Requisitoria contro la tipologia B dell’Esame di Stato
«Professore, ma questo Walter Benjamin era un fascista o un borghese conservatore?».
Lo studente che recentemente mi ha posto questa domanda non era un ingenuo che ignorasse del tutto la storia del Novecento, né un qualunquista disinteressato alla politica, tutt’altro; ma stava cercando di venire a capo del brano che segue, tratto da Per una critica della violenza (in Angelus novus):
Per quale funzione la violenza possa, a ragione, apparire così minacciosa per il diritto e possa essere tanto temuta da esso, si mostrerà con esattezza proprio là dove le è ancora permesso di manifestarsi secondo l’attuale ordinamento giuridico. È questo il caso della lotta di classe nella forma del diritto di sciopero garantito ai lavoratori. I lavoratori organizzati sono oggi, accanto agli Stati, il solo soggetto di diritto cui spetti un diritto alla violenza. Contro questo modo di vedere si può certamente obiettare che l’omissione di azioni, un non-agire, come in fin dei conti è lo sciopero, non dovrebbe affatto essere definita come violenza. Questa considerazione ha certamente facilitato al potere statale la concessione del diritto di sciopero, quando ormai non si poteva più evitare. Ma poiché non è incondizionata, essa non vale illimitatamente.
Si tratta di uno dei documenti del dossier della tipologia B dell’Esame di Stato del 2014, dal titolo «Violenza e non-violenza nel ‘900».
Ora, mi rivolgo direttamente al lettore, che presumo adulto, colto e, molto probabilmente, insegnante di materie umanistiche come me. Caro lettore, hai capito, precisamente, di che cosa parli qui Benjamin? Credo solo e soltanto se conosci bene questo autore, sebbene neanche questa sia una garanzia: io ho letto a suo tempo Per una critica della violenza, ma per comprendere questo breve brano, mal estrapolato, sono dovuto andare a rileggere il saggio quasi per intero. La memoria raramente soccorre fino a questo livello di dettaglio.
Dunque siamo di fronte a un testo di difficile comprensione, decontestualizzato e di autore sconosciuto: Benjamin, infatti, non è filosofo del canone scolastico e non viene letto neanche come critico letterario (semplicemente perché a scuola non si legge critica letteraria). Proviamo allora a metterci nei panni di un nostro studente e domandiamoci: in che situazione si trova davanti al dossier di documenti della tipologia B (saggio breve / articolo di giornale) della prima prova dell’Esame di Stato?
La tipologia B: una promessa fallita
La scrittura documentata è stata inserita ormai più di quindici anni fa nell’Esame di Stato in implicita polemica con il vecchio “tema”. Questo, infatti, sarebbe fondato sull’assunzione – diciamo latamente idealistica – che il processo della scrittura sia una concretizzazione di idee partorite dallo spirito autonomo e creativo del soggetto, mentre il processo di scrittura è, piuttosto, la rielaborazione di idee e lingua di testi preesistenti: di qui la necessità di fornire allo scrivente dei documenti dai quali partire. In un senso molto più elementare, il dossier dovrebbe fornire allo studente delle idee cui ispirarsi (da rielaborare, però), per evitare la sequela di banalità scolastico-buoniste dei vecchi temi.
Ma l’osservazione più comune che, fra docenti, facciamo davanti a un saggio breve o articolo di giornale troppo spesso è “si tratta solo del copia-incolla di citazioni giustapposte, tenute insieme con la colla di cattiva qualità di connettivi del genere ‘ma c’è anche chi pensa che’, il tutto concluso da una opinione personale irrelata rispetto alle tesi precedenti, e del tutto scipita e ovvia”. Come se la navigazione attraverso il mare dei documenti avesse lasciato gli studenti perfettamente asciutti, senza che ne avessero, nemmeno per errore, assorbito qualche goccia.
