di qualche anno fa, le edizioni on line della «Repubblica» e del «Corriere della Sera» aprirono pubblicando un video dell’Isis che mostrava la decapitazione di alcuni soldati siriani. Ne facevano vedere una versione censurata ma, con l’ipocrisia tipica dei media, davano tutte le informazioni per trovare in rete la parte mancante. Quel giorno lì ho visto la parte mancante mentre finivo di mangiare. I video dell’Isis appartengono a un’età nuova nella storia dello spettacolo: si ispirano all’estetica dei videogiochi e dei film di azione; nascono come testi, non come documenti; esprimono un immaginario adolescenziale maschile. Se la mescolanza mediatica di vero e falso, di etico e di estetico, è fenomeno che esiste da tempo, l’Isis ha aperto una fase completamente nuova. Studiando le ombre, si è calcolato che il video dei soldati siriani ha richiesto circa otto ore di riprese. In un certo senso i filmati dell’Isis sono il rovescio dei reality show: nei reality show la realtà viene invasa dalla finzione; nei video dei fondamentalisti la finzione viene squarciata (e impreziosita) dal più reale degli eventi. Alla fine i sedici soldati siriani si sono comportati come attori di un copione che prevedeva, nell’ultima scena, la loro morte vera. Le esecuzioni dell’Isis sembrano eticamente e psicologicamente anteriori a quella disciplina dei supplizi che l’Occidente ha conosciuto fra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; al tempo stesso si trovano calate in forme che mettono insieme realtà e fiction, arcaico e ultramoderno, crudeltà ancestrale e ultime invenzioni della tecnica.
C’è però un’altra ragione, meno spettacolare e più profonda, che mi fa essere sensibile al tema della violenza. Benché i rapporti di forza fra le aree della Terra si stiano ridefinendo, benché l’Europa occidentale e gli Stati Uniti vengano da quasi un decennio di crisi economica irrisolta, l’Occidente è ancora la parte ricca del pianeta. All’interno dell’Occidente, poi, io appartengo alla classe media garantita: sono doppiamente privilegiato. So bene che il mio benessere e le mie garanzie nascono da rapporti di forza che hanno condannato e condannano miliardi di persone allo sfruttamento. Non posso dire di soffrirne sempre (se così fosse non vivrei); posso però dire che una parte di me lo percepisce sempre, per esempio ogni volta che uso gli oggetti e che compro le merci. In questo senso la violenza, la violenza sistemica, è la verità del nostro mondo superficialmente pacifico. Peraltro è sempre stato così: la storia delle società finora esistite è storia di lotta di classe. Vorrei che questo tipo di sguardo transitasse nella mia poesia; non vorrei farne un tema esplicito, ma mi piacerebbe che fosse percepibile in ogni pagina.
2.Un altro elemento caratteristico della tua poesia di cui si è parlato durante l’incontro è il suo alto tasso di autobiografismo, la presenza di riferimenti anche molto concreti e minuti alla storia personale. Una ragazza, ad esempio, è rimasta colpita dal fatto che nell’inedito Quattro superfici tu citassi per nome e cognome un tuo amico, lo studioso Daniele Balicco, raccontando un viaggio in auto da Chiusi a Roma. Come critico e teorico della letteratura (in Sulla poesia moderna) hai parlato di «autobiografismo empirico», tipico della poesia moderna, distinguendolo dall’«autobiografismo trascendentale», tipico di chi, come Petrarca, tipizza e trasfigura universalmente la propria esperienza particolare. Che rapporto c’è, almeno nella tua poesia, tra questi due poli dialettici?
Uno dei fenomeni culturali più importanti dell’ultimo decennio è l’inflazione della soggettività. C’è troppo io in giro; il pronome di prima persona singolare si svaluta come si svalutano le merci in sovrapproduzione. Peraltro l’io si è sempre venduto male perché le persone di cui ci importa davvero qualcosa sono poche e cambiano nel tempo. Ma se la soggettività si è inflazionata vistosamente nell’epoca dei social network, il fenomeno preesiste all’ultimo decennio e discende da ciò che continuiamo a chiamare, per comodità, mutazione antropologica. È in conseguenza di questo passaggio che l’idea di «partire da sé», di prendere la parola per esprimere se stessi, dilaga senza remore.
