Leggere a scuola i poeti del presente: Valerio Magrelli
Rispondendo ad alcune sollecitazioni espresse sulle pagine di questo blog (D. Lo Vetere; G. Turra), vorrei avanzare una serie di considerazioni e una proposta per la lettura e la trasmissione della poesia contemporanea in classe.
Salvo le sempre preziose eccezioni, è vero che quando gli studenti approdano alla scuola secondaria superiore mostrano indifferenza se non estraneità nei confronti della poesia contemporanea. Stupirebbe d’altronde il contrario: la posizione marginale che, per motivi molteplici e complessi in cui non mi addentro, il linguaggio poetico occupa all’interno del dibattito culturale e anche della scuola non potrebbe far sperare esiti diversi. Lo stesso discorso non vale, beninteso, per tutta la tradizione lirica: Dante, Leopardi o Montale fanno ancora parte del bagaglio culturale degli studenti (e spesso in maniera sostanziosa), ma poeti come Sereni, Caproni, Fortini, Luzi e, citando anche alcuni viventi tra i più antologizzati, Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Maurizio Cucchi o Fabio Pusterla, non ne hanno mai fatto parte.
Mi spingo così, un po’ provocatoriamente, fino alle soglie del presente richiamando l’attenzione su un poeta che ha esordito negli anni Ottanta e che può suscitare un grande interesse negli studenti: Valerio Magrelli.
Vorrei proporre la lettura di tre componimenti tratti dalle due prime raccolte, Ora serrata retinae (1980) e Nature e venature (1987), per mostrare alcune strade analitico-interpretative percorribili in classe, libere da schemi predefiniti o rigidi. Questo approccio non si traduce in una «lettura anarchica», ma piuttosto è un’occasione per l’insegnante e – nell’ottica ormai consolidata di una didattica collaborativa che metta al centro il discente – per gli allievi di impostare un commento di volta in volta diverso, in relazione alle caratteristiche del testo e in base alle conoscenze e competenze sia del docente che dello studente.
Valerio Magrelli, gli anni Ottanta e la riflessione sul presente
Nella scelta di proporre agli studenti tre poesie degli anni Ottanta le motivazioni di carattere didattico si sono intrecciate con quelle culturali. Quando Magrelli si affaccia alla poesia, la crisi dei grandi sistemi di riferimento e la fine del mandato politico dell’intellettuale sono un dato di fatto e lo scenario politico-culturale con cui si confronta racchiude i germi della società attuale.
Ora serrata retinae inaugura una stagione in cui, dopo i furori della neoavanguardia e la crisi di un’idea di letteratura come portavoce di letture globali, dominano il minimalismo e il ripiegamento sull’io. Nella prefazione di Enzo Siciliano alla prima edizione della raccolta magrelliana si legge «mi parve scritta mentre il fumo e le ceneri di una battaglia andavano diradandosi. L’aria, intorno, non è ancora schiarita, ma è subentrata una vasta, attonita quiete». Già a partire dalla fine del decennio precedente, diverse correnti poetiche avevano rifiutato un’idea di poesia come categoria storico-sociologica, idea che affondava le sue radici in De Sanctis e Gramsci ed era sostenuta in quegli stessi anni da poeti come Fortini e dalla neoavanguardia. Protagonista di questa svolta è il gruppo dei “poeti nuovi” del quale fanno parte, tra gli altri, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, gruppo che si forma attorno alla rivista “Niebo” (1977-1980) e all’antologia La parola innamorata (1978). Nella premessa a La parola innamorata, una delle rare dichiarazioni di poetica di questi scrittori, si legge: «no alla critica storicistica e alle sue diramazioni sociologizzanti, […] che istituisce un avvicinamento tattico della poesia alla storia e al sociale e quella missione internamente etica e politica dell’arte (valori positivi, esemplarità, contenuto ideologico, rispecchiamento ecc.)». A differenza della generazione precedente, per Magrelli e per i poeti che esordiscono in questo decennio la constatazione dell’assenza di grandi sistemi di riferimento e della fine del mandato politico dell’intellettuale è un dato di fatto: essi ricostruiscono sulle ceneri del passato. Il nuovo scenario politico-culturale con cui si confrontano i letterati in questa campata storica coincide con l’inizio di un processo che porterà – nel bene e nel male – alla formazione della società attuale. Anche per queste ragioni può essere interessante introdurre nelle classi la poesia di questo decennio di svolta: è un’occasione preziosa e quanto mai necessaria per avviare una riflessione sul presente.