In questo intervento non voglio né offrire un’analisi generale della prima prova dell’Esame di Stato, né proporne possibili riforme (l’hanno già fatto, di recente, Romano Luperini su questo stesso blog e Guido Baldi in una sua raccolta di saggi sulla scuolai). Quello che mi propongo di fare è, piuttosto, abbozzare qualche ipotesi su alcuni dei motivi per i quali una tipologia di scrittura nuova e promettente sia invece fallita abbastanza miseramente, come dimostra il riscontro empirico sui testi degli studentiii. La mia speranza è che questo intervento possa comunque fornire, e contrario, indicazioni in positivo per una prova di maturità riformata e possa, soprattutto, essere un invito a riflettere sul più generale problema dell’interpretazione dei testi.
I tre difetti della tipologia B
Credo che i difetti della tipologia B siano difetti non collaterali, ma strutturali, e che dipendano dalla presenza stessa di un dossier: proprio quello strumento che avrebbe dovuto rendere la scrittura più documentata, circostanziata e meglio argomentata. In questa tipologia, infatti, lo studente si trova a dover compiere un’operazione preliminare al processo di scrittura e alla stessa impostazione della traccia (scaletta, mappa delle idee, ecc…): leggere e interpretare dei testi. La mia ipotesi è che i problemi nascano già in questa fase ed essi non possono che ripercuotersi a cascata sul resto del percorso.
1) Completa decontestualizzazione dei documenti. La difficoltà del brano da Angelus novus è certamente una difficoltà specifica e non generalizzabile, perché Benjamin è scrittore sottilissimo e dallo stile tutt’altro che chiaro; tuttavia anche di fronte a prose meno ellittiche e contorte il problema della difficoltà di comprensione di un breve estratto decontestualizzato dal testo originario e dall’opera dell’autore (macrotesto, per usare il lessico dell’intertestualità) resterebbe, e gigantesco.
È noto che la comprensione di un testo non avviene nel vuoto e sulla base di una mera addizione delle sue informazioni esplicite, ma è fondato sulla capacità di fare ipotesi, inferire informazioni implicite, collegare il contenuto letto alle proprie conoscenze sul mondo e sugli altri testi (l’«enciclopedia»). Soprattutto nel caso di testi culturalmente complessi e stratificati, fondamentale è l’enciclopedia colta del lettore. Torniamo all’estratto di Benjamin.
Per comprendere il discorso che egli fa sul diritto di sciopero, sarebbe necessario collocarlo entro un’opposizione concettuale illustrata nelle pagine precedenti: quella tra giusnaturalismo e concezione del potere come istituzionalizzazione e normalizzazione di un originario atto d’arbitrio. Solo entro questa opposizione si può comprendere in che cosa consista la minaccia della violenza per il diritto e che cosa significhi che il diritto di sciopero (e la lotta di classe ad esso connessa) sia proprio il luogo in cui quella minaccia si mostra paradossalmente, perché «le è ancora permesso di manifestarsi secondo l’attuale ordinamento giuridico»: la classe operaia ha un diritto alla violenza legalmente riconosciuto che contraddice il monopolio della violenza che spetta solo agli Stati. (Quest’idea, peraltro, non può essere effettivamente compresa al di fuori di un’adeguata contestualizzazione storica: su questo aspetto cfr. punto 3).
Aggiungiamo un’altra osservazione, solo apparentemente di dettaglio. Quando noi docenti insegniamo a scrivere un saggio breve o un articolo di giornale, ci premuriamo sempre di spiegare che le citazioni esplicite e i richiami puntuali a uno dei documenti vanno sempre accompagnati dall’indicazione della fonte. Si tratta certamente di un’abitudine che è bene far acquisire, ma forse dovremmo onestamente ammettere che, se ci si ferma solo a questo, si tratta di un’abitudine piuttosto esteriore. L’indicazione delle fonti, infatti, non pertiene solo alla correttezza nel campo dei “diritti d’autore”, ma è anche il segnale di un dialogo con le idee altrui, di cui ci si è nutriti per arrivare alla nostra opinione.
Il nome dell’autore e il titolo dell’opera, se noti, creano ancor prima della lettura un sistema di aspettative nell’interpretazione (e le aspettative sono già parte dell’interpretazione stessa): è infatti evidente che da un testo sulla violenza di Benjamin ci aspetteremo idee molto diverse da quelle di un testo di Hitler o Capitini. Ma se l’autore è perfettamente sconosciuto? Proviamo a metterci ancora nei panni del nostro studente. Se quel testo, invece che di Benjamin, fosse, poniamo, di Herman Dooyeweerd? Quest’informazione di contesto ci aiuterebbe a inquadrare quest’estratto dentro un quadro di categorie politiche chiaro o potrebbe, al limite, anche essere omessa? (Intendiamoci, nemmeno io so chi sia questo Dooyeweerd: ho trovato il suo nome a caso digitando su Google “filosofi politici olandesi”, per poter citare un nome ignoto ai più e far funzionare il giochino di immedesimazione).
