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diretto da Romano Luperini

L’ora di lezione: il godimento del sapere

Recalcati ci regala un bel libro sull’insegnamento, che mentre riflette sul cambiamento strutturale che ha investito la scuola negli ultimi trent’anni, indaga la complessità del ruolo dell’insegnante, soffermandosi, tenacemente, su cosa realmente significhi insegnare.

La cosiddetta attività didattica diventa nelle pagine del filosofo milanese un appassionante avventura capace di modificare e di orientare, in maniera definitiva, «il cammino singolare della vita». Si tratta di un movimento attivo con cui si «apre il vuoto», si induce allo spostamento di un tracciato definito a priori, si crea il vuoto, l’assenza che genera, quindi, desiderio di riempimento o, meglio, di pienezza.

Aprire il vuoto. «Aprire vuoti nelle teste, aprire buchi nel discorso già costituito, fare spazio, aprire le finestre, le porte, gli occhi, le orecchie, il corpo, aprire mondi, aprire aperture impensate prima».

Vi è nelle pagine del libro una contrapposizione costituente (anche dal punto di vista linguistico), quasi maniacale, tra «invenzione e ripetizione, tyche e automaton, apertura e chiusura»; una dialettica simbolica che muove dal corpo solidificato del sapere già costituito, convenzionale che si contrappone alla corrente della vitalità, alle tensioni cangianti di «un sapere che si rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere». È la «funzione agalmatica», sulla scia di Lacan, quella che Recalcati riconosce alla Scuola, «capace di spostare, attirare verso, mettere in movimento l’allievo», che si concretizza nell’immagine di Socrate che si nega alla richiesta di Agatone, di porsi come «eromenos», ossia «incarnazione dell’oggetto amato», muta ombra sacrificale, e si propone, invece, come atopos del desiderio; poiché è proprio l’assenza e non la presenza a creare il movimento vitale, la grande corrente, la dinamicità creatrice del processo di ricerca. Ogni volta, dunque, che un insegnante si sottrae dalla posizione «di oggetto immaginario a cui lo vorrebbe inchiodare il trasfert selvaggio» dell’alunno, lo scioglie dalle catena necessità, lo libera da un tracciato definito a priori, e preserva, così, la sua capacità di desiderare, di amare. Gli insegna, al pari di un analista, a dislocare il trasfert e, quindi, a non amare colui che è depositario della conoscenza ma ad amare la conoscenza stessa. A non essere oggetto passivo ma soggetto attivo nel processo di costruzione di un senso.

Alla remota comunità di insegnanti che tenta debolmente di resistere alla deriva dei tempi moderni, sovrastata dalle recriminazioni dei genitori, dall’«anoressia mentale» dei propri allievi, spetta, dunque, un compito durissimo: resistere.

E mentre cerca di resistere, deve rovesciare innumerevoli volte la propria immagine, reinventarsi nel mezzo di un gran numero di rapporti e circostanze che sembrano voler abbracciare tutto il molteplice delle possibilità, nel tentativo di arrestare l’annientamento che minaccia di compiersi, di richiamare alla vita la possibilità di esistere. È qui, fa comprendere Recalcati, che si gioca la vera e forse ultima partita dell’insegnamento: ammettere la propria insufficienza, la propria impossibilità (e inutilità) nel porsi come educatori ideali, rifuggendo dall’idea che il processo di formazione si identifichi con un rigido modello autoritario già precostituito, con un ideale. Rompere con un ideale narcistico e auto centrato di se stessi, dubitare, esitare, decentrare, tacere, aprire il vuoto, questo è il ruolo di un vero educatore. Accontentarsi che i discenti abbiano studiato e compreso la lezione, implica imparzialità e indifferenza, è l’agire che qualifica, e l’agire non può consistere in altro che nel creare il desiderio.

Quindi, verrebbe da chiedersi, il ruolo di colui che insegna coincide con quello di un outsider anticonvenzionale che tenta di liberare masse di giovani dalla retorica progressista e che vede nella scuola dell’obbligo una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese, come sosteneva Pasolini? Un leader carismatico, un moderno professor Keating che, spronando appassionatamente i suoi allievi a strappare le pagine dei manuali di letteratura, li autorizza a privarsi dei legami col passato, privilegiando, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle loro esigenze edonistiche e narcisistiche?

