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diretto da Romano Luperini

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La scuola sotto tutela. A proposito di un certo modo di parlare di didattica e insegnanti

Domenica 25 ottobre, sulla Domenica del Sole 24 ore è uscito un breve articolo a firma di Angelo Bardini e Gilberto Corbellini sull’utilità delle nuove tecnologie per la didattica. In realtà i due autori hanno scelto per le proprie considerazioni un orizzonte ben più vasto di quello delle sole TIC e mettono in campo considerazioni più generali sui processi di innovazione scolastica e didattica.

Quest’articolo a me pare un buon esempio di un certo modo di parlare di scuola, motivato da buone intenzioni e corredato da proposte pratiche, ma ideologicamente insidioso e, per certi versi, irricevibile. Penso perciò che sia possibile, partendo da esso, tentare una generalizzazione e dire che cosa in questo genere di discorso convinca poco: a mio avviso quattro idee.

Prescrizione di saperi e competenze “assolutamente necessari” al docente (del futuro)

Tutti parlano di scuola. Tutti hanno un’opinione su perché essa non funzioni e su che cosa in essa andrebbe assolutamente riformato, o rivoluzionato. In questo coro infinito si distinguono, naturalmente, le opinioni degli esperti, fondate su saperi meno vaghi del comune buon senso (o della comune insensatezza) e su una maggior cognizione di causa.

Tuttavia, poiché la scuola è un luogo complesso, poiché molti sono i fattori dell’apprendimento, poiché molte sono le cose che gli insegnanti dovrebbero sapere o saper fare per essere buoni insegnanti, gli esperti che sono in diritto di esprimere la propria opinione, o addirittura di prescrivere indirizzi d’azione, sono molti. (E bisognerà ammettere che il loro diritto di parola è, in effetti, del tutto legittimo).

Il problema è che la forma generale nella quale di solito si esprimono tali opinioni e prescrizioni è la seguente: «Gli insegnanti sanno poco o niente dell’argomento X (o dei suoi più recenti sviluppi) e bisognerebbe provvedere ad aggiornarli con urgenza». Così il pedagogista può lamentare l’insipienza pedagogica dei docenti, lo psicologo quella psicologica, il teorico della didattica quella metodologica, l’esperto di nuove tecnologie quella tecnologica, il disciplinarista quella disciplinare (anzi, i disciplinaristi, visto che spesso noi docenti insegniamo più materie e siamo spesso “ignoranti” in almeno una fra quelle – a voler essere ottimisti).

Anche Bardini e Corbellini suggeriscono che una buona scuola potrà darsi solo a patto che gli insegnanti vengano sufficientemente edotti sulle più recenti conoscenze psicologiche e neuroscientifiche nel campo dell’apprendimento.i

Schopenauer ha osservato che «chi insegna una cosa raramente la conosce a fondo, poiché colui che studia a fondo solitamente non ha tempo per insegnare» (L’arte di ottenere ragione). È una mesta considerazione e anche se ci sono insegnanti che continuano, nonostante gli impegni scolastici, a leggere e studiare (o come si dice oggi, aggiornarsi), è certamente vero che nessun docente potrebbe mai essere all’altezza delle legittime prescrizioni di ciascuno degli esperti.

Si obietterà che agli insegnanti non è richiesto di diventare specialisti e che ci si accontenterebbe di avere professionisti aggiornati. Ma qual è il livello minimo di accettabilità nella padronanza – sia pure non specialistica – di una disciplina, tale da preservare dal vago orecchiamento, dalla navigazione a vista, che sono poco utili se non dannosi? Una volta Tullio De Mauro ha osservato che se gli insegnanti di lettere fanno cattiva educazione linguistica, restando a livelli di descrizione della lingua astratti e normativi, è perché non hanno macinato libri e libri di linguistica e glottodidattica: poiché solo dopo quell’attraversamento si superano formulette e schemi pronti a ogni uso e si è in grado di cogliere la lingua viva nel suo concreto farsi. Verità sacrosanta: pronunciata però con i paraocchi, a non vedere o fingere di non vedere che a due passi, dalla stessa linea di fuoco, lo storico della letteratura, il pedagogista, lo psicologo (ecc…) stanno sparando la stessa cartuccia.