2) Difficoltà a usare effettivamente i documenti come campioni di un ventaglio di tesi intorno a un argomento. I documenti intendono offrire un ventaglio di punti di vista e interpretazioni diversi sull’argomento proposto. L’idea sarebbe buona: si pensa in proprio, come si è già detto, sempre e solo compiendo una distillazione personale delle opinioni altrui.
Non solo. Un’idea, un’opinione, un’affermazione acquistano effettivo senso e vengono comprese profondamente solo entro un gioco di opposizione o sottile distinzione dalle altre: colgo il valore della prosasticità autobiografica della poesia di Saba solo confrontandola con la poesia prevalentemente ermetica e simbolista del suo tempo (e la prosasticità autobiografica di Saba è a sua volta ben diversa da quella solo superficialmente simile di un Gozzano); comprendo il significato delle tesi sulla continuità del fascismo con la storia dell’Italia liberale solo se la confronto con la tesi della discontinuità di Croce, e così viaiii.
Il problema è che lo studente, che come si è detto spesso non ha neppure delle precognizioni sull’autore, può ricavare queste relazioni, cioè la forma di questo “ventaglio di tesi”, solo dalla lettura dei testi. In altre parole, prima di poter usare i documenti per la scrittura vera e propria, egli deve compiere due operazioni non scontate né banali, che sono, nell’ordine: comprendere la tesi di fondo di ciascun testo e la sua articolazione interna, confrontare le diverse tesi e comprenderne le reciproche relazioni (di somiglianza, opposizione, di variazione sottile della stessa posizione). Quello che il mio studente stava cercando di fare, senza (comprensibilmente) riuscirci, era proprio questo: cercava di collocare le parole di Benjamin, che gli sembravano critiche del diritto di sciopero, dentro un’opzione politica fra le altre.
A scuola ci troviamo spesso a porre «domande illegittime»iv, cioè domande che presuppongono già la risposta. Nel caso della scelta del dossier della tipologia B accade un po’ lo stesso, nel senso che chi lo prepara possiede preventivamente una mappatura del ventaglio di opzioni intellettuali sul tema, dimenticando che per lo studente, invece, questa non è affatto un’informazione presupposta ma un’informazione ancora da ricavare. È significativo, a questo riguardo, il fatto che i documenti non siano mai corredati da un titolo: indicazione del topic che di solito non si nega a nessuno.
3) Completa destoricizzazione dei documenti. L’ultimo difetto è forse quello più noto ai docenti italiani, da sempre tra i più avvertiti riguardo alla dimensione storica del sapere. Fatta eccezione per l’indicazione della data di pubblicazione, la tipologia B appaia senza ulteriori indicazioni documenti appartenenti a epoche diverse, azzerando di fatto il legame che le idee hanno con la materialità concreta della storia. Ma sappiamo bene che non è possibile comprendere le analisi di Benjamin (peraltro eterodosse all’interno dello stesso marxismo: doppia complicazione per lo studente), ignorando le culture politiche dell’inizio del Novecento e le tensioni rivoluzionarie di quegli anni, come non è possibile comprendere la non-violenza di Gandhi o di King indipendentemente dal loro essere uomini di fede e capi religiosi, o indipendentemente dalla storia del colonialismo e della decolonizzazione.
La cosa che capita quasi sempre con un dossier così strutturato (voglio dire: storicamente destrutturato) è che le tesi vengono semplificate e ridotte dagli studenti ad opposizioni categoriali assiomatiche e metastoriche (per assenza di storia, non per suo superamento). Nel caso in questione, la semplificazione sarà “la violenza è un male, la non-violenza è un bene”, come dicono Gandhi e King (o i loro santini-simulacri di cui facciamo quotidiano commercio). Chi parla dell’uso della violenza – sia pure per analizzarne la funzione nella storia e non per farne l’apologia – semplicemente non può venire compreso, perché manca la cultura storica per farlo.
