Cinque domande a Demetrio Paolin, Selezione Premio Strega 2016
A cura di Roberto Contu
1) Ho appena terminato la lettura di Conforme alla gloria (Voland, 2016), il nuovo romanzo di Demetrio Paolin. La sensazione è quella di una lettura importante, di un libro che interroga, di un’esperienza personalmente scomoda. A bilancio immediato conservo l’impressione di un’architettura narrativa densa, di una scrittura necessaria, del tutto piegata alla decisione coraggiosa di percorrere a fondo la domanda sul male. Ho l’occasione di parlarne con Demetrio Paolin ma ancora prima delle possibili osservazioni sulla storia e i personaggi sento forte la voglia di conoscere l’esperienza privata dell’autore nella scrittura di un romanzo di questo tipo. Cosa hanno significato per te Demetrio gli otto anni di scrittura di Conforme alla Gloria?
È difficile dirlo, scrivere questo romanzo ha significato una lunga e pervicace immersione nel testo. Avevo l’impressione di dover onorare un campo di battaglia, perché sì Conforme alla gloria è stata una battaglia tra me e la storia che andavo raccontando. Per questo motivo gli otto anni passati sono stati otto anni di dedizione a trovare la scrittura giusta, a fare in modo che la storia si incastrasse, che gli episodi che avevo in mente si legassero gli uni agli altri il più “amichevolmente” possibile. Desideravo un romanzo che si facesse leggere, nonostante il tema, anzi che si facesse leggere in modo che il tema sotteso al romanzo arrivasse al lettore. Per fare questo ho studiato molto, ho letto e mi sono documentato. Non potevo accontentarmi di ciò che avevo appreso dal mio studio su Levi e sulla realtà concentrazionaria; avevo bisogno ad esempio di rendere credibile una famiglia tedesca della agiata borghesia tedesca di metà anni ’80, volevo rendere credibile la SS, o il trans argentino fuggito dalla dittatura militare. Questo ha significato dedicare ogni tempo al libro, avevo organizzato tutta la mia giornata, anche grazie alle persone che mi stanno accanto e mi hanno sopportato in questi anni, in funzione del libro. È stata un’opera d’artigianato. Io non credo nella scrittura come ispirazione, ho scritto ogni giorno, tutte le mattine, e poi alcuni giorni rileggevo, correggevo, studiavo testi legati a ciò che andavo componendo. Parlavo con amici, con studiosi esperti di queste materie. La scrittura insomma era diventata per me un affare di bottega in cui non solo il mio sapere, ma anche il sapere di molti altri è entrato in circolo.
Alla fine di questo lungo percorso posso dire che Conforme alla gloria e i suoi otto anni sono stati la mia più importate avventura umana, escludendo la nascita di mia figlia. Ora sono in una strana situazione di limbo, il libro è fuori e sta andando bene e io ne sono felice; nello stesso tempo mi sento come privato di qualcosa. Allora l’unica cosa che penso è che almeno funzioni, cioè che il lettore senta lo sforzo che ho fatto per dare a lui un romanzo che fosse il migliore possibile.
2) In un tuo precedente saggio ti sei occupato della narrativa degli Anni di piombo (Una tragedia negata – il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Il Maestrale, 2008). Con Conforme alla gloria entri attraverso la porta della letteratura nel regno del buio della Storia del XX secolo. Entrambi sono universi storici da te conosciuti non anagraficamente ma attraverso lo studio e la memoria degli altri. Quanto e come ha funzionato la tua esperienza di studioso e saggista nella costruzione del materiale narrativo di Conforme alla gloria?
