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diretto da Romano Luperini

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Laborintus, sessant’anni dopo: Sanguineti, l’avanguardia e il modernismo

1.

Il 9 dicembre di 85 anni fa nasceva Edoardo Sanguineti (1930-2010), uno dei poeti e intellettuali italiani più importanti del secondo Novecento. Questo è il primo pretesto alla base delle riflessioni che seguono, le quali muovono però anche da una seconda considerazione: ci avviciniamo, infatti, al sessantesimo anniversario dell’uscita di Laborintus, opera prima di Sanguineti, pubblicata nel giugno 1956 dall’editore Magenta di Varese. Ad oggi, Laborintus resta un’opera relativamente poco studiata (anche se va segnalato, almeno, il ricco commento di Erminio Risso, 2006), e ancora meno presente nei programmi delle scuole superiori; in quest’ultimo ambito, semmai, si preferisce il Sanguineti comico di Cataletto (1981), quello neo-crepuscolare di Novissimum Testamentum (1982), o quello brechtiano delle Ballate (1982-1989). Che piacciano o meno, tutte opere leggibilissime, senz’altro più di Laborintus; il quale, al contrario, conserva la fama di testo caotico e indecifrabile. Ma davvero, quando sfogliamo le 27 sezioni che compongono il volume, ci troviamo di fronte alla «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso», come voleva Andrea Zanzotto?i Davvero la nostra attesa di senso non può che rimanere frustrata?

Da questo punto di vista, la fortuna (o sfortuna) di Laborintus risente ancora della contrapposizione binaria tra avanguardia e tradizione, che lo stesso Sanguineti ha sostenuto in ambito critico e programmatico. Tuttavia, l’istanza innovatrice di Laborintus non si rifà solo ai modi delle avanguardie storiche; rispetto alla poesia surrealista, ad esempio, si distingue per la presenza di un dialogo (seppure frammentato e straniato) con la tradizione, e per un’intenzione di senso che attraversa l’intera raccolta, determinandone la struttura e i temi ricorrenti. Questi due aspetti avvicinano Laborintus, piuttosto, ai classici del modernismo anglofono: in particolare la Waste Land di Eliot, e secondariamente i Cantos di Ezra Pound. Non a caso entrambi i testi sono stati più volte riconosciuti da Sanguineti come un modello fondamentale, malgrado l’ovvia distanza ideologica.

Laborintus, insomma, dialoga non solo con le avanguardie, ma anche – e in maniera più decisiva – con una linea ben precisa del modernismo internazionale: quella più lontana dalle tendenze classiciste che caratterizzeranno, tra l’altro, le opere successive di Eliot. Questo aspetto è ancora più significativo, se pensiamo che il modernismo dei Cantos (tradotti in Italia solo nel 1953) e della Waste Land non aveva lasciato tracce tangibili nella letteratura italiana, fino appunto all’uscita di Laborintus. Ancora nel 1951, quando Sanguineti scriveva i primi testi che sarebbero confluiti nella raccolta, Montale si distanziava dalla Waste Land definendola un’opera «unita solo esteriormente, cucita con lo spago»;ii a contare, per lui, era piuttosto l’Eliot di Prufrock e degli Ariel Poems. Benché una simile preferenza sia comprensibile dal punto di vista di Montale, è ormai opinione comune che a tenere insieme la Waste Land sia ben più di uno spago; e come cercherò di mostrare, lo stesso può dirsi di Laborintus. Certo, nel testo di Sanguineti il livello di entropia è ancora più forte, e viene meno ogni fiducia nella parola poetica come «frammento» da contrapporre alle «rovine» della contemporaneità;iii tuttavia, proprio come nella Waste Land, all’effetto di spaesamento si accompagna un disegno complessivo tutt’altro che aleatorio.

2.

