Lettera aperta a Matteo Renzi
Questa lettera è giù uscita su Il fatto quotidiano.
Caro Matteo Renzi, le scrivo perché ogni giorno sento lei e i suoi ministri parlare di cambiamento, di rinnovamento, di riforme. Soprattutto quest’ultima voce parrebbe potersi caricare di promesse e di speranze al sapore di “realtà effettuale”, per dirla con Machiavelli: si sta riformando, a sentir voi, quest’Italia dei figli e dei nipoti le cui condizioni sociali ed economiche per una larga maggioranza degradano rispetto a quelle dei nonni e dei padri, si stanno rinnovando, da quel che proclamano interviste e tweet quotidiani, la scuola e l’università, ovvero i settori su cui gli stati moderni hanno basato la loro crescita anche materiale, perché non può esserci sviluppo senza ricerca e senza avanzamento delle conoscenze.
Chi le scrive appartiene alla generazione dei nati negli anni Settanta, una generazione sciagurata che ha attraversato riforme della scuola e dell’università il cui esito non ha impedito il perpetuarsi, specie nella seconda, di un sistema di carriere baronale, in cui si procede per investitura e per feudi, deliberando su posti e avanzamenti attraverso veri e propri accordi e scambi tra potentati locali, laddove sarebbe legittimo attendersi liberi concorsi e pari condizioni di accesso (a parità di titoli, si capisce) sull’intero territorio nazionale. Ho attraversato il passaggio dal sistema tradizionale delle lauree quadriennali o quinquennali, con i corsi, i programmi e la valutazione conclusiva di un lavoro di tesi originale, al sistema dei crediti e del “3+2”, culminante in smilze tesine compilative dalla cui discussione pro forma si esce “dottori”. Sono passata dalla laurea con lode in Letteratura italiana al dottorato nelle università d’eccellenza, a sentire le statistiche (e contravvenendo al noto ammonimento leopardiano che invitava a diffidarne). I miei genitori, entrambi insegnanti di scuola, hanno investito nella mia formazione garantendomi la copertura economica di un alloggio nelle città in cui ho scelto di studiare e perfezionarmi, ma soprattutto di tasse maggiorate rispetto a quelle di studenti figli di imprenditori o liberi professionisti i quali, a differenza degli statali, potevano consentirsi qualche deroga o “autosgravio” fiscale (si chiamerebbe evasione, in uno stato più equo, e sarebbe combattuta e sanzionata).
Ho poi cominciato il mio percorso lavorativo con il cosiddetto “assegno di ricerca”, che implicava, oltre alla ricerca propriamente detta, un consistente supporto alla didattica, attraverso lezioni, esami, ricevimento degli studenti, correlazione di tesi, per giunta in una sede diversa dalla città di residenza, perciò accollandomi le spese di spostamenti e alloggio, ove necessario. L’assegno mi è stato rinnovato per quattro anni, perciò un’università italiana ha avuto modo di verificare per un ampio arco temporale la mia attitudine alla ricerca e all’insegnamento, offrendomi oltretutto la possibilità di guadagnare 18 mila euro all’anno. Poi più nulla: il finanziamento con cui il mio assegno veniva richiesto e rinnovato ha avuto termine e dal 2010 al 2012 non ho avuto la possibilità di radicarmi in nessun contesto universitario perché nel frattempo i concorsi venivano banditi con sempre minor frequenza, e, soprattutto, già destinati in partenza a qualcuno, anche se naturalmente poteva darsi qualche circostanza particolare (sfortunata per il designato e fortunata per i suoi competitor) che scombinasse i piani al barone di turno, ma si trattava di situazioni rarissime e per lo più leggendarie. Nel frattempo ho chiesto all’Inps, a cui ero stata costretta a iscrivermi all’atto della stipula del primo contratto, un sussidio di disoccupazione (o “sostegno al reddito”, come si chiamava qualche anno fa), ma non ne avevo i requisiti: l’assegno di ricerca, che pure è retribuito, non è considerato un “lavoro”, ai fini previdenziali, e dunque se non hai mai lavorato non puoi nemmeno dichiararti disoccupato, a rigore. Nel 2012 tutti i dottori di ricerca o ex assegnisti nella mia situazione hanno potuto confidare nella grande illusione dell’Abilitazione Nazionale: un’enorme macchina di valutazione per la totalità della classe dei docenti aspiranti alla prima e alla seconda fascia, tanto strutturati quanto precari (o in attesa di collocazione come me). Dopo due anni di lavori delle commissioni incaricate, tale valutazione ha prodotto dei risultati a tutta prima incoraggianti: non si trattava di una graduatoria, bensì di un titolo da produrre ai concorsi, ma comunque pareva riaprirsi qualche possibilità se non altro a lungo termine, ovvero una volta esauriti i posti messi a bando per “chiamata” e destinati ai soli “incardinati”. In realtà si è subito compreso che il suddetto titolo sarebbe stato spendibile esclusivamente da questi ultimi, ovvero da chi un incarico universitario lo avesse già, per i cosiddetti avanzamenti di carriera, non da precari o consimili. Personalmente di abilitazioni (o idoneità che dir si voglia) ne ho avute due, nel macrosettore di Letteratura italiana (comprensivo di Critica letteraria e Letterature comparate) e in quello