Paolo Febbraro. Una poesia e un autocommento
Poeti d’oggi è una rubrica dedicata alla poesia contemporanea. Ospita riflessioni sull’insegnamento della poesia e una selezione di testi con autocommento degli autori. L’intervento di oggi è un autocommento di Paolo Febbraro alla poesia Deposizione (da Fuori per l’inverno, 2014), scelta dall’autore per la nostra rubrica.
Deposizione
Do testimonianza, metto a verbale
che un tempo si cantava per lo specchio,
tardava o ci ammalava primavera,
le donne si compravano coi cuori.
Notte, tramonto e sera
stavano per la morte, di amori
era sintomo il giorno, e cecità.
Del mare affermo la materna crudeltà,
dell’albero la piega taciturna.
Visto e approvato ciò che qui fu legge,
piango, lo scordo e depongo nell’urna.
(da Fuori per l’inverno, Nottetempo 2014)
Autocommento
Ho scritto questa poesia nel 2008, a matita, su una delle pagine di un libro di prose poetiche e aforistiche di Julia Hartwig, autrice polacca. La versione finale di questi versi è un poco differente dalla prima stesura.
In questi anni, mi è capitato spesso di leggerla ad alta voce durante degli incontri con il pubblico, ma essa resta per me ancora un po’ misteriosa. La propongo qui perché credo che la poesia debba, o possa, consentire una felice esitazione, non fra un pieno e un vuoto, ma fra due pieni. Dopo averla scorsa con gli occhi, una poesia dovrebbe produrre in noi una felice vertigine, come un momento di sconcerto provocato da un eccesso di certezza.
Il bello è che la poesia non è l’ineffabile, il volatile, l’assoluto: ha una sua magnifica concretezza, è tutta lì, squadernata davanti ai nostri occhi, fatta in un certo modo, analizzabile. È influenzata da qualunque cosa e può influenzare chiunque. È democratica, e insieme è riservata a quei pochi che sanno meritarsi la democrazia.
Ad esempio, mentre sto tentando di scrivere queste righe, mi trovo nel mio appartamento romano, immediatamente fuori dal quale diversi operai stanno montando rumorosamente delle impalcature. In più, i miei vicini di sopra hanno scelto proprio questo sabato mattina per trapanare senza pietà qualche loro innocentissimo muro. Il sicuro miglioramento estetico o funzionale della loro abitazione è però un serio attentato alla mia salute mentale, o al mio impegno di scrittore, al suo vecchio, idealistico “prestigio”, alla sua improbabile superiorità sulle “arti meccaniche”. Tutto ciò è dentro e dietro alle parole che state leggendo. Esse esistono solo perché hanno metabolizzato, accettato, forse mentalmente disinnescato l’infernale, laboriosa allegria urbana di cui faccio parte. Forse, essa ha determinato la scelta della poesia che ho riportato qui sopra.
Dunque, comincio questo mio un po’ paradossale autocommento sottolineando che la poesia s’intitola Deposizione ed è fra virgolette. Il suo impianto ritmico, che pure non è stato calcolato in partenza, è basato sull’endecasillabo, con un paio di ipometri o ipermetri. Ci sono diverse rime, una addirittura fra «cuori» e «amori». L’autore non sta parlando in prima persona, ma accoglie la voce di qualcuno che sta compiendo una deposizione giurata, forse davanti a un giudice o a un ufficiale di polizia; forse davanti a un dio, o al tribunale di sé stesso. Il tono generale della poesia mi fa pensare a quello di una persona molto provata, giunta al culmine di un’esperienza, che tuttavia conserva una dignità e una precisione più che sufficienti per indurla a rispettare le forme, anzi per fare di esse un motivo di selezione delle immagini e dei ricordi, per non abbandonarsi o vendersi facilmente. Questa poesia è un verbale (uno degli autori che più amo è Stendhal, con la sua prosa “da codice civile”), ma non ha nulla di mortificato o derelitto, non è prosastica o quotidiana, pur senza esibire una volontaristica ginnastica retorica.
In realtà, la poesia parla della fine del mondo. Ci sono i versi all’imperfetto, la notte, la morte, una «legge» ormai remota, un pianto fermo, l’oblio e l’urna in cui tutto viene deposto, fornendo un doppio senso alla parola del titolo. Ci sono delle immagini strane, affiorate da una memoria forse turbata, in un calmo rimpianto.
Un tempo si cantava (si poetava) per veder meglio noi stessi, la primavera ci deludeva come al solito perché fredda o tardiva. Il quarto verso si può leggere in due modi (è una delle esitazioni di cui parlavo sopra): le donne si acquistavano se avevano il cuore, oppure si ottenevano versando il cuore come contropartita. Fra gli uomini esistevano dei segnali convenuti: il tramonto significava morte, il giorno era l’estate, la luce, l’amore e dunque anche la cecità. Il mare (o madre) era provvidenziale e tirannico come una dea greca, l’albero (altra figura del poeta, credo) si insinuava nel mondo con ritrosa cedevolezza. In questi due versi, l’alternanza fra gli accenti sulle “a” e sulle “e” prelude però alla “u” dell’ultima parola: è come l’ingresso nel vero finale. Il quale consiste in una formula di rito, ma anche in una dichiarazione di responsabilità personale: la voce vuole farsi garante di quanto ha enigmaticamente rilevato, porta su di sé il mondo scomparso, prima di dimenticarlo e deporlo ai piedi della Storia.
Se guardo dentro me stesso, dopo aver letto questa poesia sento che il mondo finisce in continuazione, ma che finisce solo il nostro mondo. Ci si può trasferire in un’altra storia, trasmettendo il nutrimento e le sofferenze, persino le allucinazioni, che abbiamo sperimentato altrove, che ci hanno inciso e ritmato come vecchi, modernissimi versi. L’importante (e questo me lo dice proprio il tono della poesia) è non giocare al ribasso, non essere spenti o rinunciatari, crepuscolari o rimpiccioliti dalla sventura (un altro dei miei autori è Foscolo, come è ormai chiaro, e come si comprende dall’ultima parola della deposizione). Si direbbe che la poesia venga dopo il mondo, perché è fatta solo di parole e debba per questo accettare il lutto come unica vera dimensione. Però essa, quando si scrive e si legge, è pienamente presente, del mondo fa parte, lo modifica anche impercettibilmente, lo porta con sé, lo tramanda e incessantemente lo ricompone.
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