Il collaboratore avventizio di Italo Svevo
Introduzione di Maria Borio
Due articoli di Italo Svevo tornano alla luce dopo quasi un secolo. “Il collaboratore avventizio” e “L’uomo d’affari” furono pubblicati nel 1883 su «L’Inevitabile», periodico triestino poco esplorato fino ad ora dagli studiosi di Svevo. Riemergono grazie alle ricerche nella biblioteca di Cesare Pagnini dove è stata trovata una copia del periodico con la firma di possesso “Ettore Schmitz”, che ha chiarito ogni dubbio sull’attribuzione.
Perché sono interessanti queste due prose per i lettori di oggi? Il primo motivo riguarda la storia letteraria dell’autore: siamo di fronte a due scritti giovanili di Svevo, che travalicano la mera tecnica giornalistica, presentando un’arte del bozzetto in cui si iniziano a delineare la mobilità psicologica e l’arguzia descrittiva che Svevo svilupperà nei romanzi. I bozzetti ritraggono due tipi umani molto vicini al carattere dell’inetto: il collaboratore avventizio, giornalista precario che si muove in un insipiente andirivieni da una redazione di giornale a un’altra e in cui è trasparente il doppio autobiografico di Svevo, e l’uomo d’affari, personaggio senza un vero mestiere, procacciatore di traffici, di accordi, di scambi che gli consentono di tenersi a galla in una sua caratteristica precarietà urbana. Sono individui incompiuti, per i quali Svevo costruirà nei romanzi una psicologia definita. Emergono già l’incostanza e l’incertezza di Alfonso Nitti o di Zeno Cosini.
Ai margini di una piccola borghesia fin de siècle, il collaboratore avventizio e l’uomo d’affari fluttuano in una precarietà grigia, un po’ sonnolenta che, se spogliata dal tono mittleuropeo di tardo Ottocento, ha straordinarie somiglianze con alcune, attualissime, condizioni di lavoro. Il collaboratore avventizio potrebbe parlare per centinaia di freelance dell’era digitale. E la sua condizione – motivata, alla luce della scrittura di Svevo, da un’inquadratura psicologica precisa, quella dell’individuo che non sa trovare la propria realizzazione anche perché non vuole trovarla – rappresenta, invece, spesso una strada a senso unico per la maggior parte dei suoi ‘colleghi’ di oggi.
Riportiamo di seguito il primo dei due articoli nella versione integrale. Ringraziamo Riccardo Cepach, direttore del Museo sveviano di Trieste, per la gentile concessione.
IL COLLABORATORE AVVENTIZIO
(da “L’inevitabile” del 23 settembre 1883)
Vive male; scrive come vive ed uno de’ suoi più grandi consumi è quello della suola degli stivali. È quello della suola degli stivali, perchè, non avendo impiego determinato e stipendio fisso, è costretto a correre ogni santo giorno di giornale in giornale, proferendo, come merciaiuolo girovago, il prodotto delle sue facoltà intellettuali. Il collaboratore avventizio è raramente giovane. I giovani trovano sempre facilmente da collocarsi. La gioventù è un grimaldello, che forza tute le serrature. Per lo meno, ha varcato la quarantina. Nel suo passato c’è un po’ di tutto: fu giornalista vero; redattore capo, magari direttore di giornale; fu letterato a tempo perso, o tale si credette; fu impiegato industriale, viaggiatore di commercio, progettista fallito di sa Iddio quante mirifiche speculazioni, artista drammatico, o, forse, suggeritore di compagnie; ma non riuscì mai a crearsi una situazione. Molti ne accusano il suo carattere pretensioso, astioso, bizzoso; altri dicono che gli manca quella droga che sta al talento come il sale alle vivande, torna a dire: il criterio; altri, più severi e recisi, gli contrastano anche quel po’ di talento.
