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diretto da Romano Luperini

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Brevi considerazioni su “Insegnare la letteratura oggi”

In una società in cui ogni valore appare azzerato in un magma indifferenziato, la scuola ha oggi il dovere di non arrendersi, di tentare di prefigurare una civiltà come dialogo e come conflitto delle interpretazioni libero da dogmatismi e da verità precostituite.

Non una recensione

Anticipo subito che questo post non è una recensione. E ciò non per il pudore nei confronti di una delle figure più autorevoli dell’italianistica contemporanea, nonché mio maestro “a distanza”, se considero tutto quello che ho imparato dai suoi libri. Per quanto alberghi in me questo sentimento in misura quasi imbarazzante, so anche superarmi e rassegnarmi alla responsabilità bellissima di essere una persona nuova rispetto a Romano Luperini.

Due sono gli aspetti che mi interessa discutere in questa sede: uno è l’appassionata difesa della linea tematica nella formulazione di un manuale scolastico e/o universitario e l’altro il profilo dell’insegnante di lettere della scuola secondaria superiore tra militanza intellettuale e attenzione alla più avanzata ricerca accademica. Andiamo con ordine, ma preannuncio già che il secondo aspetto occuperà buona parte di questo mio intervento.

Primo punto: insegnare per temi

I temi letterari consentono di squadernare l’impianto storicistico tradizionale e di catturare con maggiore immediatezza l’attenzione dei ragazzi. Opportunamente fondata e corretta, questa proposta – che molti anni orsono vide nel manuale di Remo Ceserani e Lidia De Federicis il suo più compiuto risvolto scolastico – ha dei vantaggi che non si fa fatica a comprendere e, almeno da parte mia, a condividere. Sorge però, tra gli altri, un problema che non mi pare venga sollevato da Romano Luperini: se per l’università il discorso è più complesso ed esula dalla mia esperienza professionale, per quanto riguarda invece la scuola, i temi devono essere selezionati e trattati dal libro di testo oppure devono nascere nel processo di lettura dei brani? In teoria, in quest’ultimo caso, un qualsiasi manuale – affiancato all’antologia – vale l’altro: il lavoro che conta sarebbe quello realizzato in classe. In pratica poi non è così, perché le classi, oltre agli alunni geniali e agli alunni meno motivati, includono anche ragazzi più o meno volenterosi che hanno bisogno di una traccia organica del lavoro, di un percorso-guida nel quale riconoscersi anche senza l’ausilio di una bussola.

Dunque, visto che un titolo varrebbe l’altro, naturalmente il professore potrebbe scegliere un libro di testo a impianto tematico, lasciando che siano i ragazzi più virtuosi e quelli più curiosi a ritagliarsi strade diverse integrando laddove occorra. Tuttavia ciò non risolve un problema a mio avviso fondamentale: come, quando e perché nasce un tema in classe? Anche i più estrosi agitatori di folle si ritrovano all’improvviso a maneggiare aspetti della disciplina che non avevano pensato di affrontare e, nelle condizioni più favorevoli, è una prassi sentirsi dire che “in classe è nato spontaneo l’interesse per questo tema” che certo non era quello preventivato dal professore. Si badi che, proprio in questi casi, tutti i problemi sottolineati da Romano Luperini per il taglio tematico della letteratura si ripropongono con maggiore costanza e serietà, in particolare la perdita della categoria specifica del letterario. Il pericolo, soprattutto per i ragazzi meno maturi, è serio, in quanto gli adolescenti a quell’età non sono ancora dei “lettori” – essendo quello l’esito didattico più felice di un percorso di scuola superiore. Ma almeno un simile processo viene incontro al progetto di una classe che sia “aperta” alla sua libera e incondizionata crescita. Bisogna vedere quanto il professore voglia rischiare (sapendo però cosa rischia).