Le forme della scrittura autobiografica sono cambiate molto negli ultimi anni proprio perché il narcisismo e l’autoespressione fanno ormai parte del senso comune. Quando ho cominciato a scrivere poesie nella seconda metà degli anni Ottanta, evitavo con cura di usare la prima persona singolare. Credevo che l’io fosse il più lurido di tutti i pronomi; credevo soprattutto che io fosse un altro – la concrezione di forze sovrapersonali, il risultato dell’incrocio fra un codice genetico, una classe sociale, un gender, un’epoca, un ceto, una cultura, una rete di luoghi comuni. Gli autori cui guardavo erano i modernisti di lingua inglese e la loro poetiche dell’impersonalità. Poco dopo la pubblicazione della prima raccolta, La scomparsa del respiro dopo la caduta (1992), ho avuto una crisi: non riuscivo più a scrivere, quello che avevo fatto mi pareva irrilevante. Ho ricominciato anni dopo, nel 1997, in modo completamente diverso. Avevo trent’anni, ero diventato qualcosa, un destino irreversibile mi stava circondando per sempre. Se oggettivamente la vita che stavo vivendo era fatta di pezzi presi altrove, soggettivamente era sempre mia: era l’unica cosa che mi riguardasse davvero, l’orizzonte che non potevo oltrepassare. Nelle mie nuove poesie usavo la prima persona singolare. Volevo dire la verità sulla mia condizione ammettendo che ero solo un soggetto parziale, che non potevo assumere un punto di vista sovrapersonale, e volevo compromettermi dicendo cose che non avrebbero potuto essere ritirate. Erano dette a nome mio, mi implicavano per sempre. Le poesie dei Mondi sono nate così.
Il libro di poesie cui sto lavorando adesso, La pura superficie, è stato scritto negli anni in cui la soggettività si inflazionava sui social network. I testi che lo compongono adottano due strategie diverse: alcuni si allontanano dall’autobiografia usando soggetti letterari plurimi; altri sono autobiografici in modo estremistico, mettono su carta i nomi veri delle persone che hanno assistito alle esperienze di cui si parla, vogliono essere salti mortali senza la rete della finzione. La nota con cui il libro si apre dice questo: «La pura superficie è fatta di testi numerati e divisi in sezioni. Alcuni sono in versi, altri in prosa; alcuni sono scritti in prima persona, altri in terza (o in seconda); a volte la persona di cui si parla coincide con la persona che ha messo la firma sul libro, altre volte no; in certi casi la prima versione dei testi è stata scritta da Wallace Stevens come dice il titolo, in certi altri no. Queste differenze, fondamentali su un certo piano di realtà, sono, su un altro piano, del tutto irrilevanti».
3. Gli adolescenti sono (o sarebbero) molto sensibili, proprio per l’età, al linguaggio della poesia. Tuttavia quel bisogno di riconoscimento o rispecchiamento della propria individualità empirica nei versi è oggi appagato piuttosto dalla canzone pop o rock, che, almeno nelle forme più commerciali, tende piuttosto alla Gesellschaftslyrik (lirica di società), cioè a una rappresentazione fortemente codificata e stereotipica dell’esperienza (penso alle canzoni d’amore). Sei d’accordo? Secondo te questo che cosa significa?
Sono d’accordo con la prima parte della domanda; non credo però che il problema sia la natura codificata della musica pop e rock, anche perché non è più vero che la prima persona delle canzoni sia sempre uno stereotipo. Esiste da tempo una tradizione musicale il cui io si comporta esattamente come un poeta romantico o postromantico, ovvero cerca di annullare la distanza fra la prima persona artistica e la prima persona reale che mette la propria firma sulla copertina del libro o del disco. Secondo me le canzoni appagano il bisogno di rispecchiamento degli adolescenti meglio della poesia solo perché i loro modelli di soggettività sono più vicini a quelli in cui gli adolescenti si riconoscono: tutto qui.
4. Ogni vita / è solo se stessa: questa luce / bassa sulle case, i primi treni / che aprono il vento e ci sorprendono / in una specie di torpore, / la pastiglia nel bicchiere, gli adolescenti, / nel video, che cantano il dolore; / quando sembra che la mente nasconda / a se stessa il gesto di fuggire / la mattinata pura, i fatti nudi, / nel rumore di tutti il tempo che si perde / per essere solo ciò che siamo adesso, / per diventare solo solitudine. Questi versi di Pure Morning (da I mondi, 2010), come diverse altre tue poesie, sembrano portare il peso di una ricapitolazione dell’intero Novecento, il secolo del “no” per antonomasia: il secolo che ha rifiutato la tradizione con le avanguardie, il secolo che ha cercato di dirci soprattutto ciò che non siamo e ciò che non vogliamo, il secolo che ha cercato di scavare una residuale nicchia di dicibilità della vita e dell’esperienza in arte quando del linguaggio stesso ormai non ci si fidava più. Dopo quel secolo ci resta solo da constatare che Ogni vita / è solo se stessa, che nulla di più, nessuna aura, nessun sogno, nessun senso ulteriore può essere rappresentato?
