La visibilità e gli insegnanti. Sul caso Vecchioni e dintorni
Visibilità
Gli insegnanti non fanno un mestiere visibile. Il loro è un mestiere quotidiano, diluito nel tempo, disperso in molti gesti, parole, atti routinari, inserito in una cornice fortemente burocratizzata. Inoltre il mestiere dell’insegnante è corale: nessun atto didattico comporta in realtà un fronteggiamento solitario della classe; ciò che sta prima, e attiene all’organizzazione della didattica, e ciò che sta dopo, e attiene alla riflessione e alla valutazione dei processi didattici, avviene all’interno di organi collegiali. Senza considerare le co-docenze che, per fortuna, flessibilizzano ulteriormente il clima d’aula. Credo che sia indubbio che al termine di una mattinata di scuola nella mente dei ragazzi quello che si produce deve esser simile a un effetto polifonico: voci, stili, oggetti disciplinari diversi si intrecciano ciclicamente. Nessuno può far da solista. Nessuna ora di lezione, in realtà, può avere la solennità attimale di cui ha parlato Recalcati, se non in una ricostruzione a posteriori che è però una scelta di attribuzione di significato dei soggetti. In questo caso, però, non è l’insegnante a essere visibile, ma il suo ricordo e non il suo ricordo perché esso si impone naturalmente, ma perché qualcuno lo sceglie, per sue intime ragioni, come significativo. Come ha fatto del resto lo stesso Recalcati nel suo libro.
L’insegnante di scuola poi fa specie a sé. E’ diverso dall’insegnante universitario non solo per il diverso grado di prestigio sociale (sotto lo zero il secondo, sotto la soglia di sopportazione il primo), o per il diverso tipo di rapporto che intrattiene con i discenti, di maggiore vicinanza e accudimento. L’insegnante di scuola è essenzialmente diverso dall’insegnante universitario perché diverso è il suo rapporto con la disciplina: il primo svolge un mandato di mediazione, una funzione essenzialmente servile; il secondo invece svolge anche un compito di ricerca e di produzione del sapere. Che in molti casi poi vi sia molta più capacità produttiva di sapere in una buona mediazione culturale che in una ricerca magari del tutto disancorata dalla realtà, o che in verità non vi sia nessuna possibilità di far ricerca se al fondo non vi è un’intenzione profonda di mediazione, cioè l’urgenza di raggiungere chi lo specialismo non lo pratica, è altra storia. A noi qui interessa un altro punto: in base ad una concezione fondamentalmente romantica della cultura, l’insegnante che non produce un sapere originale non è un Autore e sull’altare della visibilità non può salire.
Coerenza sintattica 1
Il motivo per cui avanzo queste considerazioni in ordine sparso non è però quello di rovesciare l’invisibilità degli insegnanti in visibilità, l’antierosimo in eroismo (son già troppi i guai che abbiamo anche così), ma perché vivo un problema, se posso dir così, di coerenza sintattica. L’insegnante non fa un mestiere visibile e non crede (salvo alcuni casi un po’ patetici) che il raggiungimento della visibilità sia il suo destino. Però il suo lavoro, le ricadute del suo lavoro, secondo molti dovrebbero essere visibili, rendicontabili. Come per un fiume carsico ci si aspetta quindi che ogni tanto un po’ d’acqua zampilli in superficie. Di quell’acqua poi qualcuno vorrebbe misurare la purezza, verificarne la composizione batteriologica, la durezza e così via. Questo è allora il primo aspetto del problema di coerenza logica di cui parlavo.