Punto secondo: l’insegnante come intellettuale

Veniamo così al secondo, e a mio avviso, più sostanziale problema posto da Insegnare la letteratura oggi. L’idea fondante della didattica è, per Romano Luperini, l’utopia necessaria a sostanziarla. Non l’utopia dell’insegnamento “migliore” che il lettore di Jaeger (in Paideia) certo ricorderà, però qualcosa di non meno pregnante: il Maestro è in Jaeger il mediatore attivo di una tradizione da preferirsi – per qualità – ad altre: anzi, l’insegnamento aveva senso per il filologo tedesco solo a patto che rappresentasse quel modello esclusivo, per il bene dei ragazzi e della società presente e futura. Nel discorso di Luperini questa polarizzazione viene meno: il professore, oltre a conoscere la sua disciplina, deve padroneggiarne certo i fondamenti epistemologici, ma il senso della tradizione è, per così dire, contrattuale.

Viene disinnescata, in particolare, l’assolutezza ideologica che sosteneva la verità fondante di certi messaggi, in particolare delle domande – e dunque delle risposte – radicali, a vantaggio di una prospettiva che rifonda di volta in volta la tradizione. Le risposte del filologo sono accademiche, frutto di un lavoro certosino, ma l’istruzione viene in quel caso impartita “a distanza” alle nuove generazioni; le domande del professore fondano di volta in volta l’attualità reale di quella branca del sapere. L’insegnante che Romano Luperini conosce (o che sogna?) è aperto, radicale e problematico, diciamo pure piuttosto inquieto, pronto a rinegoziare la tradizione nell’atto di trasmetterla, forte com’è delle sue conoscenze e del suo impegno nei confronti del reale. Tutto ciò, variamente riformulato, trova a un certo punto una sintesi folgorante ed epigrafica:

educazione è responsabilità verso la storia

La scuola sarebbe, in sostanza, parte attiva di un tessuto sociale, ma proprio in quanto parte attiva è portatrice di discontinuità piuttosto che di accomodamento sulla tradizione. La scuola sarebbe il nuovo rispetto alla tradizione: non della lettera, è chiaro, ma dei valori sui quali ci rifondiamo noi oggi, di volta in volta. In particolare, mi piace l’interesse che Romano Luperini – sulla scorta di Mikhail Bachtin – attribuisce all’evoluzione che un testo o un autore maturano nel corso dei secoli. Questa è un’apertura all’altro del datum, dell’insieme dei testi arrivati fino a noi attraverso una fortunosa selezione di chi ci ha preceduto, che passa necessariamente per quell’altro che sono i ragazzi. La militanza del professore come intellettuale è viatico, e anzi agente fondante, di una militanza dell’intera comunità attraverso la sua parcellizzazione nelle classi. Questo è il senso della comunità ermeneutica, appunto. Capire, etimologicamente, significa afferrare, assumersi la responsabilità nei confronti del testo e nei confronti della società. E questo è ciò che fa della scuola, molto più di un centro di addestramento o di istruzione, un laboratorio di cittadinanza. Per usare le parole conclusive di Luperini:

la scuola difende – o può ancora difendere – la funzione intellettuale in un mondo che non la sopporta più (p. 234).

La necessità della formazione: diversi problemi

Capire significa, in sostanza, vivere la tradizione. Non mi inquieta questa doppia faccia che si richiede al cittadino moderno e, come professore, raccolgo più che volentieri la complessità di questa sfida, anche nelle condizioni spesso disastrose nelle quali la nostra categoria si trova a operare. Ciò che invece mi scoraggia in un progetto già così ambizioso è il posto che la teoria dovrebbe avere nella didattica reale (posto che, naturalmente, ci si deve guardar bene dal sottoporre i ragazzi al debordare di mode accademiche effimere). La mia impressione, a dire il vero, è che spesso Luperini si rivolga più ai ricercatori e agli accademici in generale, domandando loro la reale ricaduta educativa di molti impianti teoretici, piuttosto che ai docenti di scuola, ai quali certo si richiede una conoscenza epistemologica sempre aggiornata. Ma ciò non può voler dire che tale aggiornamento rimane lettera morta; e, insomma, proprio il docente non può – contraddittoriamente – abdicare al suo ruolo intellettuale e alla riflessione teoretica che lo sostanzia nell’atto di entrare in classe, scartando i nuovi strumenti intellettuali perché incompatibili con la vita reale di classe. Però, se si può e si deve pretendere che un professore di scuola faccia del suo meglio nella sua autoformazione permanente, non lo si può lasciare solo – e per di più autodidatta – in questo frangente.

