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Nizza e la nuova guerra mondiale: riflessioni di un’insegnante di letteratura

 Avevo in mente di scrivere un articolo sulla letteratura, la critica e l’insegnamento ma i drammatici fatti di Nizza hanno sparigliato tutti i miei pensieri, i ragionamenti, le riflessioni che si aggrumavano nella mia mente in queste ultime settimane. Mi spingono, mi costringono a ripensarli sotto un diverso profilo.

Il punto di partenza era un libro pubblicato nel 2013, che avevo perso allora e recuperato ora, in modo felicemente fortuito: “L’altra critica. La nuova critica della letteratura tra studi culturali, didattica e informatica” di Raul Mordenti (Editori Riuniti). Pagine che, ampliando i confini della letteratura, della critica e della didattica oltre i limiti del continuum – diacronico, storicistico, italocentrico, occidentalistico – allargano lo spazio delle nostre frontiere culturali, dei nostri orizzonti mentali, sedimentati nella e dalla tradizione. Ci inducono, appunto, a considerare il discontinuum, lo scarto, la rottura, il momento discreto, la maglia che non tiene.

Una storicità diversa, ci suggerisce Mordenti, come quella, non positivista, auspicata da Walter Benjamin: che assume il punto di vista dell’alterità, dell’altro da sé, del diverso dal noto. Dell’oppresso, del vinto, dell’anonimo, dello straniero, del folle, dello sconosciuto; oggi, del terrorista. Solo cinque anni prima, nel 2008, Romano Luperini, riflettendo sull’anestesia nichilistica indotta sullo scorcio di fine millennio dal paradigma del ‘postmoderno’, in cui tanti intellettuali si sono pigramente accomodati per giustificare un colpevole distacco dalle cose del mondo, vaticinava che l’imminenza della storia degli anni a venire avrebbe trovato “canali e modi perché potesse di nuovo articolarsi un pensiero contrastivo”[1].

E così è. Nell’urgenza di quest’ultimo accadimento, la tragedia di Nizza – che si somma a tutte le altre, sempre più ravvicinate e frequenti – esperienza e racconto (quei “ due frammenti di una totalità infranta”[2] che, nella sua deflagrazione, sembrava avesse inaugurato l’estinzione progressiva dell’umanesimo, reificando, annullando l’umano e la storia nei gangli della tecnologia della “telecomunicazione e della telepresenza”[3]) ecco, mi pare che oggi si stiano traumaticamente ricomponendo. Costringendoci, come autori, insegnanti, intellettuali e lettori, ad una presa d’atto che non può più configurarsi come una possibile scelta individuale. Perché la guerra non è più solo uno spettacolo televisivo.

Il mondo è in guerra e la guerra c’è. Se è guerra la morte procurata, violenta e improvvisa di chiunque insieme a chiunque altro in un qualunque luogo, in ogni possibile momento. La guerra c’è, se si combatte al fronte, da militari in divisa, da droni addestrati, da cecchini spietati. C’è, se si mettono le bombe nelle stazioni, se si spara all’impazzata in un locale, se un nazista, un razzista o un terrorista si avventa su un raduno o in una piazza affollata, se si distruggono vite, città, ospedali da campo, in Africa o in Medio Oriente o in Europa o in America. La guerra c’è e c’è sempre stata, anche quando noi la guardavamo in televisione, crogiolandoci in un’inesperienza beota, mentre i signori del mondo continuavano a mandare soldati di ogni paese a combattere al fronte e tra i civili, mentre raccontavamo a noi stessi la bugia di averla arginata con la burocrazia delle istituzioni e degli organismi internazionali, ‘la favola bella che ieri ci illuse’ e che oggi può illudere solo chi vuole ostinatamente sopravvivere nell’ignoranza o nella falsa coscienza[4].

La guerra c’è, e tutti oggi ne facciamo di nuovo esperienza diretta. Prima o dopo. Chiunque, comunque, ovunque. In un nuovo assetto del mondo – e in una nuova ragione del mondo – che ci strappa via da qualunque “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà” [5] di restare ancorati ai vecchi modelli identitari, all’intransigente e miope manicheismo noi/loro, Oriente/Occidente, laicismo/ideocrazia, ma anche amico/nemico, ragionevole/irragionevole, giusto/sbagliato, vero/falso.

La complessità del mondo e della storia, il groviglio delle ragioni e dei torti, delle cause e delle conseguenze, della realtà e della rappresentazione si impone a tutte le latitudini con la ferocia delle sue rivendicazioni. E repentinamente ci obbliga a un altro sguardo, fuori dal canone, fuori dalla tradizione, fuori dai modelli teleologici consolidati: ci chiede di rinnegare la rassicurante ricostruzione di un passato progressista e magister vitae che abbiamo confezionato per decenni, forse per secoli, e riformularlo alla luce di questo catastrofico presente. Di rinnegare il racconto menzognero del lieto fine, come ancora ci suggerisce Mordenti[6], alimentato nel tempo anche dalla critica e dalla storia letteraria dominanti, e praticare un’altra critica, un’altra pedagogia, un’altra didattica, che conturbi le categorie dell’oppressore e dell’oppresso, della vittima e del carnefice, del concittadino e dello straniero. Un’altra didattica, che tessa un racconto intriso di un realismo globale, in cui ognuno di noi è testimone di un pezzo di guerra e di un pezzo di oppressione – guerra, guerra civile, guerra economica, guerra di religione, guerra di popoli – e ne fa, insieme a tutti, esperienza, sofferenza, racconto.

_________

NOTE

Fotografia: G. Biscardi, Lacrime, dittico 2013.

[1]R. Luperini, La fine del postmoderno, Alfredo Guida Editore 2008, p. 13

[2]  A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Bompiani 2006, p.  9

[3] Ibidem, p. 21

[4] Z. Didzdarevic, G. Riva, L’ONU è morta a Sarajevo. Dal genocidio alla spartizione, Il Saggiatore 1996

[5] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi 1967

[6]R.Mordenti, Ibid., p. 105

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