Ovviamente mi è stata utile perché ho potuto muovermi in un tempo e in luoghi, usando personaggi reali e di finzione, che in parte rispondevano a categorie che conoscevo bene. Nello stesso tempo, però, ho notato alcune difficoltà: scrivere un saggio, compilare le fonti, ragionare sul testo altrui, provare a elaborare una propria interpretazione è una cosa ben diversa da dare corpo a una immaginazione. Nel secondo caso il rischio di strafare era alto, così come il rischio di risultare didascalico: non dovevo dimenticare mai, a ogni pagina, che non stavo producendo dei ragionamenti, ma delle storie, degli episodi. Per dirlo in una parola ho dovuto dimenticare di essermi occupato per circa venti anni di letteratura concentrazionaria e reinventare ogni episodio come se fosse nuovo. Per me ha contato molto anche il rapporto umano, di conoscenza e di frequentazione con alcuni deportati come Bruno Vasari e Bepi Calore, mi è servito soprattutto per non fare un errore gravissimo, che trattando un tema come la deportazione si rischia, ovvero quello di scrivere un testo “bello e falso” (riprendo in questa diadi la definizione che Levi diede al film della Cavani Il portiere di notte). Io non volevo scrivere un testo che funzionasse rispetto alla storia che volevo raccontare e che rispettasse la memoria, la vita e le opere delle persone di cui raccontavo. La critica letteraria, come io l’ho pensata e per quel poco che l’ho esercitata, mi ha insegnato un atteggiamento etico: ovvero il rispetto di ciò che hai di fronte sia esso un testo o la storia vera di una persona. Quindi ho cercato di muovermi tra le storie di questi uomini, come mi sono mosso e mi muovo nei testi, non dimenticando mai che il prodotto finale per quanto sia mio deve molto a ciò con cui mi confronto.
3) Nel libro risulta centrale la figura di Primo Levi, di cui per altro ti sei già occupato in Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014). Se è vero che scrivere di qualcuno significa conoscerlo meglio, cosa è significato per te non solo scrivere, ma in questo caso raccontare Primo Levi?
Scrivere di Primo Levi è stato come provare a raccontare il paese in cui ho vissuto per una vita. Levi per me è stato l’età adulta. Ho iniziato a leggerlo e a studiarlo seriamente all’università; ha rappresentato il passaggio da un tipo di lettura compulsiva e superficiale, a uno studio pacato, una riflessione su cosa era meglio o no leggere. È stato quindi guardare alla mia maturità, al mio farmi uomo e persona. A Levi e alla sua opera io devo molto, e quindi sentivo la necessità di mettere nelle pagine in cui l’autore torinese compare un nitore e una precisione, che non nasconda mai l’ombra e il chiaroscuro dell’uomo. Levi è stato un sommo descrittore di caratteri umani, ha avuto una capacità rara nel tratteggiare anche in poche righe un personaggio: io volevo misurarmi con quella potenza descrittiva, volevo ripagarlo di quanto mi ha trasmesso. Alla fine della scrittura credo di esserci riuscito, credo di aver restituito al lettore un ritratto di Primo Levi credibile, benché esso sia all’interno di un romanzo.
4) Il tema della Shoah trova ancora cittadinanza istituzionale soprattutto nel mondo della Scuola. Spesso però, da insegnanti, avvertiamo il rischio di una “retorica da giorno della memoria”, con il rischio di svuotare da dentro l’esperienza conoscitiva dei ragazzi di ciò che è veramente stato. A tuo giudizio un romanzo come Conforme alla gloria potrebbe fornire un nuovo punto di vista spendibile anche dentro le aule scolastiche?
La retorica della memoria è un grande rischio. D’altronde spesso nei ragionamenti del campo editoriale, si dice: “tale libro lo facciamo uscire in questo periodo perché c’è la giornata della memoria che ricorda X (sia X qualsiasi cosa tu voglia Shoah, foibe, incidenti stradali, violenza sulle donne etc etc)”. Questa ipertrofia della memoria ha a che fare con il disastro di questa classe politica incapace, che sa solo decretare giornate della memoria a getto continuo per non scontentare nessuna fazione. Il dibattito sociale e politico su queste domande è poverissimo perché appunto il più delle volte è legato a una bandiera, a mettere il proprio pezzo di potere e di visibilità su quella data occorrenza. Così facendo, perdendoci in quisquilie di poco conto, dimentichiamo che la memoria è uno strumento fallace, di non sempre facile dominio. Inoltre la memoria è uno strumento deperibile, ti dirò di più è biologicamente deperibile. I testimoni invecchiano e muoiono. La risposta dei difensori della giornata della memoria è che proprio queste occasioni servono a tener vivo il ricordo. In realtà con il passare degli anni questo tipo di manifestazioni diventano “celebrazioni”, si codificano in un rito con un determinato linguaggio; in una parola in una liturgia. Neppure la giornata della memoria dei campi di sterminio sfugge a questo. Ognuno di noi ha l’esperienza dell’aula magna gremita dagli alunni delle classi quarte e quinte di una scuola superiore, che stanno sedute in modalità rumore minimo mentre il deportato racconta la sua storia. Mi pongo alcune domande.
