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diretto da Romano Luperini

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“Platano” di Stefano Dal Bianco. Autocommento

 

Platano
Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare,
tradendo nel ricordo come se lui non esistesse, veramente
platano di rami e foglie nella luce.
 

Come dimenticarlo

Descriverlo, accettare le metafore, perfettamente sufficienti, indifferenti in apparenza ma vive del suo sguardo, morte del suo splendore, del male che le fa differenti e lucide di sé. E complimenti al platano e addio alla passeggiata, di chi per un momento ha creduto di vederlo e l’ha dimenticato.
 

Ricostruirlo come nuovo

Ritornare sul prato come in cerca di qualcosa che non è più albero,
non più albero di me e di te che mi leggi e non stai sul prato,
e senza amore immagini quest’albero, senza riserve di realtà.
Chiederti di venire senza fissare appuntamenti,
chiedere insieme distrattamente
con la sola energia che ci è concessa
un posto libero nel prato, di fronte al mare,
non lontano dalla stanza dove tutto è raccontato.
                                                                                       
(da Ritorno a Planaval, Mondadori, Milano 2001). 
 
Autocommento a Platano

È una poesia in tre parti sul rapporto tra percezione, esistenza e scrittura, o, se vogliamo, sulla possibilità di rappresentare nella scrittura una certa esperienza percettiva. Mettersi a scrivere di una cosa significa perderla, perdere l’esperienza di quella cosa, perché il momento della scrittura non può essere il momento vissuto. Per scrivere mi devo allontanare dall’esperienza sensibile che sto vivendo. E allora quella ‘cosa’ descritta forse non è più vera, o comunque nella scrittura è un’altra da quella che è nella realtà.

Inoltre, il problema della rappresentazione coinvolge il rapporto tra chi scrive e chi legge: non è possibile porsi il problema di come dire una cosa, un’esperienza, senza occuparsi di chi sta dall’altra parte, cioè di chi ascolta.

Per salvaguardare al massimo (del tutto è impossibile) il contenuto di verità del platano nel momento in cui lo si mette per iscritto, c’è bisogno di un atto di amore plurimo: 1) di chi scrive verso il platano (bisogna essere determinati a non tradirlo, cioè a non sovrapporre se stessi al racconto-descrizione); 2) di chi scrive verso il lettore (se non si ama e non si rispetta il lettore, le sue esigenze di condivisione del ‘messaggio’, non c’è passaggio di comunicazione, non c’è l’esperienza appunto ‘condivisa’ della poesia); 3) ma soprattutto del lettore verso l’immagine che egli si può fare sia del platano sia dello scrittore. Senza la partecipazione attiva del lettore la poesia è vuota.

L’atto di amore del lettore è il più difficile perché dovrà avvenire “senza riserve di realtà”, cioè senza che egli abbia potuto partecipare all’esperienza originaria della percezione dell’albero. Il lettore quindi si dovrà fidare, dovrà avere quella fede che si richiede a San Tommaso.

Questo atto di amore plurimo non si può esercitare con un atto di volontà. Bisogna che tutto accada quasi per caso (“distrattamente”), che non ci siano volontarismi, perché la distrazione è la modalità di percezione più vicina all’esistenza, è il modo più naturale di stare al mondo: al di fuori di questa naturalità l’esperienza della poesia diventa qualcosa di avulso, di estraneo.

Questo incontro, questo cortocircuito d’amore fra scrittore, albero, lettore potrebbe avvenire dunque (attenzione: non si dice che avvenga; si tratta solo di una ipotesi speranzosa) solo se non si fissano “appuntamenti”, e senza utilizzare troppa energia (“con la sola energia che ci è concessa”), cioè anche senza crederci troppo, senza sforzarci. Perché? Prima di tutto perché l’epifania esclude lo sforzo, e poi perché bisogna tenere conto delle scarse energie di tutti noi, uomini della nostra era, che abbiamo meno tempo e meno concentrazione e meno forza di quelli che ci hanno preceduto.

Proprio questo incontro è ciò che “ricostruirebbe come nuovo” l’albero reale a partire dal suo ricordo sensibile. Ma solo, appunto, se noi non ne andiamo in cerca espressamente: un’esperienza è tale solo se è unica. Non si può cercare di ripeterla, pena anche il mancato rispetto per il lettore, e insomma la riproposizione in forma raffinata, ma non meno bieca, del solito solipsismo autoriale, del suo narcisismo. Una cosa infatti è chiedere al lettore di partecipare della stessa esperienza che già ha provato lo scrittore (portando quindi il lettore dallo scrittore: una proposta scorretta, autoritaria) e una cosa è spezzare una lancia in favore di una esperienza nuova – anche se analoga – da vivere insieme.

Che cosa si chiede infatti? Solo “un posto libero nel prato” (cioè là dove stava il platano). Un posto dove ora potrebbe accadere di tutto, e qui stanno la libertà e il rispetto reciproco. La presenza del mare al penultimo verso (il mare verso cui si camminava all’inizio) può forse approfondire la misura di questa libertà.