Critica all’approssimazione (o addirittura all’infondatezza) dei saperi scolastici

Si tratta di un’idea in parte connessa alla precedente. Non è raro ascoltare bordate contro l’ideologizzazione dell’insegnamento. Talvolta si tratta di becere polemiche di infimo cabotaggio politico (ricordo, in una trasmissione radiofonica, l’indignazione verso gli insegnanti di geografia che “non insegnano più che Mosca è la capitale della Russia”, ma che indottrinerebbero gli studenti con argomenti buonisti come “l’immigrazione e la fame nel mondo”); talaltra, come nel caso di Bardini e Corbellini, si tratta di una presa di posizione motivata da più fondate ragioni scientifiche.

L’accusa, in breve, è di veicolare un sapere falso e deformato dall’ideologia, non un sapere accertato e imparziale. Nel caso di Bardini e Corbellini, questo sapere è il sapere scientifico, i dati più aggiornati che la ricerca mette a disposizione della didattica. Sembrerebbe semplice. Così non è.

A scuola non si insegnano delle discipline, ma delle materie. La distinzione non è meramente terminologica: le materie scolastiche sono ricavate da una o più discipline attraverso un processo di rielaborazione e mediazione didattica, che le rende adeguate all’apprendimento. Tale processo dipende da moltissimi fattori, interni ed esterni alla struttura dei saperi: esso è diverso per le discipline scientifiche e per quelle umanistiche; discipline dotate di statuti epistemologici diversi a scuola si ritrovano “fuse” in una materia ircocervo, come nel caso di scienze (ma la biologia non è la chimica che non è la geologia); le discipline invecchiano, vanno in crisi, mutano volto, rinascono, e le materie devono, talvolta faticosamente, seguirne il ciclo vitale; il rapporto tra luogo della costituzione delle discipline, l’università, e luogo di insegnamento delle materie, la scuola, non è un rapporto facile e schietto, ecc…

Capita perciò che i saperi scolastici risultino banalizzazioni della complessità dei saperi disciplinari (e non si dice forse, di una persona che conosca solo così così un argomento, che egli lo possiede “ad un livello di conoscenza scolastico”?). Non c’è modo e tempo di districare qui nel dettaglio le ragioni di questa banalizzazione. In generale si può dire che c’è più preterintenzionalità che intenzionalità: è la complessità stessa del processo che ne rende l’esito non sempre funzionale, probabilmente più spesso di quanto tutti noi non spereremmo.

Ad esempio, se la piramide feudale continua ad avere fortuna didattica – pur avendoci i medievisti spiegato che è una descrizione molto approssimativa, se non falsificante, dei rapporti sociali nel Medioevo –, ciò dipende da fattori diversi: inerzialità della manualistica scolastica, che aggiorna i propri contenuti sempre con un certo ritardo rispetto alla ricerca specialistica; difficoltà a scalfire concetti che sono diventati ormai di uso comune; efficacia didattica dello schema (se nei manuali delle superiori esso non si trova più, la sua semplicità e schematica chiarezza continua ad avere appeal alle elementari); difficoltà da parte dei docenti di vagliare criticamente le proprie idées reçues e le informazioni contenute nei manuali, confrontandole con le fonti primarie (cioè accademiche. Cfr. punto precedente). Si potrebbe aggiungere anche che, talvolta, certe semplificazioni nascono dall’esigenza, oh sì, di “rendere interessante” un argomento. Gli specialisti di una disciplina sanno che studiarla significa ricostruirne per lo più spassionatamente un particolare, una piccola porzione, senza necessariamente dover “scadere” immediatamente nella domanda di senso: questa conoscenza serve alla mia vita? Noi insegnanti, invece, dobbiamo spesso caricare il sapere di questa immediata e pregiudiziale vitalità, a volte anche un po’ a scapito della precisione e della positiva fondatezza (un po’: non si dovrebbe esagerare).

Ma questo complesso fascio di relazioni viene ignorato e si preferisce vedere nelle semplificazioni del sapere scolastico esplicite intenzioni manipolatorie e ideologiche, oppure volontaria e cieca ignoranza.

