Verso una nuova forma di saggismo? Su Futuro interiore di Michela Murgia
Poltrona o matita?
Ci sono libri che si leggono alla scrivania con la matita in mano, altri che si leggono in poltrona o comodamente distesi. Questo avviene perché ci sono libri che chiamano al dialogo, alla risposta, e altri che invitano al silenzio e all’ascolto. Futuro interiore di Michela Murgia (Einaudi, 2016) è del primo tipo: va letto con la matita in mano, e non perché sia un saggio da glossare (del saggio mantiene la tensione ma rinuncia alla forma), piuttosto perché è un libro con il quale si sente l’impulso di discutere.
Futuro interiore si divide in tre capitoli rispettivamente incentrati sui temi della cittadinanza (Cittadini di un mondo scelto), del valore politico della bellezza (Abitare la democrazia) e dei rapporti di potere (Capitani contagiosi). Sono tre temi, come si può facilmente intuire, profondamente intrecciati tra loro e inscritti con perizia in strutture argomentative coese e scandite in tre momenti: di confutazione di alcuni luoghi comuni, di argomentazione delle tesi dell’autrice, di delineazione di «orizzonti ideali» a partire da alcuni esempi concreti. Avvertiti che ci stiamo muovendo all’interno di una struttura pensata per convincerci, leggiamo il primo capitolo.
Appartenenza, città, potere
Per la Murgia «essere cittadini d’Europa oggi significa aderire a un’idea di cittadinanza statica» (p.11), frutto di un continente invecchiato e di un senso di saturazione culturale. Impietriti nel nostro immaginario, detentori di un «concetto monolitico di identità» (p.16), basato sullo ius sanguinis o lo ius soli, tendiamo a percepire le diversità come una minaccia e a prestare facile ascolto alle sirene della xenofobia, dimenticando, peraltro, il valore che la nostra modernità ha attribuito alla libertà di scelta dei popoli ad autodeterminarsi. Cittadini di un mondo in corsa, ci ritroviamo a praticare invece forme inattuali di cittadinanza, come quella patriarcale del diritto di sangue o il principio del diritto di cittadinanza che deriva dal suolo, che nel secolo scorso ha generato guerre e imperialismi. È condivisibile questa lettura? In effetti, anche se incappando in qualche semplificazione, la Murgia mette a fuoco una tendenza storica importante: l’instaurarsi di una relazione circolare tra identità infragilita, paura verso i portatori di altre identità, tendenza alla chiusura entropica e autodistruttiva delle comunità (Brexit docet). Eppure tra questi estremi e le forme storiche che li hanno individuati, e cioè tra il modello occidentale dell’assimilazione delle minoranze e quello americano del melting pot, esiste, secondo la Murgia, una terza possibilità rappresentata dal multiculturalismo canadese e da un’idea di cittadinanza basata sulle scelte di appartenenza degli individui, su di uno ius voluntatis: «l’appartenenza alla comunità è una dimensione di autoriconoscimento» (p.32). Può bastare? Forse no, soprattutto se non si considera che l’arroccamento difensivo delle comunità occidentali è la conseguenza politica di un modello economico egoistico e distruttivo. Non si può modificare l’uno senza scalfire l’altro. Ma registriamo a matita questo primo dato: tratteggiato un quadro fosco si sente il bisogno, pur con qualche forzatura, di snidarvi un po’ di luce.
Stessa dinamica discorsiva, con intuizioni a mio modo di vedere ancora più interessanti, nel capitolo Abitare la democrazia. Qui si affronta il tema della bellezza come questione politica, del potere performante degli spazi urbani che inducono comportamenti concreti, passando velocemente in rassegna le «narrazioni urbanistiche» (p.39) delle nostre città, da quella classica, espressione di diseguaglianza, a quella dell’edilizia popolare novecentesca, dimostrazione folgorante della rinuncia a una bellezza offerta a tutti, sino al paradigma ingegneristico oggi dominante, per il quale «non possono esistere spazi senza funzione predefinita, o peggio ancora, comportamenti per i quali non sono stati predisposti degli spazi» (pp. 47-48). E tuttavia ci sono categorie sociali, comportamenti individuali, modi di vivere lo spazio che sfuggono a questa funzionalità prescrittiva: i luoghi polisemantici e tutti i fenomeni di «disordine urbano» (p. 50) esprimono una forma di disadattamento e al contempo una forza di dissenso verso l’ordine costituito, vanno in attrito con il resto del paesaggio cittadino e permettono di leggere e discutere la questione della marginalità sociale, della giustizia e della bellezza in rapporto diretto con la politica. Allo Zen di Palermo, alle case di Quarto Oggiaro di Milano, al Sant’Elia di Cagliari è, secondo la Murgia, possibile opporre l’esempio dell’Istituto del mondo Arabo a Parigi o la Biblioteca Salaborsa a Bologna, case civiche che esercitano una funzione di «pedagogia urbana» (p.53). Annoto a matita. Curiosa dei luoghi, li comincio a cercare su internet. Mentre google fa la sua ricerca, registro a margine del libro un marcato e dichiarato bisogno di additare soluzioni, anche utilizzando gli strumenti dell’altrui mestiere. Un po’ come facevano gli scrittori fino a qualche tempo fa, prima di fare gli specialisti, prima di parlare tra di loro di loro stessi. Mi domando se questo tipo di voce oggi può risultare ancora udibile e autorevole. Di colpo indagare questa prospettiva mi sembra più interessante della ricerca di google che ho attivato. Non consulto nessun link e vado avanti.