Il commento come un percorso a ritroso sulle orme lasciate dai poeti
La definizione di commento proposta da Cesare Segre (cfr. Per una definizione del commento ai testi, in O. Besomi e C. Caruso (a cura di), Il commento ai testi, Basel, Boston, Berlin, Birkhäuser, 1992) può costituire un supporto teorico utile per affrontare in classe i testi di Magrelli e, in generale, del secondo Novecento, testi che non pongono tanto problemi sul piano storico-linguistico (il sistema linguistico collettivo non è da allora così mutato), quanto su quello relativo all’usus scribendi dell’autore e più in generale dell’esegesi del testo. La proposta teorica di Segre potrebbe essere utilizzata in classe come premessa per far capire agli studenti il senso (e anche il divertimento) insiti in questo tipo di lavoro intellettuale. Il critico ha definito il commento un processo di elaborazione di un testo letterario rappresentabile con la serie analisi-sintesi-analisi-sintesi: «lo scrittore compie un’analisi della realtà, che poi sintetizza in una sua data opera riferendola a una realtà particolare. Il lettore si trova davanti a questa sintesi, che non può abbracciare e tanto meno assimilare in forma immediata: egli perciò è costretto ad attuare a sua volta un’analisi del messaggio, cioè dell’opera, e a realizzare, sugli elementi tratti dall’analisi, una nuova sintesi (interpretativa)».
Il commentatore (l’insegnante, lo studente o la comunità della classe) può porsi sulla linea seguita dall’autore (analisi-sintesi), ripercorrendo però nel verso opposto le orme da lui lasciate, per cercare di aprire delle brecce nella sintesi che l’autore ci propone (il testo) e scorgere qualche momento dell’analisi (o della rielaborazione della realtà) che l’ha preceduta.
Una proposta di lettura dei testi
Ma torniamo a Magrelli e alle sue poesie. La prospettiva retroflessa dell’occhio verso l’interno, la centralità della vista e della percezione e, soprattutto, la riflessione metapoetica che permeano Ora serrata retinae sono l’atto inaugurale di una nuova stagione culturale e letteraria, è come se la poesia ripartisse da un grado zero. Il soggetto di Ora serrata retinae si ritrae verso se stesso, verso il margine frastagliato della retina (traduzione letterale del titolo) dove inizia la percezione. Dalla vista prende così forma il metadiscorso sull’io e sulla poesia (centrale in tutta la raccolta). Questo componimento può essere proposto agli studenti per introdurli nella poetica e nella filosofia magrelliana e anche per raccontare il disorientamento della generazione di poeti che esordiscono negli anni Ottanta:
Di sera quando è poca la luce,
nascosto dentro il letto
colgo i profili dei ragionamenti
che scorrono sul silenzio delle membra.
È qui che devo tessere
l’arazzo del pensiero
e disponendo i fili di me stesso
disegnare con me la mia figura.
Questo non è un lavoro
ma una lavorazione.
Della carta prima, poi del corpo.
Suscitare la forma del pensiero,
sagomarla secondo una misura.
Penso ad un sarto
che sia la sua stessa stoffa.
La visione del mondo esterno si affievolisce e si apre una mente-occhio che guarda verso l’interno, disegnando i profili dei ragionamenti (v. 3); condizione necessaria alla riflessione è il ritrarsi della realtà circostante, l’isolamento (v. 2 nascosto) e l’inerzia (il silenzio delle membra del v. 4). Obiettivo di questa visione-conoscenza è tradurre il fiume silenzioso dei pensieri in un disegno ordinato, di tessere / l’arazzo del pensiero (vv. 5-6).
Magrelli, sulle orme di Cartesio e di Paul Valery (in particolare del romanzo Monsieur Teste), definisce questo processo il “vedersi vedersi”: affondando le sue radici nell’ego cogito me videre cartesiano, il soggetto pensante raccoglie i pensieri depositati durante il giorno e li lavora per riordinarli, nel tentativo di definire una geometria del pensiero. Una mente-occhio raccoglie le immagini depositate sul bordo della retina e le rielabora, trasformandole in oggetto di riflessione: è come se un occhio interiore posizionato all’interno della testa guardasse l’occhio-finestra sul mondo.
Molteplici sono i collegamenti che si possono fare con Facebook, il più grande occhio-vetrina della nostra società, dove la presenza di se stessi al proprio sguardo è sostituita dalla presenza allo sguardo degli altri. L’immagine di sé che si mette in mostra nella “vetrina” di Facebook è rivolta unicamente verso l’esterno e l’occhio interno di chi si guarda vivere rischia di chiudersi, sostituito dall’occhio dominante del “grande fratello”.
