I ragazzi, la poesia e un libro ritrovato
La poesia salva la vita
Avevo quattordici anni e Greta mi regalò un libro che divorai; come spesso capita, negli anni è finito nel dimenticatoio. Ma certi libri prima o poi ritornano, portando con loro la lei che sei stata e indicandoti una strada. Il libro in questione è La poesia salva la vita e l’ha scritto Donatella Bisutti: a riprenderlo in mano adesso, quel volume fa tenerezza. È un libro che parla di me, che gronda della mia adolescenza e di antichi furori: qua e là ci sono frasi evidenziate e colorate, disegni, epigrammi scritti da me e tentativi di poesia. Tentativi di cui mi sono sempre vergognata, perché il problema, quando si passa l’adolescenza a leggere e si continua a farlo per tutta la vita, è sentirsi sempre banali e mai all’altezza e essere il più terribile censore di te stessa. A scuola non ho mai scritto poesie, era affare da cameretta privata: sono cresciuta pensando che il testo poetico andasse interpretato e decodificato, che fosse un linguaggio segreto da tenere per me. In classe abbiamo letto molte poesie, le abbiamo vivisezionate e descritte, vi ho scritto saggi e commenti, mi sono formata ascoltando le voci dei grandi, senza sperimentare la mia. Da insegnante ho fatto scrivere ai ragazzi molte poesie, ma sempre come esercizi per ragionare su quella tipologia testuale, per imparare tecniche: per cui negli anni abbiamo scritto sonetti, endecasillabi, poesie ermetiche, versi liberi, rime incatenate baciate e chi più ne ha più ne metta. Esercizi di stile, insomma, fedele all’idea che se sperimenti ti resta più in mente l’apparato teorico (quella cosa che si chiama learning by doing, insomma). Ma quest’anno è stato un anno diverso, in cui ho toccato con mano a cosa serva la poesia e, come sempre, l’ho imparato dai ragazzi.
Noi siamo poesia
“Prof, che ne dice di Noi siamo poesia?”
Francesca ha un’intuizione folgorante, è circa mezz’ora che giriamo intorno al titolo da dare al nostro libricino di poesie che parteciperà a un concorso: a fatica siamo riusciti a selezionarne trenta, frutto di un percorso durato due mesi. “Noi siamo poesia”: siamo subito tutti d’accordo e io resto stupita di quanto abbiano capito in due mesi di immersione nei versi, non per scoprire tecniche ma per leggersi dentro, per cercare il loro sguardo sul mondo, la loro verità. È uno di quei momenti in cui sono orgogliosa e penso che non vorrei stare in nessun altro posto. Da settembre ogni lezione del venerdì è iniziata con una poesia, letta in classe e discussa insieme. Abbiamo letto Tognolini, Montale, Paz, Neruda, Dickinson, Pascoli, Candiani, Whitman, Saba, Penna, Palazzeschi, Catullo, Euripide. Meraviglia, a giugno, quando ho chiesto loro se si ricordassero qualche poeta, me li hanno elencati quasi tutti, ormai sono nostri compagni di scuola hanno riso Andrea e la sua zazzera bionda. Io leggo la poesia e poi a loro spetta il compito di commentare sul taccuino: impressioni a caldo direi, di pancia. Matteo un giorno, dopo la lettura di E lasciatemi divertire, se ne è uscito con “prof ma la poesia è difficile, non si capisce, bisogna sempre interpretare. A me non piace, non la capisco”. “Quindi non ti piace nemmeno l’Iliade” ho ribattuto. “Ma quella non è poesia, quella racconta una storia, ti fa venire voglia di andare avanti a leggere, si capisce.” Certo, Matteo ha preso una cantonata, ma in fondo ha ragione e ha capito da solo la differenza tra la poesia epica di Omero, nata per essere raccontata e trasmessa oralmente e le liriche moderne, frante, scisse e complesse. Da aprile la nostra officina dello scrittore è diventata officina dei poeti: davvero non pensavo che quello sarebbe stato il linguaggio più congeniale ai ragazzi, davvero non immaginavo tanto entusiasmo, davvero non credevo che tra i ringraziamenti di fine anno sarebbe spiccato un corale “grazie per averci fatto diventare poeti” (a dodici anni si ha il diritto di pensare in grande, no?). La poesia ci è servita per conoscere noi stessi: uso il plurale perché ho scritto anche io. Uno dei principi del writing work shop è che il docente lavora insieme ai ragazzi, scrive insieme con loro, applica le tecniche che spiega a lezione e mostra i suoi testi, insieme a quelli d’autore. So che non a tutti i docenti piacerebbe una cosa simile: per me è significato mettermi alla prova, creare empatia coi ragazzi e misurarmi in prima persona con quanto chiesto loro. Per circa due mesi ci siamo dedicati ai versi: cosa abbiamo scoperto? Lascio la parola a loro ed è un trattato sulla poesia che si commenta da solo:
Per scrivere una poesia ci vuole tantissimo tempo e tanta cura: bisogna guardarla e riguardarla e controllarla prima che sia definitiva. Mi è piaciuto immaginare di essere una poetessa (Margherita).