Non conosco da vicino i manuali di scienze ed è in buona parte condivisibile la polemica di Bardini e Corbellini contro il rischio di eticizzazione del sapere che sempre si nasconde nelle cosiddette «educazioni»: ma dipingere la scuola come un luogo nel quale i docenti, in barba ad ogni positività scientifica e ignoranti loro stessi, inculchino un’ideologia paranoica fatta di sospetto verso i vaccini e di credenza nelle scie chimiche, sfiora quasi il ridicoloii.

Questo genere di sfiducia verso la scuola e gli insegnanti mi sembra un buon indice di un certo modo di condurre le polemiche culturali in Italia: un intellettuale raffinato e blasé si sente in dovere di arricciare le narici di fronte alla crassa ignoranza del popolo bue (o degli insegnanti, impiegati della cultura senza grande ingegno). E, come si vede, conta poco che l’intellettuale sia un umanista o uno scienziato: il popolo resta sempre e comunque bue e le narici restano arricciate nella propria inanità autoreferenziale.

Per combattere la diffusione di idee scientificamente infondate, Bardini e Corbellini sembrano nutrire molta fiducia nel cosiddetto «critical thinking» (addirittura “prescrivendolo”), liquidando alquanto sbrigativamente il “saper cosa” in favore del “saper come”.

Ma “prescrivere” agli insegnanti di insegnare per competenze e non per conoscenze («se c’è qualcosa su cui sarebbe necessario essere un po’ prescrittivi, è che i docenti non dovrebbero insegnare cosa pensare, ma come pensare») è tautologico dal punto di vista concettuale e pura petizione di principio dal punto di vista pratico. Tutti i bravi insegnanti, infatti, sanno da sempre che le conoscenze sono solo il mezzo per un fine più alto: il problema è che “stringere” in una definizione e in una dispiegata tecnica le competenze (che sono state chiamate, non a caso, anche “saper essere”) è come sperare di comprendere l’infinità di Dio a partire dalla somma dei suoi attributi finiti.

Un soccorrevole moto di accerchiamento

Siamo forse ormai talmente abituati al fatto che si deducano per la scuola sistemi di valori e protocolli d’azione da ambiti ad essa esterni, che non ci facciamo più caso. Nel nostro caso, Bardini e Corbellini fanno riferimento metaforico, ma non solo, al paradigma economico (sia pure di economia della conoscenza); precisamente là dove sembrano suggerire che le nuove tecnologie andrebbero imposte ai docenti (o, almeno, che si dovrebbero creare le condizioni per cui essi, tendenzialmente conservatori, non possano più sottrarsi all’uso): «Vale quel che diceva Henry Ford: “Se avessi chiesto ai miei clienti che cosa volevano, mi avrebbero risposto: ‘Un cavallo più veloce'”». Questo Henry Ford didattico dovrebbe quindi porsi nei confronti degli insegnanti in un rapporto sostanzialmente paternalistico e manipolatorio, guidandoli là dove essi non andrebbero mai spontaneamente.

Questo capita ad applicare alla scuola il paradigma dell’innovazione industriale: che di fatto si auspica nei confronti degli insegnanti l’espropriazione di ciò che li qualifica come intellettuali (sia pure in sedicesimo, quali siamo), cioè il diritto all’indipendenza di giudizio, alla resistenza, o, quanto meno, alla resilienza. Qui siamo ben oltre la condivisibile preoccupazione che i docenti usino la libertà d’insegnamento per difendere rendite di posizione. E in quali territori ci si trovi ce lo direbbero assai bene quegli studi che oggi vanno sotto il nome di studi sulla governamentalità.

Bardini e Corbellini insistono molto sull’importanza del paradigma scientifico per la scuola, là dove parlano della necessità che il sapere scolastico sia «validato» e «trasferibile»: lessico dietro cui si intravedono i principi delle scienze dure, essendo valide quelle conoscenze i cui risultati siano ripetibili sperimentalmente / verificabili.