Ma la riflessione di Magrelli prosegue: il testo crea una sorta di cortocircuito perché l’oggetto della lavorazione (v. 10) coincide con il soggetto stesso (v. 7 i fili di me stesso) e, come in un gioco di specchi, rappresentando graficamente i fili dei propri pensieri si forma il disegno della propria immagine: disegnare con me la mia figura (v. 8). I collegamenti con il Calvino della fine degli anni Settanta-inizio Ottanta (penso al romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma anche ai saggi di Una pietra sopra) sono molteplici. Proprio in un Una pietra sopra Calvino definiva i procedimenti meta-letterari come «fondamenti di natura morale o di natura epistemologica: contro l’illusorietà dell’arte, contro la pretesa naturalistica di far dimenticare al lettore o allo spettatore di aver di fronte un’operazione condotta con mezzi linguistici» (Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, p. 316). In contrasto con una concezione naturalistica e illusoria della letteratura come produttrice di senso, il componimento ribadisce un’idea di scrittura come atto speculativo ben delimitato, dove l’esprit de géometrie risulti circoscritto al pensiero.
L’ultimo distico (vv. 14-15 Penso ad un sarto / che sia la sua stessa stoffa) esprime uno dei paradossi di fondo della sua scrittura: l’io per avere un’immagine di sé deve rappresentarsi, divenendo così sia locutore che oggetto del discorso. Per spiegare il disorientamento insito in questa condizione possono essere utili le parole con cui Magrelli stesso commenta il testo: nei versi «agisce la stessa logica che governa l’anello di Möbius […]. C’è una specie di pista continua, si sono rovesciate le dimensioni, ce n’è una sola, io e non io coincidono; mentre si scrive, noi siamo un sarto che si fa stoffa» (V. Magrelli, Intorno all’inaccettabilità dell’io, in A. Dolfi (a cura di), Identità alterità doppio nella letteratura moderna, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 49-72).
Altri testi di Ora serrata retinae si prestano invece a una tipologia di lettura e commento incentrata sulla ricostruzione dell’enciclopedia dell’autore, dando spazio all’individuazione delle fonti e delle intertestualità anche interdisciplinari. In questa direzione il lavoro diviene una sorta di “caccia al tesoro” in cui come direbbe Segre «ogni svelamento prepara la strada per svelamenti successivi»:
Come terreno calpestato, risuona
profondo, cavo e abbandonato
come terra scossa,
questo corpo chiaro di donna,
come un animale battuto, questa schiena
fatta lucida da mani silenziose,
come pietra levigata
dal corso d’altre pietre,
senza profumo e senza voce,
bocca consumata e debole
come una pianta troppo usata,
senza ombra, ovunque toccata,
ovunque percossa, campo desolato
senza erba e senza tracce, senza margini
come la dolorosa immagine del cieco,
nuda e sospesa, raccolta
nel cerchio della solitudine,
questo è l’ultimo frutto dell’amore
che per sé trattiene soltanto
la disabitata povertà dell’osso.
Siamo di fronte ad un unico lungo periodo enumerativo, formato da una catena di proposizioni analogiche cadenzate anaforicamente dal come (vv. 1, 3, 5, 7, 11). La catena di metafore rinvia al tema della percossa e della consunzione. Il testo descrive la fase successiva all’appagamento del desiderio. La sequenza di similitudini, volte a descrivere il corpo della donna dopo il godimento dell’ultimo frutto dell’amore (v. 18), recupera una serie di simbologie, relative al mondo organico e inorganico, che hanno il loro archetipo nei capitoli 3 e 4 della Genesi 2, 4-5: «Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata»). Si notino ai vv. 1 e 3 terreno e terra, al v. 7 la pietralevigata dal fiume, al v. 11 la pianta, al v. 13 il campo desolato. Nei vv. 13-14 la solitudine della donna viene raffigurata come waste land: v. 13 ovunque percossa, campo desolato e viene assimilata metaforicamente alla dolorosa immagine del cieco (v. 15) e scolpita come nuda e sospesa (v. 16), così come il frutto dell’amore è ridotto alla disabitata povertà dell’osso (vv. 18 e 20). Queste immagini rimandano alla Cacciata dei progenitori dall’Eden del Masaccio dove Eva, dopo aver goduto del frutto del desiderio, esce insieme ad Adamo dalla porta del paradiso, nuda, con gli occhi serrati, il volto sfigurato dal dolore e dalla colpa.
Il componimento restituisce un’idea dell’appagamento del desiderio come profanazione del corpo femminile, trasformato in realtà materica privata della sua sensualità, mero oggetto di un uso che è passato su di lui lasciando le sue tracce brutali.
Concludo con un componimento tratto dalla sezione (In giro) di Nature e venature provando a percorrere la linea sintesi-analisi, di cui parla Segre, usando come breccia l’asse delle combinazioni del linguaggio (secondo la definizione di Roman Jakobson), combinazioni che vengono associate qui all’autoironica figura del poeta come arciere e baro.