Crudeli! Ma, se lo private pure di questo, cosa gli rimane? Guardatelo per via. Ha un gamurrino rivoltato, il cui nero originario si smarrisce tra le spelature de gomiti, il viscido del colletto e il reticolato delle costure o il solino e i manichetti a filacciche; il cappello ispido come gatto impaurito, e dai riflessi iridescenti, come collo di piccion torraiolo; i pantaloni pallidi e rarefatti su le ginocchia e smangiati su i talloni, e le scarpe screpolanti e scalcagnate. Sotto l’ascella tiene sempre un fascetto di cartelline: sono gli articoli. E cammina sollecito, affaccendato [sic], come corresse sempre a salvare la patria. Di lontano, ha dell’usciere: da vicino del disperato; e lo è.
Il pover’uomo è una specie di piccola enciclopedia tascabile; nessun soggetto lo sgomenta; tratta una questione di diritto internazionale, con la medesima indifferenza con la quale ne tratterebbe una d’arte, di letteratura, di scienza occulta, magari di teologia.
Alloggia in una stanzuccia ammobigliata di quarto piano, su ne’ quartieri alti, per spender meno, dove, oltre il letto, il canterale, un piccolo armadio, quattro sedie e un tavolinuccio, non ha altre suppellettili se non carta, penna e calamaio e i due volumi di Marco Napoleone Bouillet: Dictionnaire universel d’histoire et géographie e Dictionnaire universel d’arts, sciences et lettres. Quelli sono la sua legge e i suoi profeti. Quando un direttore di giornale gli dice: “Sa, il 12 corrente ricorre il secondo anniversario della liberazione di Vienna…” oppure: “S’è inaugurata a Puy. in Francia, la statua del generale Lafayette…” oppure ancora: “Sta per venire sul tappeto la questione del riordinamento degli studi; ed ella dovrebbe far due parole…” tsitt! egli corre difilato a casa: scartabella i suoi due volumi; impasticcia su, nove o dieci cartelline di dati, di citazioni, di roba vecchia come i chiodi e… ha guadagnato la sua giornata.
Ma, il suo forte sono i bozzetti… anzi: i bozzetti sono una sua invenzione brevettata e privilegiata.
Tipo giornalistico per eccellenza, leggicchiando perpetuamente effemeridi d’ogni maniera, gli riesce facile e comodo oltremodo l’arrestarsi a una ideuccia qualunque e ricamarvi su una decina di pagine di prosa insulsa e inconcludente. I bozzetti hanno questo di vantaggioso: non dicono nulla, non significano nulla, non risolvono nulla e… vanno sempre bene.
Se il giornale politico, per una ragione o per l’altra, non accetta le sue rapsodie bouillettiane su questo o quel grave importante argomento; c’è sempre la suprema risorsa del giornale letterario, il quale accoglierà, senza fallo, il suo bozzetto per pochi soldi. Insomma, la vita del cavallo da fiacre. Nello stesso modo che è un enciclopedico in lettere e scienze, il collaboratore avventizio è onnicolore in politica. Col proprio riverito nome, e’ non publica se non gli scritti letterari ed artistici, di economia, di lucubrazioni storiche e, segnatamente, i suoi prediletti bozzetti; ma, se gli capita, se il bisogno lo spinge a’ panni più sgarbatamente del solito,eh, allora, sotto l’ale dell’anonimo, si presta anche ascombiccherare la polemica, senza badare troppo pel minuto al colore del giornale, per cui la scrive.
Solamente, allora, invece di due pretende i quattro fiorini: due pel lavoro materiale, due per la transitoria capitolazione con la sua coscienza. Alcune volte, il collaboratore avventizio è ammogliato e non c’è bisogno d’aggiungere con prole, perchè è noto come la prolificità stia quasi sempre in ragione diretta della miseria. In questo caso, la situazione di lui, da quella di cavallo da fiacre, si cambia in quella di cavallo da tram.
Senonchè, nel più dei casi, egli ha saputo fare la sua scelta: la moglie è una maestrina patentata, o una strimpellatrice di pianoforte, che dà lezioni a prezzi ridotti: e allora, essendo in due a trascinare il carro della vita, il veicolo gli riesce meno pesante.
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