Quante di quelle parole vengono realmente e profondamente sentite?
Quanta di quella esperienza agisce nei ragazzi?
Come sono stati preparati i ragazzi a quella giornata?
Che tipo di studio, che tipo di lavoro è stato fatto sui testi?
Quale idea hanno loro di ciò che è accaduto in Europa tra il 1939 e il 1945?
Hanno idea che è una cosa a loro molto più prossima di quanto credono?
Oppure la sentono lontana come gli Assiri, i Romani o le Crociate?
Esiste una possibilità di creare un’urgenza e una vicinanza verso di loro?
Io credo che il compito di rispondere a queste domande spetti alla narrazione, che prende quegli eventi e ne fa racconto e invenzione. Ovvio non sto parlando di un operazione “sentimentale” e “moralistica” come possono essere La vita è bella o Il bambino con il pigiama a righe. Il tentativo che io ho cercato di perseguire è quello di un’opera narrativa che sia altrettanto disturbante come lo sono le memorie di Levi, di Amery o di Semprun, come lo sono le poesie di Celan, i romanzi di Manea o di Kertez. Io non voglio consolare con una storia che abbia un finale felice (pensate alla scena del carrarmato ne La vita è bella), io non voglio commuovere e far piangere chi mi legge. Io voglio che attraverso il mio romanzo si sappia che qualcosa di enorme e tremendo è avvenuto e che noi, pure venendo dopo, ne siamo testimoni, perché il lager è un evento così enorme, che ci tocca e ci riguarda proprio come fosse un nuovo peccato originale.
5) In una recente intervista con Paolo Zardi hai parlato di senso etico della scrittura. A tuo giudizio esiste ancora un margine di presenza per una storia e un libro di questo genere, in un mondo che sembra mal tollerare il peso specifico della memoria?
Diciamo che la risposta è già nel fatto che il romanzo ci sia e che abbia ricevuto, in maniera che ha sorpreso me per primo diversi riconoscimenti tra i lettori e gli addetti ai lavori (il Premio Strega e l’entrata nella dozzina è un po’ la prova ultima di questa attenzione al romanzo). Quando ho iniziato a scrivere Conforme alla gloria io volevo tentare qualcosa di nuovo e diverso nel panorama della nostra letteratura; volevo raccontare di questo nostro tempo senza, però, cadere nel provincialismo; sentivo il bisogno di qualcosa di più ampio. Questo è un romanzo sul nostro tempo, ma senza indulgere nel contemporaneo, è una allegoria, una riflessione su di noi, che ci riconosciamo guardandoci indietro, quasi fossimo gli indovini di Dante. Ho parlato di senso etico della scrittura, perché credo che Conforme alla gloria abbia a che fare più con il vero che con il bello. Il mio è un romanzo che non attiene tanto all’estetica (contrariamente a quanto si pensi ciò che ha mosso il mio stile non era tanto il giro di frase bello, ma il giro di frase che rendesse pienamente quello che avevo immaginato), ma all’etica ovvero a come noi, esseri umani, siamo rispetto al mondo e agli altri. È un romanzo in cui si prova a tracciare un confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è.
Permettimi di concludere così, qualcuno ha accusato il romanzo di mancare di speranza. Io credo che Conforme alla gloria delinei un certo tipo di universo e di visione del mondo che non poteva avere finale diverso. C’era una necessità narratologica: date le premesse la storia non poteva che finire così; e un’altra etica: il lettore non può essere ingannato. Se hai deciso di raccontargli una storia non puoi mentire, non puoi edulcorare il finale soltanto perché ci vuole la speranza. Io credo che la speranza nel mio romanzo stia nel fatto che esso c’è, nel fatto che va nelle librerie, muove l’animo delle persone, si fa leggere e modifica in maniera più o meno percettibile il vissuto del lettore. Forse il senso ultimo della tua domanda può essere così riassunto: “Dove sta la speranza?”. Ecco la domanda più segreta e nascosta dell’etica a cui ti rispondo così: la speranza sta nella possibilità che un lettore legga le parole che tu per anni e mesi sei andato compilando nella tua tremenda solitudine.
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