Rosebud
Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scuri forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio
intorno all’oggetto colpito,
io non colgo nel segno ma segno
ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come con un’arma difettosa
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira.
Il titolo: Rosebud è la parola che il magnate Charles Foster Kane, in Quarto potere, pronuncia prima di morire e di cui solo alla fine del film si svelerà il significato: si tratta di un nome – Rosabella – scritto su uno slittino che risale agli anni della sua infanzia. Rosebud è insomma metafora di un’infanzia negata al protagonista in nome di un destino di successi ma anche di solitudine e abiezione. Riferendosi al titolo, Magrelli ha scritto: «il testo è dedicato alla parola che giace sul fondo di Quarto potere di Orson Welles. La storia ruota attorno ad un personaggio – il giornalista Johnson Leland – che per tutto il film cerca di ricordare un nome segreto, appunto “Rosebud”. Su questa idea, ho scritto una specie di ars poetica che fa il verso alla famosa apertura di Montale. È quindi una specie di pastiche» (cfr. F. Nasi e L. Vetri (a cura di), L’enigmista e l’invasato, in Seminario sulla poesia (Anceschi, Conte, Giuliani, Luzi, Magrelli), Ravenna, Essegi, 1991, 121-46).
Nel primo periodo (vv. 1-4) l’arciere-poeta, facendo appunto il verso al celebre incipit montaliano, rinuncia in partenza a centrare il bersaglio (v. 1 Non pretendo di dire la parola…). Più similmente ad un lanciatore di boomerang, egli compie un movimento circolare, riprodotto dal chiasmo a tre elementi del primo periodo pretendo-forate–forare-pretendente (v. 1 e vv. 3-4). Il lungo periodo successivo (vv. 5-13) è strutturato su una catena di adynata (vv. 5-6 Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto colpito; v. 9 scelgo il mio centro dopo il tiro) e antanaclasi (vv. 7-8 io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro; v. 13 miro alla mira), che riprendono l’idea di circolarità creando – come nel primo testo che abbiamo letto – dei cortocircuiti linguistici; il cerchio si chiude nell’ultimo verso, dove il punto di partenza coincide con quello di arrivo, miro alla mira. Il poeta è però anche un baro: traccia il proprio bersaglio dopo il tiro, definisce il centro in base alla casualità, mira appunto alla mira, proprio perché non vede il bersaglio che, come la parola Rosebud, «giace sul fondo».
In questo componimento le combinazioni di parole sono centrali, perché mimano la concezione magrelliana stessa del processo creativo, la sua ars poetica: se la poetica del Non di Montale (ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…) nello scartare in modo risoluto alcuni bersagli affermava ancora l’esistenza di una progettualità all’orizzonte (seppur non totalizzante), Magrelli propone un’idea di scrittura come arma difettosa (v. 10) di cui si conosce lo scarto (vv. 11-12) ma non il bersaglio. Il bersaglio, il senso a cui la poesia mira, come la parola Rosebud, giace al suo interno, depositato sul proprio fondo.
La poesia come «arma difettosa» e la parola Rosebud
La poesia magrelliana (ma lo stesso discorso si potrebbe estendere a molti autori a lui coevi) non ha disegni pre-esistenti né bersagli: il poeta è colui che deve disegnare con sé la propria figura, che non pretende di dire parole decisive, che traccia il proprio bersaglio dopo il tiro intorno all’oggetto colpito e definisce i propri obiettivi anche casualmente. Insomma, la sua parola non parte da un disegno prefissato, da una conoscenza universale, né ambisce alla costruzione di una visione totalizzante, è piuttosto un’arma che, con tutta la coscienza dei propri limiti e margini di errore, può scavare per cercare il senso – la Rosebud – depositato nel fondo delle cose.
Quale messaggio più interessante per i nostri studenti – figli di un’epoca che non ha mai conosciuto la sacralità della parola poetica, né veduto disegni globali all’orizzonte – del concepire la poesia (quella contemporanea, s’intende) come arma difettosa che può però prendere alcuni pezzi della realtà complessa e sfuggente e attribuirvi un senso?
______________
NOTA
La parte centrale dell’articolo qui pubblicato è estrapolata dal saggio di Laura Gatti, Commentare in classe la poesia del secondo Novecento: una navigazione a vista che figurerà nel volume Cantieri dell’Italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. “Atti” del XVII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma, 18-21 settembre 2013), a cura di Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri e Franco Tomasi, Roma, Adi Editore.
Per il commento integrale a Ora serrata retinae di Valerio Magrelli si rinvia all’edizione curata da Sabrina Stroppa e Laura Gatti (Torino, Ananke, 2013).
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