Se il mestiere di insegnante è impuro, mescidato, intrecciato con molti altri aspetti della vita didattica, come si fa ad assegnare (magari per attribuire un premio, come nel caso del comitato di valutazione) un dato risultato a un solo fattore del processo, la bravura dell’insegnante? Direi che, per coerenza logica, il corollario della legge della visibilità, “l’esito positivo del tuo lavoro, se è buono, si deve vedere”, è inapplicabile. C’è molta letteratura in proposito, (LN ha tradotto uno dei più autorevoli studi in merito). Ma forse non vi è bisogno di studiare la letteratura sull’argomento per comprendere che le evidenze dei risultati scolastici non possono essere assunte come parametro per valutare direttamente gli insegnanti, non soltanto perché il lavoro di un insegnante è intrecciato a quello di molti altri, ma perché il vero protagonista dell’apprendimento è lo studente, che ha una storia, un contesto, è esposto al caso e come tutti noi possiede l’ineludibile libertà metafisica di inseguire (non costruire linearmente) il proprio destino.
Coerenza sintattica 2
Stabilito che il mestiere dell’insegnante non è visibile e che i suoi risultati lo sono con molte complicazioni, si pone una seconda questione di coerenza. Perché se gli insegnanti, come è giusto che sia, si devono formare e aggiornare, dovrebbero farlo assecondando le leggi delle moda e della visibilità? Giova loro l’esempio del clamore, la logica della sensazione? Faccio un esempio in proposito.
Qualche giorno fa è stato ospitato a Palermo Roberto Vecchioni in seno al master “Educare oggi” organizzato dall’associazione Genitori e Figli e dal Cidi. Il master, alla sua seconda edizione, è aperto a insegnanti e genitori (secondo la buona intuizione per cui genitori e insegnanti sono in realtà educatori che dovrebbero trovare un terreno comune di confronto). La formula organizzativa prevede un ciclo di lezioni su un tema di lavoro, il rapporto fra umanesimo e pensiero scientifico. Tutto bene dunque fin qui. O meglio fino a quando Vecchioni non approda nell’aula magna della facoltà di ingegneria assai annebbiato e si lancia in esternazioni sulla Sicilia e i siciliani. L’aula lo fischia, i partecipanti lasciano la conferenza; l’indomani baluginano titoli su tutti i giornali, chi gli dà torto, chi gli dà ragione. Il circuito della visibilità si innesca e dai media maggiori, giornali, radio, tv, esternazioni dei politici, si passa ai media minori, dai blog alle bacheche di facebook.
E’ un piccolo fenomeno che può interessarci. Mi spiego. Vecchioni ha parlato in nome della propria visibilità, senza argomentare la propria tesi (fuori tema comunque) se non con impressioni personali (“mentre venivo dall’aereoporto ho visto doppie e triple file di macchine”) e giudizi personalistici sconnessi e mal espressi (dico questo perché “io non amo la Sicilia che si arrende, la Sicilia che si butta via”). Data la struttura del discorso lo sfogo del divo non ha avuto neppur lontanamente il sapore della denuncia. La denuncia ha un obiettivo polemico, è informata e finalizzata, sceglie i suoi argomenti, si dota di contenuti coerenti e sceglie uno stile. Uno sproloquio da bar, chiunque lo pronunci, non può aggiungere nulla alla discussione sulla questione meridionale. Molto però può dirci sul rapporto insegnanti-visibilità e sul fatto che innanzi a uno sproloquio simile pronunciato da un uomo qualunque in un bar avremmo girato le spalle, mentre ad uno sproloquio da bar pronunciato da un uomo visibile prestiamo ascolto e così lo autorizziamo, governati da leggi eteronome che conferiscono importanza ad interlocutori non rigorosi. Non si tratta di spocchia o di uno sfortunato incidente. La sfortuna, la nota stonata sono sempre una buona occasione per capire: insegnanti e visibilità non seguono la stessa strada.
Domenica e lunedì
Ho scritto queste considerazioni di domenica approfittando del silenzio della mattina e perché la domenica spesso capita che la settimana di scuola pian piano decanti, facendoti assumere quella faccia da insegnante in pausa che i familiari evidentemente non riescono a interpretare: “sei triste?”, “stai lavorando?”, “ma a cosa pensi tutto il giorno?” Ebbene non sono triste e non sto lavorando. Ma penso a lunedì, al collegio in cui discuteremo del comitato di valutazione, alla quotidiana battaglia contro la visibilità e a un’irresistibile voglia di scomparire.
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