Di questo passo, la tipologia B finisce per diventare quasi peggio del vecchio tema: non meno banale e buonista, con l’aggravante che il copia e incolla di tesi altrui alleggerisce dallo sforzo di cercare parole proprie.
Alcune conclusioni
Un testo fuori contesto, o di cui sia impossibile ricostruire il contesto, non è, a rigore, neppure un vero testo, come sa chi in questi anni si sta interrogando sulla necessità di fornire un’adeguata contestualizzazione al brano latino o greco della prova di traduzione del liceo classico.
Nell’ipotesi, la peggiore, che la tipologia B resti com’è, ci si potrebbe almeno impegnare a dotare i documenti di un titolo e di un cappello introduttivo, nel quale dare alcune indicazioni (la biografia intellettuale dell’autore, i temi prediletti, il contenuto dell’opera dal quale si trae il documento, …), ma non generiche, bensì mirate a facilitare la comprensione di quel preciso documento (ancor meglio, infatti, sarebbe fornire un essenziale sommario del documento stesso). D’altra parte, abbiamo mai visto, in un’antologia, un testo senza questo minimo apparato?
Nel cappello introduttivo non bisognerebbe, poi, aver paura di indicare esplicitamente quale “posizione” il documento occupi nel ventaglio di tesi proposte. A chi osservi che in questo modo si orienterebbe e coarterebbe l’interpretazione dello studente si può facilmente rispondere che tale orientamento e tale coartazione avvengono già con la scelta dei testi: ciascun brano sta lì come esemplare di un campionario di tesi che la volontà e l’intelligenza di qualcuno ha selezionato, per cui non c’è ragione per celare quanto, esplicitato, lungi dal limitare la libertà dello studente, ne faciliterebbe anzi il compitov.
La tipologia B, quella che più ha tentato lo scarto rispetto alla nostra tradizione didattica, ha scommesso su troppi tavoli contemporanemente: comprensione di testi culturalmente complessi (ma forniti a spizzichi e bocconi); capacità di rielaborazione critica; capacità di sintesi interdisciplinare (gli ambiti tematici spesso si collocano a cavallo di più materie); verifica delle conoscenze autonome dello studente su temi di attualità; problematizzazione di temi di ambiti disciplinari dove raramente si lavora per problemi (ad esempio quello tecnico-scientifico, per il quale in questi anni si è chiesto di affrontare temi come “la connettività”, “la responsabilità etica della scienza”, “c’è vita nell’Universo?”. Le conclusioni che se ne possono trarre sono solo due: o il Ministero ignora contenuti e metodi delle materie scientifiche, nonché le prassi diffuse di chi le insegna, o presuppone che a “problematizzare” intervenga il solito deus ex machina, l’insegnante di Lettere, che, è risaputo, si occupa di tuttologia).
Credo che quella scommessa abbia molto a che fare con l’idea che la scuola dovrebbe puntare sempre più sulle competenze (trasversali, interdisciplinari, …) e sempre meno sui contenuti delle materie. Non posso né voglio aprire qui, in coda, questa questione, ma credo che una seria riflessione sugli stenti risultati della tipologia B ci potrebbe insegnare molto al riguardo: la conversione delle conoscenze in competenze è un lavoro molto lungo e difficile e finiamo sempre per supporla in forme che hanno quasi del taumaturgico.
Non esiste, infatti, una capacità di comprensione testuale astratta dalle conoscenze (sul mondo “reale” e sul mondo “culturale”, che per noi significa soprattutto i contenuti delle materie scolastiche); per arrivare a concepire un’idea originale su un tema occorre un lungo tirocinio sulle idee altrui (il lavoro sulla comprensione e sull’interpretazione, prima di ogni forma di produzione, è un capitolo sempre aperto e che la tipologia B risolve sbrigativamente, anche se in questo caso varrebbe la chiamata di correo nei riguardi di noi insegnanti); per verificare il possesso di competenze comunque complesse, sarebbe il caso di praticare un po’ di understatement e di considerare prove degne di un esame di maturità anche la comprensione del testo, il riassunto, una rielaborazione guidata e più rasoterra dei testi altruivi; per insegnare a non parlare a vanvera, occorre delimitare il discorso ad ambiti noti e ristretti. Quale senso ha, ad esempio, studiare filosofia per tre anni e non trovare nemmeno una traccia specificamente dedicata al “programma” di questa materia? È davvero così impensabile preparare dei dossier di documenti su tre quattro temi essenziali della filosofia fatta a scuola, senza pretendere che uno studente diciottenne sappia utilizzare le proprie conoscenze filosofiche per discettare di temi di epistemologia, di filosofia politica, di questioni sociali globali?