Mi è piaciuto tanto scrivere il calligramma. Ho scoperto che per scrivere una poesia bisogna pensare per immagini (Giulia).
La poesia con poche righe tira fuori tutto quello che hai in testa e nel cuore (Emma).
La poesia non è solo un testo noioso ma è accessibile a tutti ed è bellissima. (Leo).
Ho scoperto che posso impegnarmi più di quanto pensassi: la poesia è una cosa che adoro, mi fa rilassare e sfogare (Ame).
Ho scoperto che la poesia ti fa nascere emozioni e ho scoperto di avere un lato poetico (Andrea).
Non mi è piaciuto scrivere poesie, perché ci vuole pazienza e io non ne ho. E ho un po’ paura delle cose di me che ho scoperto (Elettra).
Per scrivere una poesia ci vogliono molto impegno e molte ore di lavoro e devi fare uscire tutte le emozioni che hai dentro: è bello scrivere le poesie in gruppo (Eren).
Per capire la poesia bisogna leggere tante poesie e tanti poeti (Nicholas).
Mi ha fatto scoprire che con la poesia riesci a riflettere molto (Daniele).
Mi piace esprimere le emozioni attraverso le parole e le immagini. Ho scoperto che per scrivere bisogna metterci impegno e pazienza e io non ho nessuna di queste cose: la poesia mi ha aiutato (Sarah).
Ho scoperto che poesia è tutto ciò che ci circonda e che anche io posso guardare con gli occhi di un poeta (Arianna).
Ho scoperto che scrivere poesie È BELLISSIMO!!! (Marco).
L’officina del poeta: la poesia è un occhio
Il percorso è riassunto in questa bacheca padlet, ma voglio provare a raccontare, a rendere viva l’esperienza di due ore di poesia a settima così strutturate: lettura e commento di una poesia d’autore, spiegazione di una tecnica e scrittura libera. In prima media il primo incontro con la poesia ho scelto che fosse con la poesia biografica, con raccontare di sé. Siamo partiti dal loro nome, ogni buon testo di prima media presenta l’esercizio dell’acrostico: io l’ho unito ad alcune regole base per scrivere poesie, usando La poesia salva la vita e le poesie lì citate. Non volevo facessero l’esercizio della poesiola in cui ogni verso inizia con l’iniziale del nome e basta, volevo che all’interno di una struttura fissa iniziassero ad andare in profondità: perché la poesia è un occhio che ci fa provare sensazioni diverse, è reale e concreta. Ma per fare questo bisogna usare le parole giuste. La nostra poesia di riferimento è stata da un lago svizzero di Eugenio Montale, l’acrostico che il poeta dedica a Maria Luisa Spaziani:
Sei tu che brilli al buio? Entro quel solco
Pulsante, in una pista arroventata,
alacre sulla traccia del tuo lieve
zampetto di predace (un’orma quasi
invisibile, a stella) io, straniero,
ancora piombo; e volo alzata un’anitra
nera, dal fondolago, fino al nuovo
incendio si fa strada, per bruciarsi
So bene che si tratta di una poesia complessa, io li ho guidati a scoprire le parole difficili, le immagini create, la dicotomia luce e buio, il campo semantico del fuoco: hanno capito bene, però, che le parole della poesia non hanno un solo significato, creano immagini e sensazioni diverse. Ogni ragazzo ha scritto il suo acrostico: per ogni poesia scritta vale lo stesso metodo che uso per i testi in prosa. Me la sottopongono e io suggerisco, do consulenze: parlo piano scrive Andrea “sicuro che non trovi un verbo che ci faccia vedere che stai parlando sottovoce? nella poesia per adesso aboliamo gli avverbi, cerchiamo parole dense” Andrea riflette e estrae dal suo cilindro sussurro. Poi abbiamo conosciuto Govoni e il suo Autoritratto: ciascuno ha prima provato a trovare oggetti, immagini con cui confrontare le parti del suo viso. Abbiamo imparato, così, cos’è la metafora. I miei capelli sono alghe mosse e chiare (Emma), I miei occhi sono televisioni sempre accese (Alberto), La mia bocca è una sputa fuoco (Luciano): analogamente a quello che fa Govoni hanno disegnato il loro calligramma. Cose che fanno domenica, sempre di Govoni, è stata la nostra prima poesia ricalco, un testo cioè da prendere come modello e da replicare nella struttura e nei temi. Cose che fanno domenica mi è servita a mostrare ai ragazzi che la poesia crea immagini, prende i ricordi di ciascuno, li inghiotte e li rende universali e che, soprattutto, qualsiasi cosa può diventare oggetto di poesia. Questo è il ricalco di Aurora:
Cose che fanno domenica
L’odore del caffè dalla cucina
Rumore del fischietto
Passi di scarpe con il tacco
Prato fiorito
Vestiti belli profumati
Motori di macchine che si accendono
Grida di bambini
Cinguettii di uccelli
Cielo azzurro
Palloni che rimbalzano
Passi sottili
Rumore delle pagine di un libro
Suono delle campane a non finire
Odore del risotto nel forno
Pomodori lavati
Una tecnica interessante per scrivere di sé con la poesia è il biopoem: la costruzione di una poesia con versi a tema fisso, e di conseguenza la scoperta dell’importanza dell’anafora e dei parallelismi. Questa è la sua struttura:
Biopoem
Verso 1: il nome proprio
Verso 2: 3 aggettivi per descriverti
Verso 3: figlio/a di …./ fratello/ sorella di …..
Verso 4: che ama (metti tre persone, cose, sensazioni etc che ami)
Verso 5: che prova (metti tre emozioni o sensazioni che provi)
Verso 6: che si diverte a (inserisci tre cose che ti divertono o ti diverti a fare)
Verso 7: che ha bisogno di (metti tre cose che ti sono necessarie per vivere)
Verso 8: che ha paura (metti tre cose di cui hai paura)
Verso 9: che odia (metti tre cose che non sopporti)
Verso 10: che vorrebbe vedere (metti tre luoghi che vorresti vedere)
Verso 11: che vive a (metti dove vivi)
Dopo avere parlato di sé la sfida è stata quella di provare a raccontare in poesia ciò che li circondava e le emozioni provate. Un venerdì di aprile siamo usciti nel parco: la consegna era cercare di vedere con gli occhi della poesia la natura intorno. Parlare con immagini è il modo che usa la poesia per far capire, per mostrare senza spiegare come fa Octavio Paz in Scritto con inchiostro verde. Ho detto ai ragazzi che per scrivere una poesia devono guardare ciò che li circonda come un insieme di cose uniche, provare a concentrarsi sulle sensazioni che nascono e dare loro forma, usando parole evocative: la poesia attraverso i suoni crea immagini, infatti. Come accade nella poesia Nella Nebbia di Pascoli e come ha provato a fare Samuele nella sua poesia sul fiume:
Fiume
Il suo fruscio
Mi fa pensare
Il suo fruscio
mi fa pescare
il fiume è come me
a tratti inquieto
a tratti discreto
continuerò a tornare
da te
perché quando ti respiro
trovo la pace
dentro di me.
Una sera di giugno, il profumo dei tigli che fa già estate e la voglia di vacanza, ci siamo regalati un reading di poesia: la scusa era la premiazione del concorso interno. Ma ognuno, anche i genitori, si è presentato con una poesia da leggere e da scambiarsi: cento persone e cento poesie, la bellezza delle parole semplici. Abbiamo letto per più di un’ora: poesie dei ragazzi composte per il concorso o per quella sera, i caviardage creati pochi giorni prima, Prevert che il papà di Paola le leggeva da piccola, Leopardi che la mamma di Simone ha amato grazie a un professore e la mia Alda Merini che conobbi in una sera gelata in università. In quel momento ho realizzato che la scuola ha un merito grande nel far fare arte ai ragazzi, nel permettere loro di esprimersi e ho davvero capito perché la poesia salva la vita e perché quest’anno ho ritrovato quel libro per caso, o forse no.
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