In più di un’occasione, Romano Luperini parla della necessità di aggiornare in modo sistematico i docenti secondo piani specifici programmati dallo Stato e realizzati dalle università. Mi sembra che una proposta del genere non abbia ricevuto adeguato ascolto: l’esperienza delle SSIS è stata isolata e tutt’altro che risolutiva. Sorvoliamo pure sulla pianificazione fallimentare dell’inserimento di nuovi docenti per le politiche sempre più disastrose al Ministero competente. Ciò che avrebbero potuto fare queste scuole di formazione degli insegnanti, e invece non hanno fatto, era promuovere l’esigenza da parte di tutto il corpo docente delle scuole di aggiornarsi. Avrebbe aiutato che alcuni incontri chiave fossero strategicamente aperti – con continuità – ai docenti già in servizio per saldare, tra l’altro, il rapporto tra professori di generazioni diverse e far maturare uno “spirito di classe” lavorativa proprio nell’atto di aggiornarsi. Invece di configurare la continuità, le scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario hanno invece coltivato la dubbia utopia di una riserva indiana di superprofessori isolati dal mondo dei colleghi, salvo nel tirocinio (e in certe circostanze sfortunate, anche in quel frangente). Per mancanza di fantasia e per incompetenza, si è progettato l’ingresso in aula dei nuovi professori con la logica degli stage come per qualunque altra professione.

C’è anche da dire, a onor del vero, che buona parte di questo lavoro di aggiornamento spesso ricade sulle spalle del dirigente della scuola presso cui i singoli docenti sono in servizio e spesso viene risolto puntando sulle aree, per così dire, trasversali. Fatta la tara del dilettantismo di certuni (per fortuna non molti), però, anche questo taglio “obliquo” non può soddisfare le esigenze di una comunità civile che chiede dei professori preparati e motivati. Vanno benissimo tutte quelle competenze comuni alle diverse discipline, ma come si dovrebbe promuovere la crescita dei singoli professori? I dipartimenti sono una sede in buona parte bistrattata, vissuta con insofferenza, e posso dire con cognizione di causa che, anche tra professori di Lettere, farne una sede di confronto con proposte di lettura e discussione risulta a dir poco risibile. Molti professori si mostrano impermeabili alla necessità di un confronto (per non parlare dei colleghi che da tempo non leggono neanche più, e non sono uno o due). La scuola, dunque, si scopre impreparata e se, come dice Romano Luperini, altre iniziative sono troppo episodiche e isolate (in definitiva, inadeguate a svolgere un compito di tale urgenza), il corpo docente rischia di doversi rivolgere di nuovo all’università, che con la sua organizzazione per aree specialistica può favorire e coordinare questa crescita.

In teoria. Infatti, al di fuori delle occasioni istituzionali e “protocollari”, l’accademia continua a negarsi al territorio su cui opera e non arrivo a spiegarmene le ragioni. A parte che non c’è avanzamento che sia incompatibile con la società che lo finanzia e alla quale è destinato, l’università non può configurarsi quale immobile elargitrice di troppi titoli di studio e di posti di lavoro. Identificare l’università con il timbro apposto su una nuova voce del curriculum di ciascun laureato significa snaturarne il senso. I docenti di scuola dovrebbero leggere in autonomia ed essere in più impegnati in un’attività di aggiornamento, intrinseca al loro mestiere, magari nei mesi estivi o periodi di riposo in servizio che sempre ci rimproverano (e talvolta a ragione). Ciò, naturalmente, secondo i tempi e le strutture a disposizione dell’università, che non può assorbire ogni volta tutti gli insegnanti della materia interessati a un percorso di aggiornamento (sia pure non volontario), verissimo: d’altra parte, pianificare operazioni dirette di questo tipo significa non ridurre il più possibile i danni dell’impatto materiale di questi “svogliati” professori nelle aule universitarie già sovraccariche, bensì ripensare ab ovo l’intero progetto educativo per tutta la società, dalla scuola primaria in poi. E, va da sé, attribuirgli una qualche importanza nell’economia – o anche nell’ecologia – nazionale.

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