Nel terzo capitolo la Murgia tratta di potere, di gerarchie, di giungla sociale e poi, di contraccolpo, di «filiera di fragilità paritarie» (p.70), di diritti dei più deboli, di empowerment degli emarginati. E anche qui cita due esperienze utili a immaginare una nuova rotta: l’esempio dei processi partecipativi francesi per coinvolgere le popolazioni nelle scelte, l’esperienza dei gruppi creativi fondati da De Masi, basati sulla degerarchizzazione delle decisioni e sulla ricerca di soluzioni divergenti. Annoto, ma in realtà non mi interesso quasi più al filo del discorso di cui ormai intuisco l’orditura. Nella mia mente si è annidata un’idea e adesso tocca a me parlare.
Scrittore batte esperto?
La dizione del libro è a dominante narrativa: non ci sono note, pochissime citazioni, nessun rimando bibliografico, uso critico e creativo dell’aggettivazione, tono medio. Malgrado ciò l’eco di numerosi studiosi è ben udibile (da Bauman ad Habermas a Said, dalla Nussbaum a Settis a De Masi, quest’ultimo tra l’altro esplicitamente menzionato).
Questa cifra stilistica, più affabile che specialistica, si inserisce in una tendenza, già presente in molti blog e in collane editoriali come Solaris e Controtempo: è una nuova forma di saggismo, attraverso cui i nuovi intellettuali si mettono alla ricerca di un più vasto pubblico, esprimendo così in forme nuove, più testimoniali che accademiche, la tensione dimostrativa prima affidata alla forma-saggio. Il che è senz’altro una buona notizia, purché l’affabilità non comporti la perdita di rigore (che qui si registra nell’uso ingenuo di alcune categorie, come quella di nativi digitali). Questo fatto è importante e, al di là di questo libro, andrebbe indagato: dopo avere delegato per anni il discorso pubblico alla parola degli esperti, si sta invertendo la tendenza a vantaggio degli scrittori? E se così è, gli scrittori come costruiscono il loro discorso? In che modi reinventano la forma-saggio? In che rapporti sono con la verità? A partire da quale autorità parlano?
Passare la palla senza giocarla
Devo ammettere che la postura intellettuale assunta da Michela Murgia mi ha colpito e indispettito al tempo stesso. Colpito perché come dicevo va in frizione coi tempi che corrono. Indispettito per i meccanismi di delega che instaura senza troppo pensarci su. Mi spiego meglio. A partire da una propria visione «interiore», la Murgia incarica le generazioni che verranno di modificare il «futuro» delle nostre società, a cui la generazione adulta attuale (quella dei nati intorno agli anni Settanta), «ammarata nel mezzo di due fondamentali cambiamenti paradigmatici, uno sociale e uno tecnologico», «figlia dei baby boomers e genitrice dei nativi digitali» (p.4), non avrebbe accesso. Gli adulti di oggi «hanno mancato il tempo di ogni rivoluzione e lo sanno» (p.4), privi di una dimensione storica propria, possono allora solo far da pontieri, passare la palla senza giocarla.
Il tema sottotraccia del libro, che forse ne guida la genesi, è allora la partecipazione politica degli intellettuali quaranta-cinquantenni ai problemi del nostro tempo. Come fare a superare la morsa dell’inazione e a far scaturire dal disagio una qualche reazione? Qui la Murgia converge con il motivo andante dell’anatema generazionale: siamo una generazione di tagliati fuori, possiamo solo «sopravvivere e cercare di mantenerci visibili» (p.3). Eppure in questo lasso di tormenti esistenziali, di giustificazioni antropologiche all’imbambolamento, altri nostri coetanei si muovono e modificano il mondo. Le destre affondano i loro denti nei corpi morenti degli stati sociali, l’Europa viene smantellata, i paesi sfruttati vengono rimossi dal discorso pubblico e persino cancellati dai nostri privati sensi di colpa. Mi domando allora dentro quale illusio ci stiamo cacciando e a quale quadro di rappresentazione stiamo appendendo il cappello dell’indifferenza. Mi domando se l’intellettuale che si riserva solo il diritto di sognare ha diritto ai suoi sogni. E mi chiedo sinceramente perché chi verrà dopo di noi dovrebbe trovarsi in condizioni storiche migliori delle nostre. Siamo in attesa dello stadio finale dell’insopportabilità? Solo questo?
Fotografia: G. Biscardi, Ritratto, Palermo 2016
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