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diretto da Romano Luperini

 L’incontro

«La poesia sta a metà strada tra prosa e musica; al cinquanta per cento confina con la prosa e al cinquanta per cento con la musica». È in questo modo che il poeta lombardo Franco Buffoni, classe 1948, esordisce tra le mura azzurre della classe III E del liceo classico Virgilio; gli occhi degli studenti lo scrutano attenti e incuriositi. Appare imponente, Franco Buffoni, alto e robusto nel suo completo total black, una sciarpa dai toni dell’azzurro sistemata distrattamente intorno al collo; un’imponenza quasi fuori luogo, che va a scontrarsi con la leggerezza e la delicatezza delle sue parole: «il primo ritmo di cui nasciamo impastati è il battito della madre», dice.

È proprio ritmo, infatti, la parola chiave dell’incontro: un ritmo «ancestrale», il punto d’incontro tra la prosa e la musica. Il ritmo come elemento unico in grado di tenere in bilico il significato e la musicalità, il ritmo come «la possibilità di trovare il soggetto». «Se un poeta trova il ritmo, trova quello che sta dicendo». Per Franco Buffoni, la poesia è tutta una questione di ritmo, infatti, di «consustanziazione» di musica e significato. Proprio come le sue parole, che vorticano leggere nell’aria, il cui significato, così concreto, reale, si mescola in una perfetta armonia con la musica, il dolce suono dei significanti, quasi componesse poesia in quello stesso momento.

E in fondo vicino alla finestra

Si inchioda la memoria ai ferri

Alle mani bianche fra le coperte

Senza pieghe, il corpo in mezzo.

Come appaiono dense le parole di Franco Buffoni durante l’incontro! Dense e imponenti proprio come la sua figura. Come risuona leggero e pacato il suo tono di voce! Proprio come la musica della sua poesia, così essa si presenta come una perfetta armonia di contrasti, il dolce scontrarsi tra le parole, tra i loro significati così carichi e forti e la dolce musica che esse compongono.

Jucci

La poesia di Franco Buffoni si manifesta come reale e sincera, in essa io lirico e realismo biografico coincidono, senza filtri, senza censure, la pura e, a volte, ostica verità trascritta.

Di quando, per vincere il pallore,
Ti cimentavi coi colori accesi
Il verde e il paonazzo
L’incarnato e il ranciato.
Ma perché è ondulato il mio ricordo?
Come un eternit mi lavora alle tempie
E sotto il mento mi sorprende…

Perché io innamorata sono di te,
Più ti scuoti per allontanarmi
Più io penetro in profondità.

Queste sono le parole che possiamo trovare in uno dei tanti simulati dialoghi all’interno della raccolta di poesie intitolata Jucci. Gli interlocutori di questi dialoghi fittizi sono l’io poetico di Franco Buffoni e Jucci. L’io lirico all’interno di queste poesie conserva il suo spirito diciassettenne e si trova, in questa fase della sua vita in modo particolare, in conflitto con la sua natura omosessuale, estranea agli stereotipi di amore propagandati dalla sua fervente famiglia cristian, che non manca di ostacolare la sua relazione con Jucci.

Jucci, invece, può essere considerata, per dirla con Auerbach, una figura poiché possiede una realtà storica, perché fu l’amore del Franco ventenne, che fu colta nel culmine della sua gioventù da una prematura morte a causa di un cancro scoperto poco prima, e allo stesso tempo rappresenta l’«emblema di un passato che non passa, che si protende e si inculca nel presente e che è pronto a divorarlo se il presente non si difendesse attraverso i contraccolpi della memoria e del ricordo». Jucci è una figura collocata al di fuori dei limiti del tempo e dello spazio. Jucci è l’incarnazione del dolore del protagonista che all’interno di questa raccolta inscena una vicenda universalmente utile: l’affetto per un’amante che invece dovrebbe meritare amore e che, dopo la morte di quest’ultima, finisce per diventare solo un lacerante senso di colpa.

Franco Buffoni ha bisogno di ricordare, ha bisogno di ricreare «un intreccio di tempo e di voci» per dare a Jucci ciò che non è riuscito a darle quando era in vita, per sedare questo suo ossessionante senso di colpa. E ci riesce, riesce a ricordarla ma non nel modo in cui lui vorrebbe, non torna nella sua mente per non lasciarlo solo, torna per tormentarlo, per ricordargli le sue mancanze, i suoi errori, per riportargli alla mente tutti quei ricordi che Buffoni si era illuso di aver seppellito con lei. Ed egli non cerca di cacciarla, non la smentisce, non la interrompe: non ne ha il coraggio.

A te che invecchierai sino a decrepitezza
Condannato per sempre a raccontare
Della mia freschezza.

Ti odiavo con tutti i miei pori
Quando sulle sere-notti interferivi
Ma nel chiaro giorno ti aspettavo,
Per te persino ancora vivo.

Gli anni passeranno ma il ricordo di Jucci, anziché diventare sempre più sbiadito e lontano, si riproporrà al poeta con la forza drammatica di un’immagine ancora fatta di carne e di sangue. La dimensione onirica diventerà quella in cui l’immagine di Jucci si accamperà con una forza sempre rinnovata che annulla il tempo e che le ridà una vita più viva della vita reale.

Nel sogno invece, se mi comporto bene,
Ti siedi di fronte e non hai fretta
Mentre ti squarci il corpo
E nascondi il coltello.

Guerra

Ed è ancora un «bisogno di onestà» che muove Franco Buffoni nella stesura del suo romanzo in versi Guerra, contenuto nella raccolta Oscar della casa editrice Mondadori, con i suoi componimenti dal 1975 al 2012. Sono aspri e duri i toni di questa raccolta, violente e forti le sue parole.

«Guerra è stata un momento cruciale della mia vita», confessa Buffoni. Una storia, quella di Guerra, fatta di ricordi, memoria, e piccoli foglietti scritti in caratteri stenografici. Guerra nasce dal fortuito ritrovamento in cantina di una piccola cassetta di metallo appartenuta a suo padre, morto nel 1980, stesso anno della morte di Jucci. Al suo interno sono conservati dei piccoli fogli criptici, scritti in stenografia, degli anni in cui suo padre visse in un campo di concentramento: 8 settembre 1943- agosto 1945. Un diario per non dimenticare, per raccontare la verità; ed è proprio per questo che Franco Buffoni decide di andare da un’insegnante di stenografia e di tradurli, prima con l’intenzione di trasformarli in un libro di storia, «ma io non sono uno storico», come dice lui stesso. Buffoni quindi trasforma quei ricordi in ciò che gli riesce meglio: la poesia; una poesia vera e autentica, fatta per raccontare le torture e le brutture di quegli anni; ed è proprio con le Torture al foglio che si apre questa raccolta, metafore del drammatico dolore di quegli anni.

Augurando a te una mente

In cui non sia memoria,

Come la fatica della tua formica-

Lei scelta fra mille, lei a restare

Immortale designata

A resurrezione dopo morte-

Lungo il tubo dell’acqua
Praticherò io questo esercizio del ricordo

Conquistando schegge di passato

Per ricomporre l’oscenità.

____________

NOTA

L’incontro tra Franco Buffoni e la III E è avvenuto il 2 Febbraio 2015 nel Liceo Virgilio di Roma.

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