Nella prima parte del secolo, le macerie del Novecento sono fisiche; nella seconda parte, almeno per quanto riguarda l’Occidente, sono culturali. Un intero apparato di discorsi è franato. Non mi riferisco tanto a ciò che è accaduto negli ambienti intellettuali; mi riferisco a ciò che è accaduto nella vita quotidiana delle masse. Nessuno più crede nelle forme di trascendenza religiosa o laica che hanno accompagnato gli europei per secoli o millenni: Dio, la Patria, la Politica, il Dovere. L’entità più resistente è anche la più arcaica, Dio; ma il Dio che sopravvive non è quello che pretende di regolare i comportamenti individuali con le tavole della sua legge: è il fantasma genitoriale, il feticcio arcaico cui molti continuano a richiamarsi quando debbono affrontare le soglie della vita (la morte, la malattia, la sconfitta) e non trovano risposta. In questo senso, “ogni vita è solo se stessa” e la cerchia dei propri altri significativi che funzionano da prolungamento dell’io: la famiglia, gli amici. Nella mia poesia questo stato di cose viene circondato da un implicito segno-meno. Tuttavia capisco sarebbe possibile accoglierlo con una Stimmung molto diversa: la rimozione delle domande ultime e la consacrazione della vita privata comune, quella che si gioca nell’ambito tutto immanente della famiglia, degli affetti privati e del lavoro, sono state per molti una conquista. Da un punto di vista simbolico l’ascesa del privato e della sua Weltanschauung è il vero trionfo della borghesia, e prima ancora di un elemento della vita popolare che la borghesia ripulisce e rende presentabile. D’altra parte la cultura umanistica ufficiale continua a rimanere fedele a un apparato di valori che Nietzsche avrebbe chiamato aristocratici, un sistema di virtù eroico-politiche, ascetiche o sacerdotali che provengono da altre stagioni della storia umana e al cui cospetto la vita privata comune continua a sembrare troppo chiusa in se stessa, troppo autocentrata, miope e meschina. Tutto intorno invece i valori popolari e borghesi impongono la propria egemonia sul quotidiano e rendono incomprensibile la cultura della crisi.
Qualche anno fa, alla fine di un esame su Leopardi e Montale, una studentessa mi chiese “ora che l’esame è finito posso farle una domanda? Perché questi poeti sono tutti così depressi, tutti così tristi? Perché parlano solo di cose tristi?”. È una domanda molto intelligente: significa che la cultura del negativo cui Leopardi e Montale appartengono, la cultura che non riesce a trovare un senso dopo la fine delle grandi trascendenze religiose e laiche, è estranea alla logica interna della vita quotidiana popolare e borghese. Quest’ultima, fino a quando resta lontana dalle soglie, non soffre di insensatezza, sta perfettamente in piedi grazie ai propri valori, alla propria miopia protettiva, alla rimozione delle domande ultime sul Senso e la Giustizia. Chi le appartiene può angosciarsi per problemi concreti, ma non capisce versi come “a me la vita è male” o “la vita è questo scialo/ di triti fatti vano/ più che crudele”. E non può capire, si parva licet, perché ogni vita debba essere solo se stessa. Quando scrivo mi capita di pensare spesso alla domanda di quella studentessa.
5. Quali autori o libri di poesia consiglieresti a uno studente delle scuole superiori?
Consiglierei di comprare l’antologia di Mengaldo Poeti italiani del Novecento, di aprirla a caso e di farsi un’idea.
Fotografia: G. Biscardi, Vetrina (dalla serie “bianco”, Palermo 2006.
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Editore
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• «C’è però un’altra ragione, meno spettacolare e più profonda, che mi fa essere sensibile al tema della violenza. Benché i rapporti di forza fra le aree della Terra si stiano ridefinendo, benché l’Europa occidentale e gli Stati Uniti vengano da quasi un decennio di crisi economica irrisolta, l’Occidente è ancora la parte ricca del pianeta. All’interno dell’Occidente, poi, io appartengo alla classe media garantita: sono doppiamente privilegiato. So bene che il mio benessere e le mie garanzie nascono da rapporti di forza che hanno condannato e condannano miliardi di persone allo sfruttamento. Non posso dire di soffrirne sempre (se così fosse non vivrei); posso però dire che una parte di me lo percepisce sempre, per esempio ogni volta che uso gli oggetti e che compro le merci. In questo senso la violenza, la violenza sistemica, è la verità del nostro mondo superficialmente pacifico. Peraltro è sempre stato così: la storia delle società finora esistite è storia di lotta di classe. Vorrei che questo tipo di sguardo transitasse nella mia poesia; non vorrei farne un tema esplicito, ma mi piacerebbe che fosse percepibile in ogni pagina»
APPENDICE
Mio commento:
Ecco un esempio di marxismo “addomesticato”. chi parla è «sensibile al tema della violenza», riconosce la sua collocazione di classe: « io appartengo alla classe media garantita: sono doppiamente privilegiato», usa ancora la “parolaccia” sfruttamento: « il mio benessere e le mie garanzie nascono da rapporti di forza che hanno condannato e condannano miliardi di persone allo sfruttamento» (e persino la formula classica del materialismo storico di Marx ed Engels: « la storia delle società finora esistite è storia di lotta di classe»), evita gli “estremismi” troppo passionali: «Non posso dire di soffrirne sempre (se così fosse non vivrei)» .
E alla fine? Invece di proporsi un qualche «che fare» assieme ad altri, si limita ad esprimere il suo desiderio: « Vorrei che questo tipo di sguardo transitasse nella mia poesia». Ovviamente in modo non esplicito. Non sia mai! Troppo striderebbe una poesia-manifesto nei festival odierni da Pordenone a Canicattì o rischierebbe di finire nel ghetto protestatario. [E. A.]