___________________
NOTE
Fotografia: G. Biscardi, Via Catania, Palermo 2015.
i G. BALDI, La prova scritta di Italiano alla maturità: proposta di una nuova articolazione, in ID., La sfida della scuola. Crisi dell’umanesimo e tradizione del dialogo, Paravia, 2016
ii L’esclusiva attenzione e preoccupazione verso la tipologia B è motivata anche dai numeri: l’anno scorso essa è stata scelta dal 74,7% degli studenti dei licei, dal 78,2% degli studenti degli istituti tecnici, dal 75,3% degli studenti degli istituti professionali (i dati dettagliati si trovano qui). Si può davvero dire, quindi, che questa tipologia è diventata “la” prima prova scritta dell’esame.
iii Nella traccia sulla violenza e la non-violenza, gli altri testi proposti erano infatti un estratto da Mosse, sulla brutalizzazione della politica tra le Due Guerre, uno da Arendt, sull’esaltazione vitalistica della violenza politica di stampo soreliano, e due estratti sul pacifismo, di Gandhi e di M. L. King.
iv Cfr. G. ARMELLINI, La letteratura in classe: l’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Unicopli, 2008.
v Se queste giunte paratestuali rischiano di sovradimensionare il dossier, tanto varrebbe ridurre il numero di documenti forniti a due soli testi, magari un poco più lunghi: una tesi pro e una tesi contro. Allo studente spetterebbe il compito di farne un riassunto preciso e articolato, argomentando infine la propria posizione. Certamente porteremmo la tipologia B oltre se stessa, ma non sarebbe un male, visto che il dossier, per molti versi, mi pare un tentativo confuso di procedere verso il critical thinking.
vi Spunti in questo senso possono venire da recenti prese di posizione di studiosi importanti: cfr., oltre al già citato saggio di Guido Baldi, L. SERIANNI, L’ora di italiano. Scuola e materie umanistiche, Laterza, 2010; ID., Leggere, scrivere, argomentare, Laterza, 2013; U. CARDINALE, L’arte di riassumere, Il Mulino, 2015.
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Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Ulteriore problema
Articolo complesso, che meriterebbe un’attenta analisi e discussione, tanto più che il discorso sembra andare ben al di là della prima prova scritta dell’esame.
Aggiungo però qui solo un ulteriore problema: non sono forse gli insegnanti stessi a doversi intendere su cosa siano un saggio breve e un articolo di giornale, oltre che, per esempio, su come si faccia una citazione? In proposito, mi sembra regni la più grande confusione, che inevitabilmente si riproduce poi negli allievi…
Noi insegnanti
Io sono molto d’accordo con Davide. E facendo il commissario esterno lo sono ancora di più: che problema valutare saggi che saggi non sono, articoli che non sono neanche saggi…
Credo anche io che se vogliamo uscire dal piattume generico e fumoso di molti studenti, dobbiamo prima di tutto uscirne noi, e non dico confrontarci su queste tipologie (cosa che a scuola chiedo da anni, ma invano), ma almeno informarci, e vivaddio, leggiucchiare un po’, riflettere su quel che viene scritto e che chiediamo agli studenti di scrivere.
Distinzione tra articolo e saggio.
Certo lavorare sui registri linguistici e’ cosa tosta. Ma nell’articolo deve esserci una “notizia”, e occorre lavorare su buoni modelli (io uso la Domenica del S24O, ma pure Repubblica o il Corriere, o Doppiozero…): una notizia di cultura, che serva da spunto, e aiuti i ragazzi a riflettere sulla vita culturale del paese, osservare le novità librarie, l’agilità di una lingua più disinvolta, la ricerca di un attacco interessante, e provare a imitare con cognizione di causa certi modelli illustri.