di Letteratura italiana contemporanea: sono trascorsi oramai due anni (quattro dal momento dell’avvio della grande macchina, costata allo stato svariati milioni di euro, tra l’altro) durante i quali non è stato bandito nessun concorso aperto per la mia posizione (docente di seconda fascia, cioè Professore associato), in nessuno dei due settori. Alla reiterata richiesta di chiarimenti e consigli sul da farsi, i docenti con cui negli anni ho a vario titolo collaborato replicavano con una serie di informazioni per lo più vaghe e contraddittorie, da cui ricavavo un’unica certezza: non avrei mai avuto nessun posto, perché questo per un’università avrebbe implicato un investimento assolutamente improponibile, quantificato nei misteriosi “punti organico” (assegnati non si sa come non si sa da chi a ciascun ateneo e stimabili, nel caso di un non strutturato, attorno allo 0.70 sull’1 e qualcosa mediamente disponibile, a fronte dei soli 0.20 necessari per lo scatto di carriera di un interno). Si sono invece cominciati a bandire dei posti a tempo determinato (di tre anni, rinnovabili) cui possono concorrere anche i non abilitati, tanto che nei giudizi la mia idoneità non viene nemmeno menzionata e ottengo dei punti di carriera corrispondenti al solo dottorato. Proliferano poi i cosiddetti affidamenti o contratti di docenza remunerati in modo a dir poco beffardo: duemila euro lordi (non al mese: in totale) quando va bene, e cioè per un corso di “sole” 75 ore, più impegni annessi (consigli di facoltà e riunioni varie), oltre alle sessioni d’esame da coprire per l’intera durata dell’anno accademico. Duemila euro lordi per l’impegno di un anno, se in una città diversa dalla propria, non bastano nemmeno a sostenere le spese di spostamento e di alloggio, a conti fatti.
Caro Renzi, lei a questo punto probabilmente si unirà al coro generale, chiedendomi come mai non abbia ancora pensato a cercarmi qualcos’altro, e ripetendomi che è necessario oggidì essere flessibili e adattarsi. Ma avete mai provato, voi che incoraggiate e sostenete la flessibilità, a fare dei colloqui di lavoro con un curriculum prevalentemente universitario? In qualunque ambito la preparazione “iperqualificata” è ritenuta un limite non un potenziale, proprio perché di ostacolo alla cosiddetta flessibilità. Editoria, giornalismo culturale, siti web: nessuno è disposto a pagare un plurititolato per lavori “di basso profilo” (revisione di testi, traduzione, correzione di bozze, lavoro redazionale di qualsiasi genere) che peraltro nella gran parte dei casi nemmeno esistono più o vengono dati in appalto ai cosiddetti service, assimilabili ai call center di una volta nella funzione di calmierare i giovani laureati in cambio di pochi spiccioli e nessuna prospettiva. Quanto ai giornali, dopo circa cinque anni di volontariato culturale presso un noto quotidiano militante ho scritto per un altro paio d’anni sul supplemento di uno dei due quotidiani di maggior tiratura nazionale: duecento euro (lordi) a pezzo, un paio di pezzi al mese e dopo un anno e mezzo più nulla nemmeno qua, con la motivazione che scrivo difficile e la gente il supplemento (si badi: culturale, non sportivo) lo vuole leggere in totale relax e senza dover mettere mano al dizionario.
Caro Renzi, noi siamo pressoché coetanei, perciò in zona congedo azzardo una maggior confidenza e ti domando: nei miei panni, tu, cosa faresti? Considerando che la famiglia (istituto sulla cui rendita la mia generazione carente di reddito in linea di massima può contare ad libitum) per una serie di casi sfortunati e imprevedibili non può più sostenermi, e che il mio conto in banca solo grazie a tagli radicali di tutte le spese possibili ammonta ancora al migliaio di euro e “poi più nulla”, a quale cambiamento, rinnovamento, riforma devo guardare con fiducia e concretezza, nel nuovo anno?
Con i miei più sinceri auguri,
Gilda Policastro
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Caro Renzi?
Penserò di sicuro * in modi sorpassati* ma non capisco come ci si possa rivolgere ad un *nemico* certo (e non solo della « generazione sciagurata che ha attraversato riforme della scuola e dell’università») chiamandolo cordialmente ‘caro Renzi’; e sottolineando tra l’altro la prossimità generazionale, come se fosse un “distintivo”.
Forse – mi sono detto – per Gilda Policastro Renzi non è affatto un nemico. E magari il presidente del consiglio in qualche modo le farà anche rispondere da uno dei suoi funzionari, tranquillizzandola e dandole persino una buona dritta per non continuare più coi «tagli radicali di tutte le spese possibili».
Poi, a costo di beccarmi del paternalista o del privilegiato che ha *tolto* occasioni di lavoro ai giovani per aver insegnato in una scuola secondaria e “godere” di una pensione sui 1500 euro al mese, chiedo: invece di rivolgersi a Renzi, perché Gilda Policastro non si organizza insieme ad altri/e nelle sue stesse o simili condizioni (non tanto lontano dalle mie) ricominciando a ragionare *politicamente* e a scrivere lettere (meglio *chiuse* stavolta) per lottare *come si dovrebbe * invece di *cahiers de doléance* fin troppo personalizzati?