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diretto da Romano Luperini

Ogni volta che torno a casa indugio in una dolce malinconia, una calda sensazione che mi tiene sempre sulla soglia del pianto. Oggi, giorno di partenza, ricacciando indietro la nausea delle sveglie precoci, salgo sul treno Altavelocità per Roma. Una partenza come le altre se non fosse per un annuncio che accolgo con fastidio. La linea superveloce di Salerno non funziona, il treno attraverserà la linea storica fino a Napoli per poi tornare normale. Spettacolo desueto, vedere questo enorme tubo amaranto procedere goffo tra binari troppo piccoli, attraverso case affogate di uomini, legno e lamiere, calcinacci e cani randagi. Le case che vedo sono ferite della memoria, oscene e morbose come malattie veneree. Un uomo, nudo ed in accappatoio, ci guarda scorrere, istupidito. Una donna ferma in macchina davanti al passaggio a livello, bellissima e dura. Noi come un bambino acromegalico.

S. Giovanni a Barra. La mia terra, quella dei fuochi, che mi fa sempre un po’ paura sentirlo dire. Qualche giorno prima, al convegno per cui mi trovo in Italia, un amico mi chiede “come fanno a restare lì, le persone, anche se sanno che moriranno per tutti i rifiuti sepolti”? È vero, come fanno? Come fanno mia madre e mio padre, così orgogliosi delle stupende verdure, dei broccoli di una valle in cui anche uno sputo fa crescere qualcosa? Parte dello stesso sistema, mi accorgo di non riuscire mai a sentirmi veramente fuori da casa mia. Come facciamo? Il mio principio di realtà è innamorato della pulsione di morte, pulsa assieme a lei e la considera normale. Il sud è casa mia, io ne sono parte, come una simmetria, siamo parti uguali e diverse. Soffro sempre, ogni volta che un amico parla per scherzo di terroni. Non ho mai avuto senso dell’umorismo per questo. Anche se, da qualche tempo, ogni volta che rientro a Battipaglia uno slogan pubblicitario enorme pende da un palazzo per ricordarmi che “a volte restare è un atto d’amore”. Ho sempre avuto la certezza di voler andare via, prima sogni di evasione di adolescente, poi destino in cui mi sono ritrovato per caso. Vivo una vita con molti incontri, amici temporanei di una realtà in divenire. Vivo in sempiterna fortuna di essere andato via. Sono spesso arrabbiato. Ma non riesco mai a sentirmi così malinconico come quando torno a casa mia. Portici. Il mare non è verde moccio (forse l’Irlanda?) ma blu notte. Sembra di toccarlo anche da questo treno Altavelocità che oggi attraversa il reale, senza i suoi odori. Dal regionale che prendevo anni fa per andare a Napoli si sentiva il sapore ferroso del vento, misto all’odore di urina e disinfettante dei vagoni. Oggi non sento nulla, solo quest’odore disumano, che da sempre mi aumenta la nausea. Odio i treni Altavelocità. Stanno bene a Milano e Bologna, persino nella finta Firenze. A Roma sono già strani, loro, come me, non appartengono qui. Eccola Napoli, maestosa e abbacinante. Da qui non sembra una cicatrice, ma una madre meravigliosa, distesa languida sulla mia terra. Tra poco ci fermeremo in stazione. Un drogato verrà a vendermi i calzini e a raccontarmi la sua storia di morte e redenzione. E io, come dieci anni fa quando andavo a Siena, avrò l’impulso di scendere, perdermi nella mia casa, rimanere così per qualche ora, o per giorni a vagabondare sui treni. Gustandomi questa malinconia che non tornerà fino al prossimo viaggio indietro. Anche stavolta rimarrò fermo. Dieci anni sono passati, nessuno che ti avvisi di iniziare a correre. 

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