L’ultimo verso ricorda però una cosa importante, e cioè che tutto ciò accadrebbe “non lontano dalla stanza dove tutto è raccontato”: non lontano dal luogo dove la poesia “racconta”. È insomma grazie alla poesia che tutto ciò potrebbe avvenire, sebbene anche la poesia stessa si tenga rispettosamente un po’ discosta (“non lontano da”) dall’accadimento reale di questa condivisione. Al tempo stesso la “stanza” è la stanza reale – dove nel frattempo si è “rientrati” a scrivere – che davvero non è lontana dal luogo aperto dove sta il platano.

Dato che ho insistito molto sulla terza parte della poesia, voglio ora dare conto di alcuni fatti specifici, anche minimali, della prima parte.

L’attacco (“Sono uscìto a camminàre verso il màre”) è spudoratamente narrativo, anche per via degli accenti particolarmente distanziati fra loro. È il ritmo disteso di chi sta cominciando un resoconto di ampio respiro, con tanto di rima ‘rilassante’ camminare: mare (con effetto di chiusura del movimento sintattico intonativo). Ma nello stesso verso c’è subito una negazione di questa possibilità: “ma devo negarlo”, un finale di verso aggiunto, appiccicato, che dà fastidio e che nega due cose: la possibilità di vivere l’esperienza e il fatto di poterla raccontare.

Al v. 2 sono da notare l’intonazione ambigua di “ero uscito” (con più o meno enfasi sull’ausiliare) e la facoltà di dare un significato pregnante all’espressione avversativa di uso parlato “in realtà” (nella realtà dell’esperienza).

Nei primi tre versi il significato è affidato in gran parte all’avvicendarsi dei tempi verbali: passato prossimo (“sono uscito”), presente (“devo negarlo”, adesso che sto qui a scrivere), trapassato prossimo (“ero uscito” che smaschera la mancata immediatezza dell’esposizione dei fatti), poi di nuovo passato prossimo (“ho incontrato”) e poi presente di nuovo (“mi tocca”). Questo “mi tocca” è un po’ ironico: si prende gioco della schiavitù dei poeti, che vogliono sempre e comunque rappresentare ciò che vedono. Loro incapacità di stare nella vita.

Al v. 4, “scrivere è di più che raccontare” perché chi racconta non si pone il problema della fedeltà all’esperienza vissuta. Chi racconta sa già che sta mentendo. Il racconto è qualcosa di molto letterario anche nella modalità orale di raccontare. Invece nel verbo “scrivere” c’è dentro tutto: c’è molta più responsabilità. “Scrivere” è scrivere una poesia (iscrizione, incisione).

Già “raccontare” è comunque difficile, senza perdere particolari fondamentali per il lettore (v. 5).

“Anche se il difficile è rientrare / a scrivere del platano” (vv. 6-7): “Rientrare” è difficile perché si vorrebbe restare lì a godere dell’esperienza, e invece c’è questo imperativo idiota per cui “mi tocca” di scrivere (e io non posso scrivere senza carta e penna, che sono in casa). Malgrado la serie di “anche se” faccia pensare a una continuità di discorso, qui si va (o si torna) nel problema personale dello scrittore. Il terzo “anche se” ha quindi una sfumatura ironica perché in realtà si cambia argomento senza sottolineare il trapasso logico. È uno degli elementi di lingua parlata del testo: sto parlando a qualcuno e quindi faccio degli errori dovuti all’emotività della situazione. Faccio notare che non vi è alcuna volontaria ‘mimesi del parlato’ ai fini di un grande stile, come poteva accadere in certi poeti degli anni Sessanta (Sereni, Luzi).

Vengo ora ai due versi conclusivi. “Tradendo nel ricordo” sta anche per “tradendone il ricordo”: l’ambiguità di senso è quasi irrilevante, ma secondo me rallenta e amplifica il detto. Questo penultimo verso corrisponde per estensione al primo. L’allungamento qui si deve a una aggiunta sintatticamente ambigua (“veramente”): il verso acquista in perentorietà, l’intonazione diviene un po’ troppo conclusiva, si è stanchi dell’enunciazione, si vorrebbe aver finito. Credo che ciò provochi un aumento dell’effetto epifanico dell’ultimo verso: “platano di rami e foglie nella luce”. L’apparizione del platano viene isolata nel verso finale.

La seconda parte si capisce? Siamo rientrati in casa a scrivere del platano. È paradossalmente in prosa la parte più canonica metricamente, con prevalenza dei settenari, e anche quella che ospita più elementi estetizzanti, appartenenti al ‘poetichese’ (sguardo, splendore, lucide di sé) o alla riflessione sulla poesia (le metafore). E infatti è il momento in cui il platano dovrebbe entrare in letteratura, ma ogni atto di scrittura è una istituzione di metafore, e il proprium dell’oggetto si perde. Se voglio descrivere qualcosa devo usare la lingua, che è falsa per statuto. Il “male” delle metafore sta nel loro essere “differenti” rispetto all’oggetto e “lucide di sé”, cioè autocompiaciute. Il platano ‘vero’ viene dimenticato, e c’è una rinuncia con ironia finale.

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