Il saggio e’ altra cosa e averne scritto aiuta il docente. Ma anche qui si può aiutare a distinguere, riconoscere, tendere verso.
A me la tipologia B piace. Trovo il fortissimo limite del tempo che abbiamo per fare educazione alla lettura/scrittura in classe. Ma gli obiettivi che dovremmo porci continuo a condividerli e a trovarli stimolanti.
@ Davide e Elisabetta
Il mio precedente commeto, in risposta a quello di Davide, è stato cancellato per un disguido sulla piattaforma. Mi pare comunque che sia rimasto sul blog per due tre giorni. Forse, perciò, sia Davide che Elisabetta hanno fatto in tempo a leggerlo. Siccome era piuttosto lungo, chiedo scusa se non potrò riscriverlo per ragioni di tempo. D’altra parte rispondere a Elisabetta, che forse già rispondeva a quel commento, ripetendo quanto forse anche lei ha già letto, sarebbe pletorico.
Mi limito perciò solo a due rapidissime battute: sì, noi insegnanti dobbiamo parlarci molto di più. A prescindere dal quel che si pensi della prima prova, abbiamo comunque il dovere di preparare ad essa i ragazzi. Io critico ferocemente la tipologia B, ma insegno a scriverla, a lavorare sui documenti, anche se decontestualizzati.
Non insegno, però, come ho detto, la distinzione tra saggio e articolo (e mi premuro sempre di farlo sapere all’eventuale commissario esterno). Credo infatti che se i testi dei ragazzi sono difficilmente incasellabili nell’uno o nell’altro genere, come dice Elisabetta, ciò dipenda proprio dal fatto che la padronanza dei due generi richiede competenze (di lettura di testi della medesima tipologia, innanzitutto: saggi e articoli di fondo), che i ragazzi non hanno. E sappiamo benissimo come ancora in quinta si debba lavorare su aspetti molto più elementari della testualità, come la coerenza, la coesione, la punteggiatura. Forse sono troppo rinunciatario, ma preferisco accontentarmi di un buon, genericamente inteso, “testo argomentativo”.
Ribadisco però che questa è un’opinione personale, che non implica, ovviamente, alcuna polemica per nessun’altra scelta.
Saluti a entrambi, DLV
@ Daniele e Elisabetta
Non avevo letto il commento precedente di Daniele. In ogni modo, rispetto a quello che leggo, in gran parte condivido. Non dico in tutto, in quanto, come già nell’articolo, ogni singola affermazione meriterebbe, in luogo di una semplice condivisione, ulteriori sviluppi, qua e là anche in prospettiva critica.
Un esempio: quanto alla distinzione tra saggio e articolo, e all’opportunità di insegnarla, ritengo importante che gli allievi, sul piano della ricezione, imparino a riconoscere le differenze strutturali e formali tra una scrittura saggistica e una giornalistica, ma che altro sia il piano della produzione, rispetto al quale non mi sembra realistico pretendere che le sappiano padroneggiare. Stando poi più strettamente alla tipologia B dell’esame: credo che le definizioni di “saggio breve” e “articolo di giornale” siano semplicemente entrambe fuori luogo.
Al di là però delle singole affermazioni, e dei relativi ulteriori sviluppi, su un punto credo ci si debba fermare. Elisabetta scrive: “Trovo il fortissimo limite del tempo che abbiamo per fare educazione alla lettura/scrittura in classe”. Mi chiedo: tra i nostri compiti vi è qualcosa di più importante? se non vi è nulla di più importante, perché non abbiamo il tempo per occuparcene? Premesso che si dovrebbe poi vedere come occuparcene, resta che una simile considerazione è indice di un qualcosa che non funziona nel sistema. Insomma, la questione di fondo, all’interno della quale ogni altra si inscrive, è a mio avviso quella relativa alla programmazione, che ho sempre visto trattata come incombenza puramente formale da espletare con copia-incolla, o magari risolversi, in sede di dipartimento, in una discussione sull’opportunità di fare Tasso a fine terza o inizio quarta.