Recalcati rifiuta questa possibilità, rilanciando l’idea che il processo di formazione si nutra di una soddisfazione raggiunta attraverso la responsabilità, la sedimentazione dei saperi, la dipendenza strutturale con il passato, il «ricordo», il «sapore delle parole», il «bagno nel fiume della lingua». La scuola (soprattutto quella dell’obbligo), da questo punto di vista, rappresenta il processo vitale in sé, poiché si presenta come luogo dello «svezzamento simbolico primario», della «dematernalizzazione della lingua», che strappa i soggetti dall’ansia di un «godimento sempre presente, a disposizione, a portata di mano, di orecchio, di bocca, aderente al corpo del soggetto». In questa prospettiva, il processo educativo scorre dal piano della didattica a quello umano o, meglio, di «umanizzazione della vita» (e viceversa), che non possono mai dirsi slegati. Leggere un brano de I promessi sposi, spiegare una poesia di Montale, affrontare un nuovo argomento di storia, lo studio di un nuovo paese è molto di più che una vuota trasmissione di nozioni, con lo scopo di accrescere le conoscenze o potenziare l’istruzione di chi ascolta, ha a che fare, invece, con uno sforzo più faticoso ma proprio per questo esaltante: fare diventare i contenuti cognitivi oggetti erotici, in grado di stimolare passione, di rompere le catene dell’inerte routine quotidiana, come un miracolo improvviso, dirompente, di testimoniare la pienezza sulle ceneri di una realtà mortificata e sconfortante; scoprire un altrove luminoso, un altro mondo, anzi altri mondi.

L’ora di lezione può essere fondamentale nella vita di ognuno, questo afferma a ragione Recalcati. A fare la differenza è la sostanza di cui sono fatte le parole, lo «stile» dell’insegnante, capace di creare un legame autentico tra i libri e la vita.

Il disinteresse degli studenti, la loro percezione, talvolta, della scuola come di un mondo morto sta nel fatto che essi sentono lo studio slegato dalla loro umanità.

È questo il passaggio che, a volte, l’insegnante manca di fare: riannodare i fili, ritessere le trame, cercare di individuare l’anello di congiunzione che tiene insieme il sapere e le contraddizioni del mondo, la conoscenza e le fratture, in una compenetrazione suggestiva tra particolare e universale; la voce deve cercare le analogie, le corrispondenze, non produrre, nei giovani, un effetto di straniamento, ma di coinvolgimento, decostruendo false totalità, denunciando il vuoto e offrendo, in questo modo, la possibilità di un significato, la fiducia nella reale consapevolezza del pensiero e della parola.

La parole sono importanti. Non sono solo parte integrante di ogni processo che genera comprensione ma ne sono gli elementi imprescindibili: conservano la memoria, la storia, il gusto e le urgenze del presente, il carattere relativo del futuro ma non hanno garanzie di validità anche se rivelano nostalgia di significati assoluti.

Esse, sostiene Recalcati, rappresentano il corpo dell’insegnante, che esce dai limiti materiali del suo involucro solitario per «mobilitare le risorse oggettive dell’allievo», assemblate, montate e poi teatralizzate, a seconda delle diverse esigenze dell’interprete e della comunità di ascoltatori, generano domande, evitando di dare risposte, animando la curiosità, stimolando il conflitto delle interpretazioni. E inciampando, laddove «l’inciampo» si presenta come una sospensione necessaria, una rottura della ripetizione, in grado di restituire respiro, equilibrio, di riattivare la spinta essenziale (ed ostinata) al viaggio, «verso l’inedito e il non ancora conosciuto».

È, forse, il momento più importante, quello in cui l’insegnante dimentica se stesso e sottrae i suoi allievi alle loro abitudini mentali, attivandone la vitalità erotica: si compie, allora, il «miracolo dell’insegnamento», fondato su un movimento incessante, oscillante, che alterna il senso dell’imprevedibilità a quello della responsabilità, nell’illusione incessante di produrre una passione che può orientare la vita. 

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