Che la follia e il caos rivestano un ruolo fondamentale in Laborintus è evidente fin dal primo impatto con il testo;iv in ognuna delle 27 sezioni la voce autoriale sembra perdersi in un monologo delirante, composto di frammenti discorsivi prelevati dalle fonti più eterogenee. Eppure, le pulsioni anarchiche di Laborintus sono riconducibili a una strategia meditata. Di fatto, nella raccolta si attua l’ambizioso tentativo di esercitare un controllo intellettuale sulle istanze regressive che per secoli hanno occupato i margini della cultura europea: l’autore si propone di affrontare quanto il logos occidentale ha rimosso o represso, allo scopo di rifondare la categoria stessa di ragione. Per rifarsi a un celebre autocommento, si trattava di «gettare se stessi nel labirinto […] dell’irrazionalismo», «con la speranza […] di uscirne poi veramente, attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle».v

La necessità di costruire un nuovo modello epistemologico deriva per Sanguineti da una diagnosi storica formulata a ridosso di Hiroshima: la seconda guerra mondiale e i disastri atomici hanno infatti mostrato, con particolare violenza, il paradosso interno all’idea di ragione sulla quale si fonda la società borghese; un paradosso particolarmente significativo per un anarchico e un futuro materialista storico, qual era Sanguineti nei primi anni Cinquanta. Si trattava, in altre parole, dell’esaurimento di una concezione rigidamente strumentale e tecnica della conoscenza: anziché liberare l’uomo, come voleva l’utopia illuminista, la ragione borghese sottomette quest’ultimo a logiche disumane. L’esito estremo sono appunto gli orrori scientificamente gestiti dei totalitarismi e del conflitto mondiale: «la nostra sapienza», recita la sezione 11 di Laborintus, «tollera tutte le guerre»vi. La critica della ragione mimata da Sanguineti (non a caso, di «Kritik der reinen Vernunft» si parla esplicitamente, sempre nella sezione 11) si articola in due fasi: in primo luogo occorre gettarsi a testa prima nel labirinto dell’irrazionale, ovvero nel repertorio di miti e simboli rimossi dal logos borghese; in secondo luogo si potrà uscire dal labirinto, avvalendosi di una razionalità inclusiva e complessa.

La diagnosi di Sanguineti trova evidenti riscontri nel clima culturale dell’epoca: sono significative, per quanto non ci sia un legame diretto, le analogie con la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, che esce a New York nel 1944 ma circolerà in Italia solo negli anni Sessanta; per tenersi alla Torino dell’epoca, negli anni Cinquanta era attiva la «collana viola» di Einaudi, grazie alla quale i classici dell’irrazionalismo novecentesco venivano diffusi al pubblico italiano e al tempo stesso inquadrati criticamente. Sul significato ideologico e storico dell’atteggiamento sanguinetiano ci si potrebbe soffermare a lungo;vii per quanto ci riguarda, comunque, ci concentreremo piuttosto su Laborintus in quanto opera letteraria, esaminando il modo in cui la dialettica tra ragione e caos si manifesta nell’impalcatura retorica del testo.

3.

Per Sanguineti, come per Adorno e Horkheimer, sottoporre a critica il logos borghese significa anzitutto interrogarsi sulle sue radici, vale a dire il paradigma illuministico. Laborintus affronta il problema anzitutto sul piano retorico, esasperando le istanze che la cultura letteraria illuminista aveva cercato di emarginare: in primo luogo il Barocco, e in particolare quel predominio della metafora che segna in profondità le diverse poetiche secentiste. Del resto, l’interesse per il Barocco – insieme a quello per Eliot e Pound – è uno dei fondamentali punti di convergenza tra Sanguineti e Luciano Ancheschi, che dirigeva la collana per cui Laborintus uscì nel 1956, e che pochi anni prima aveva pubblicato L’idea del Barocco (1953).viii

Il metaforismo secentesco viene senza dubbio mimato da Sanguineti sul piano stilistico, ma ancora più spesso viene evocato sul piano intertestuale; a questo proposito, un primo indizio si trova nella terza sezione:

[Bad Water] sottoelevata in confronto a qualsivoglia giudizio depressa / nei riguardi delle relazioni che sono state proposte / giudiziosamente delirando sollecitamente istituite (Lab 3, 5-7)

«Bad Water» è uno degli innumerevoli attributi rivolti a Ellie, la realtà «sottoelevata» alla quale il protagonista Laszo Varga cerca di regredire; nelle sue deliranti invocazioni, il soggetto (o quello che ne rimane) si abbandona a un’inesauribile catena metaforica e metonimica, che coglie «relazioni» spiazzanti fra i termini più disparati. Di «relazioni» si parla appunto nel passo citato: nessi metaforici o comunque figurali, istituiti «giudiziosamente delirando». Quest’ultimo ossimoro riassume in nuce l’intero impianto dialettico di Laborintus: potrà dunque essere utile verificarne la provenienza. Riporto qui il commento di Ludovico Antonio Muratori (Della perfetta poesia italiana, 1706) a un sonetto del Marino:

Ha questa volta il Marino fortunatamente urtato nel buono. […] Con economia, con dolcezza, con attillatura vien condotto dal principio al fine il Sonetto; l’affetto è ben vestito dalle Immagini vaghe della Fantasia giudiziosamente delirante.

(Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971-1972, p. 1119; corsivo mio)

La scelta della fonte è tutt’altro che accidentale. Pur sostenendo un ideale di «buon gusto» dal quale Sanguineti resta ben lontano, Muratori non censura in blocco l’anarchia secentesca, ma tenta di conciliarla alle esigenze del suo razionalismo pre-illuminista; l’elogio del «delirio giudizioso» di Marino è un esempio di questo atteggiamento. Il valore della citazione è allora duplice: anzitutto il dibattito sulla metafora barocca, oltre a essere un antecedente storico, diventa a sua volta metafora della dialettica tra ordine e follia attiva in Laborintus; inoltre iniziamo a intendere come, sul piano retorico, la metafora sia per Sanguineti uno strumento decisivo per mediare tra conoscenza razionale e altre forme di conoscenza.

Ad affascinare Sanguineti non è dunque l’eccesso barocco in se stesso, ma il tentativo di addomesticare razionalmente tale eccesso. Ancora più significativa è la chiusura del sesto quadro:

più tardi scrisse perché la pazzia è anche metafora ossia scambio / e disinganno ma vie c’est moi e un’altra volta / (le donne stanno ad ascoltare) / Laszo Varga (egli scrisse) come complicazione (Lab 6, 47-50)

Ai versi 47-48 l’autore unisce, infatti, due luoghi da uno dei più importanti trattati di retorica del Seicento, il Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro: «Anzi la Pazzia altro non è che metafora, la qual prende una cosa per un’altra»; «Quel trapasso dall’inganno al disinganno [: la «metafora di decettione»], è una maniera d’imparamento» (Il cannocchiale aristotelico, rist. anast. dell’edizione 1670, Savigliano, Artistica Piemontese, 2000, pp. 93 e 460). Ancora una volta, è chiaro l’intento dell’allusione: Tesauro si confronta, elaborandolo nei termini della logica diurna, con un fenomeno di natura illogica, qual è appunto il concettismo barocco. In una simile prospettiva andranno inquadrate le altre, numerose occorrenze di termini riconducibili al medesimo ambito semantico: «nel dubbio / della metalessi tenace» (Lab 4, 18-19); «in ingegnosa congiunzione» (Lab 4, 29); «Ellie concetto di concetto» (Lab 12, 2); «come la metafora» (Lab 13, 19); «in combinazione arguta» (Lab 17, 23).

In questi versi Sanguineti allude anche alla dottrina barocca della metafora, rileggendola però in chiave freudiana: come già i surrealisti sapevano bene, infatti, i meccanismi sui quali si fonda il linguaggio metaforico hanno molto in comune con la logica dell’inconscio. Il concettismo barocco diviene allora un modo per accedere all’infinita varietà semantica della pazzia e del sogno, come dichiarato nella sezione 23:

this immensely varied subject-matter is expressed! / et j’avois satisfait le goût baroque de mes compatriotes! (Lab 23, 34-35)

A prima vista, potrebbe sembrare una dichiarazione di poetica surrealista: del resto anche Breton e suoi sodali avevano rivalutato l’opera di Gongora e del barocco spagnolo. In realtà, come si è già detto, l’atteggiamento di Sanguineti è diverso: anziché abbandonarsi alla deriva metaforica, l’autore di Laborintus riconduce le pulsioni anarchiche a una forma di controllo strategico.

4.