In questo caso non si tratta di un paradigma esterno, perché è uno fra quelli con cui a scuola ci si confronta. Non dirò che questo paradigma non può però essere assolutizzato, sia perché – come si è detto – le materie nascono solo da una rielaborazione didattica delle discipline, sia perché – si è detto anche questo – a scuola s’insegnano anche materie che afferiscono piuttosto al paradigma storico-ermeneutico che non a quello epistemologico. Quello che è significativo è piuttosto che l’articolo sembra descrivere un soccorrevole moto di accerchiamento con cui l’economia e la scienza (cui si dovrebbe aggiungere la società, che richiede competenze spendibili) convergono intorno a una scuola ritornata improvvisamente minorenne e bisognosa di tutela: «Quello in corso è un tentativo di rigenerare e aggregare intorno a obiettivi validati un sistema educativo che per molti versi appare sempre più esangue».

La scuola non è una torre d’avorio: vive nel mondo e del mondo. Ma questo stato di minorità, questa eterodirettività, danno l’impressione che nulla di sorgivo possa più nascere in essa e da essa.

Giocare a calcio come il Brasile: la responsabilità degli insegnanti

Se la scuola langue, la colpa non sarà forse, e principalmente, di chi la fa? Gli insegnanti salgono così sul banco degli imputati (nonostante le apparenze, anche nell’articolo di Bardini e Corbelliniiii). Resistiamo alla tentazione di discutere se quest’idea sia vera o falsa. Ammettiamo che lo sia. Il fatto è che, data questa premessa, il discorso di molti propugnatori di riforme cade in un’insanabile contraddizione. Qual è infatti l’unico soggetto che potrebbe effettivamente incaricarsi delle innovazioni di volta in volta proposte? Gli insegnanti. Quegli insegnanti non ritenuti, in gran parte, all’altezza dei propri compiti.

Per concludere anch’io con una metafora extrascolastica: sembra di assistere alla sfuriata di un allenatore il quale, davanti a calciatori che sono brocchi risaputi, dopo averli avviliti insinuando che giochino peggio dell’Arabia Saudita, chieda loro di scendere in campo tirando fuori doti tecniche e tattiche degne del Brasile.

 

NOTE

i I due autori sostengono che un uso consapevole e non improvvisato delle nuove tecnologie sarà possibile solo «se guidato da idee più avanzate e aggiornate riguardo a come avviene l’apprendimento nei giovani ai differente stadi di maturazione epistemologica (che dipendono da come cambia il loro cervello) e all’influenza degli spazi e della loro organizzazione sulla qualità dell’apprendimento».

ii «Se c’è qualcosa su cui sarebbe necessario essere un po’ prescrittivi, è che i docenti non dovrebbero insegnare cosa pensare, ma come pensare. Molti libri di testo veicolano e numerosissimi insegnanti coltivano false credenze sulle medicine alternative, sulla pericolosità degli ogm, sulla rischiosità dei vaccini, sull’inutilità della sperimentazione animale, sulle scie chimiche, etc. Non si possono pagare gli insegnanti per indottrinare all’ideologia [sic], ma per guidare all’uso delle prove e a ragionare validamente. [L'”ideologia”? Quale? Professata da chi? E che cosa ci sarebbe al di fuori di questa “ideologia” senza aggettivi? Forse il campo neutro della conoscenza scientifica obiettiva e aideologica?]».

iii I due autori premettono di stimare la gran parte del corpo docente («premesso che non sono rari i docenti bravi e attivi»); ma questa larga concessione si mostra per quello che è – una captatio benevolentiae piuttosto ipocrita: avrebbe dovuto mettere in sospetto già la troppo cauta litote «non rari» –, davanti a giudizi come questi: i docenti si opporrebbero alle nuove tecnologie «non per amore del libro e della scrittura che maltrattano in troppi quotidianamente» [corsivo mio]; i docenti sono per lo più conservatori («è in corso un’alluvione, e usando idee conservative, si rischia che fondamentali conquiste siano spazzate dalle onde dei cambiamenti sociali e culturali in corso»; «se si hanno buone idee e si mettono da parte insensate preclusioni ideologiche […]»); il già citato coltivare, da parte dei docenti, «false credenze» scientifiche.

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