Olympos. Un racconto di Francesco Pecoraro
Come ben sanno i tanti appassionati lettori del romanzo La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013), la scrittura di Francesco Pecoraro mescola narrazione e saggismo, e il filo del racconto avanza proprio in virtù delle (apparenti) divagazioni. Molte di queste digressioni riguardano il tema della città, che si fa teatro di un conflitto tra l’aspirazione all’ordine espressa dalla razionalità della struttura urbanistica e l’inesorabile degrado di un universo costituzionalmente caotico. Anche il racconto che riportiamo qui è il ritratto di una città, Olympos. Isolata e misteriosa, Olympos diventa l’emblema tragico della insignificanza e insieme della resistenza di un’umanità assediata dall’infinito.
Sono venuto di nuovo a Olympos, oggi nel pomeriggio, per l’ennesima volta. Per me tornare qui è un atto compulsivo, come se solo qui ci fosse qualcosa di molto simile alla Verità, quella che qualcuno scrive con la V maiuscola e che naturalmente non esiste. Il solito tramonto puramente cromatico, senza spazio, come proiettato su uno schermo a due dimensioni: la linea dell’orizzonte non c’è, si vede solo una variazione progressiva di colore dal blu al rosso al viola, fino al grigio del mare, sotto le scogliere. Astakida, più che vederla si intuisce, senza che si riesca a percepirne la distanza: 15 miglia. Devi sapere che c’è, allora la cerchi più o meno nella zona del campo visivo dove pensi possa trovarsi l’orizzonte e alla fine ti pare di scorgerla in una sagoma frastagliata di un viola più scuro, che vela appena il rosso cupo del tramonto. Olympos mi trascina pian piano in uno stato d’animo non definibile, non piacevole: un senso di tragedia ultima e preistorica, di qualcosa di soverchiante. Sono soprattutto le moltissime case vuote a darmi questa emozione, oltre alle caratteristiche fisiche del luogo, alla cresta rocciosa che prosegue oltre la città, sia in alto che in basso, con la serie di mulini abbandonati, alle montagne lontane che piombano nel mare, all’aria fredda, umida, che talvolta porta nebbia. Mi prende una tristezza tardo-romantica, mi si accende il senso di piccolezza a fronte dello sterminato crudele universo. E sento come una rabbia per questo scenario che di anno in anno non cambia. Insomma una roba che funziona sempre.
Quello che c’è di strano in Olympos è la sensazione indefinibile di qualcosa di grave, che ti prende dopo appena qualche minuto che sei sceso dalla macchina e ti sei incamminato per quelle viuzze in pendenza. Ma ho capito da cosa dipende. Cioè credo di averlo capito. Se sei a Olympos il sentimento che dopo un po’ ti attanaglia è che non ci siano più mediazioni di oggetti familiari e conosciuti, di macchine e rumori e luci, tra te e l’universo intero. Vale a dire tra te e l’estensione sterminata dello spazio e del tempo. È soprattutto il silenzio che innesca un’emozione basilare, o meglio l’emozione di una percezione basilare. Ci devi tornare e ritornare, ci devi pensare un bel po’ prima di capire una cosa semplice e ovvia: Olympos ancora rappresenta – non ostanti i (pochi) ristoranti e le (poche) botteghe per turisti e non ostante la luce elettrica – la condizione in cui ha vissuto homo per la maggior parte della sua storia, preistoria compresa: silenzio e terrore per la non-spiegabilità del mondo e, la notte, misteriose luci nel cielo. Suppongo che sulle prime, cioè intorno all’800 dopo Cristo, la città si appoggiasse (per proteggersi dal vento? per nascondersi agli incursori?) sul crinale della cresta di monte che affaccia su una profonda valle interna. E che solo in un secondo momento si sia timidamente affacciata anche sul versante marino, non senza prima aver costruito una fila interminabile di mulini a vento in cresta, come se non fosse possibile centralizzare in pochi impianti la produzione della farina. Ti assale il pensiero delle tante vite che si sono consumate qui, nascoste tra queste montagne, interamente assorbite nel fare cose che servono per vivere, nel trarre sostentamento dalla poca terra sassosa e terrazzata della vicina valle di Avlona e degli infiniti terrazzamenti, ormai abbandonati da secoli, che si estendono verso nord sui fianchi dei monti, fino allo stretto di Sarìa e oltre, fino ad Argos…
Lo spleen di Olympos mi ha di nuovo afferrato, l’altro ieri, come ogni volta che ci vado. Mi afferra un senso di disperazione ultimativo, la percezione di essere nell’universo, anzi di esserne parte infinitesimale, un trascurabile infinitesimo di infinitesimo di infinitesimo di infinitesimo. E così via. Olympos muta la normale percezione di sé stessi nel mondo, nello spazio e nel tempo. Olympos è silenzio nel silenzio, è dove il grido di un capretto sgozzato si spande nell’aria senza trovare ostacoli per poi rimbalzare sulle rocce lontane e tornare indietro. Disperazione vana. Il capretto a quello serve: a morire e essere mangiato. Olympos è dove un trapano o una smerigliatrice emettono vibrazioni senza confini. Sono i continui lavori di riparazione, restauro, ristrutturazione, completamente vani: nessuno abiterà queste case ciclicamente e furiosamente rimesse a nuovo per poi essere di nuovo abbandonate, alcune per sempre. Ne ho viste molte distrutte, poi rifatte, involgarite, poi di nuovo abbandonate e poi eccole qui, di nuovo distrutte. La casa abbandonata si vede dagli infissi sbiaditi scrostati erosi dalla salsedine, dall’umidità perenne che sale dal mare col vento, anch’esso perenne. A Olympos uno starnuto lontano. Un parlottio di voci, un rumore di passi, di martello che batte su un chiodo. A Olympos l’odore di legna di un forno acceso, di carne arrostita sulla brace, di stufato di capra. A Olympos il profumo di un fico selvatico con le radici aggrappate alla roccia più arida. A Olympos l’aria purissima trasporta le molecole dell’altro da sé, lasciandole intatte, ben separate le une dalle altre, a stimolarti nitidamente l’odorato. Lo stesso vale per i rumori. Lo stesso direi per la luce, che afferra le cose senza esitazioni, le delinea con precisione, ne stabilisce le zone d’ombra e quelle che invece devono splendere, abolisce il filtro atmosferico e le rende ben più che reali. È l’urto delle immagini con la rètina, senza la normale mediazione delle impurità dell’aria, a rendere ogni oggetto così astratto, assertivo, metallico, a sottrargli il necessario quantum di realtà che abbiamo bisogno di riconoscergli per non provare disagio. Per non cedere allo spleen misterioso di Olympos. Dopo tanti ritorni credo che tutto risieda nel rapporto diretto di questa città con l’infinito. L’infinito del mare, l’infinito dell’universo. E contro l’universo non c’è partita che tenga, non c’è vita che abbia un senso, non c’è cosa, vicenda, creatura che abbia importanza. È questo il significato di Olympos?
Quando una comunità si insedia (perché? come?) nell’isolamento e per l’isolamento, quando il suo scopo sembra unicamente quello di sopravvivere, chiusa e nascosta, sulle montagne di un’isola difficile da raggiungere, circondata su ogni lato da un mare aperto e ventoso, lontana decine di miglia dalla terra più vicina, non può che alla lunga incistarsi e incanaglirsi nella solitudine e nel silenzio, fino a farne una specie di vocazione, una condanna cui non vuole sfuggire, una condizione che mette le lacrime agli occhi di chi se n’è andato e di chi è restato.
(Diafani 2012)
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