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Torniamo all’Università
Qualche giorno fa Alba Sasso ha scritto un piccolo ma significativo articolo sull’università (Test e numero chiuso non funzionano, “Il Manifesto”, 29.4.14) rompendo una convenzione da tempo stabilitasi, deleteria, ma tacitamente accettata: dell’università oggi parlano solo gli universitari. No, non è esatto sull‘università e non dell‘Università parla anche una governance politica e accademica (Ministri, sottosegretari, Crui, ANVUR) che ha però dell’istituzione un’idea precisa da realizzare e non un progetto da condividere.
Che qualcuno del mondo della scuola affronti, come ha fatto Alba Sasso, il nodo dei test d’ingresso a Medicina, e più in generale alle facoltà universitarie, che metta al centro della questione la congruità dei test per misurare l’attitudine a frequentare un Dipartimento universitario (oggi si chiamano così e non più Facoltà, ma pochi lo sanno non solo tra gli studenti anche fra i Ministri) e lo faccia in nome di un sapere comune che non c’è e va ricostituito, è un modo di andare ai fondamenti della funzione formativa, evitando, come facciamo spesso noi interni all’istituzione, di trincerarsi dietro parametri numerici più o meno spinti, dietro mediane da rifare, eccetera. Siamo talmente dentro una cultura oggettiva della valutazione che non riusciamo più nemmeno a ragionare su un dato evidente: dietro ogni valutazione c’è un per cosa vogliamo valutare e come valutiamo i dati.
Ossia per tornare al concreto oggi i test servono a limitare gli ingressi perché le strutture universitarie non sono in grado di sostenere una richiesta di sapere troppo estesa, ma soprattutto perché c’è una pretesa di funzionalità di questo sapere direttamente al mercato del lavoro. A tanti ingressi controllati devono corrispondere delle uscite, programmate per essere immesse sul mercato del lavoro. Di qui il come si selezionano e come si valutano le prove delle persone: il quiz consente già l’avvio verso una taylorizzazione dell’organizzazione del lavoro intellettuale, il sapere che si dovrà acquisire dovrà essere funzionale alla sua spendibilità.
In un recente documento che ho condiviso con altri colleghi e pubblicato sul “Manifesto”, Per chi suona la campana, avanzavamo la tesi che la cosiddetta crisi delle scienze umane non è altro che questa “monetarizzazione” del sapere, questa sua riduzione “a servire a”, la trasformazione dell’Università in azienda e dei discenti in consumatori.
Questa è la duplice menzogna che oggi si sta raccontando ai nostri allievi e alle loro famiglie. La prima menzogna è che si possa programmare a lungo e a medio termine, in maniera precisa, l’andamento del mercato del lavoro. L’altra menzogna è che qualcuno lo stia programmando davvero questo dato, producendo qualcosa che assomigli a delle politiche di incentivi dell’occupazione e non di legalizzazione del mercato del lavoro sommerso e precario.
Ecco perché la scuola e l’università per dirla in maniera paradossale “non devono servire a niente”, ossia devono servire a costruire e a ricostruire quel grande investimento di un “sapere comune condiviso”, senza il quale non può esistere nemmeno il sapere specialistico. Banalizzando: se qualcuno non sa cosa sia una metafora è dubbio che sappia orientarsi in un mondo digitale costruito sul sapere astratto e sulla messa in rapporto di operazioni e di dati non contigui e non similari.
Nessuno si è chiesto e ha chiesto a chi lavora nell’università e nella scuola, se ha un senso introdurre dei quiz e dei quiz che determinano il futuro di chi li sostiene, durante la delicata programmazione didattica dell’ultimo anno di scuola.
Nessuno ha chiesto se ha un senso fornire un’idea di università fatta di prove e di selezioni se prima non si ha un’idea di cosa oggi si chiede all’università e cosa l’università può dare. E l’orientamento? E il diritto allo studio? Non avrebbe più senso cominciare da qui per poi dare un senso diverso a prove d’accesso diverse? In questa fase diviene importante allora recuperare nel senso comune cosa è oggi l’università, profondamente mutata da una riforma Gelmini che ha cambiato persino i nomi degli organi universitari . Un primo passo in questa direzione è l’iniziativa unipertutti promossa da un insieme di sigle sindacali e di organismi di base che nelle università si battono per fermare la crescente deriva privatistica e aziendalistica nel settore della formazione avanzata. Lezioni aperte alla cittadinanza per un’intera settimana in tutte le università italiane: questa la formula scelta per recuperare una discussione pubblica sulle funzioni dell’istruzione universitaria. Così per la settimana dal 12 al 16 maggio, con un calendario visibile sul sito www.unipertutti.it , la società civile potrà ascoltare una lezione sui nuovi farmaci per combattere il diabete o sulle recenti tendenze della critica letteraria. È forse poco, è forse velleitario ma è importante iniziare per tornare all’Università di tutti.
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