I passi che abbiamo esaminato suggeriscono, insomma, come l’intero sistema retorico di Laborintus si fondi sull’apparente ossimoro del «delirio giudizioso»: da una parte, Sanguineti asseconda ed esaspera le istanze anarchiche del linguaggio poetico; dall’altra simili spinte vengono subordinate al tentativo di recuperare una presa sul reale, e di restaurare un nesso tra parole e cose. L’oltranza metaforica diventa così un passo decisivo verso una nuova forma di oggettività, come lascia intendere la sezione 16:

soltanto in cerebro meo dove l’orizzonte è seriamente orizzonte / il paesaggio è paesaggio il mundus sensibilis è mundus sensibilis / la coniunctio è coniunctio il coitus coitus (Lab 16, 28-30)

Non a caso la formula ricalca i versi di un poeta tutt’altro che barocco, e sempre più spesso accostato al modernismo, quale Camillo Sbarbaro: «Invece camminiamo, / camminiamo io e te come sonnambuli. / E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è» (Taci, anima stanca di godere, vv. 15-20).

È facile rilevare, nei versi di Laborintus, un rincaro di amarezza e ironia: per il momento, la corrispondenza tra lingua e oggetto è pensabile «soltanto in cerebro meo». Eppure, l’autore non desiste dalla ricerca di un contatto con «quel che è»: obiettivo al quale non si può giungere – per il primo Sanguineti – se non sabotando prima un logos ormai inservibile. Nelle opere successive a Laborintus, com’è noto, questo obiettivo assumerà una precisa connotazione marxista, ben lontana quindi dalle coordinate ideologiche dei classici del modernismo: «questa mano non è una mano (se non afferra); questa mano / che ancora è storia, che ancora non è natura; / e forse la mano di mio figlio (dissi) / sarà natura; e quell’oggetto sarà quell’oggetto: quello che era; nel sogno» (Purgatorio dell’Inferno, 2).

L’oscurità figurale di Laborintus, la sua apparenza caotica e arbitraria, non va dunque interpretata in senso puramente avanguardistico (ovvero come una mera esibizione di nonsenso); al contrario, il caos fa parte di un disegno a suo modo coerente e unitario, come accadeva nella tradizione modernista della Waste Land e dei Cantos. Ricostruire questo disegno è una necessaria premessa a ogni giudizio di valore: solo attraverso una simile operazione, infatti, è davvero possibile valutare la tenuta letteraria dell’opera, e chiarirne i legami con il suo contesto storico.

_____________

NOTE

i La battuta venne riportata per la prima volta nella nota redazionale anonima al testo di Sanguineti Una polemica in prosa: cfr. «Officina», 11 (novembre 1957), pp. 452-457.

ii Eugenio Montale, Il cammino della nuova poesia [1951], ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1966, p. 1155.

iii «Non raccoglievo e rimescolavo frammenti per fermare una rovina, ma per mettere a nudo, rovinosamente, rovine su rovine» (Edoardo Sanguineti, Il plurilinguismo nelle scritture novecentesche, in Il chierico organico, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 297).

iv I paragrafi 2 e 3 riassumono, con alcune modifiche, un’interpretazione già proposta in Alberto Godioli, «Giudiziosamente delirando». La retorica della foliia in Laborintus, in Atti di Incontrotesto: Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, a cura di E. Stefanelli, M. Tarasco e G. Romanin Jacur, Pisa, Pacini, 2011, pp. 105-111.

v Sanguineti, Poesia informale?, in I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta [1961], a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi, 2003, pp. 203-204.

vi Cito da Erminio Risso, «Laborintus» di Edoardo Sanguineti. Testo e commento, Lecce, Manni, 2006 [d’ora in poi Lab], sezione 11, verso 1.

vii Sulle tangenze con la Dialettica dell’illuminismo, è utile rifarsi a quanto affermato da Sanguineti in un’intervista del 1993: «Aveva già letto Adorno? Pochissimo. Adorno non era ancora una presenza essenziale, come per altro neppure Benjamin […]. Diventeranno fondamentali per me solo alcuni anni più tardi. Le loro categorie mi aiuteranno a spiegare meglio quello che facevo all’epoca di Laborintus» (F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti, Milano, Anabasi, 1993, pp. 28-29). In merito al confronto con la collana viola di Einaudi, cfr. Elisabetta Baccarani, La poesia nel labirinto, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 45-97. Infine, per una visione complessiva del legame tra dialettica e ragione in Laborintus, un ottimo punto di partenza resta l’analisi di Fausto Curi, Struttura del risveglio. Sade, Sanguineti e la modernità letteraria, Bologna, Il Mulino, 1991.

viii Cfr. Tommaso Lisa, Le poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi, Firenze University Press, 2007.

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