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diretto da Romano Luperini

Giulio Mozzi foto di Elisabetta Michielin

Giulio Mozzi. Sulla scrittura creativa a scuola

 A cura di Roberto Contu

Se dovessimo stilare la classifica delle italiche tragiche sentenze appioppate da noi insegnanti agli studenti, credo che al sempreverde «i ragazzi non leggono più» seguirebbe senza segni di cedimento lo sconsolante «i ragazzi non sanno più scrivere». Ora, tralasciando per un attimo la constatazione che proprio la Scuola pubblica dovrebbe essere il luogo dove quei due non dovrebbero traballare, interessa a riguardo il tema dell’esercizio della scrittura creativa a Scuola. Ma non tanto per rinforzare l’ego di quei pochi ragazzi dotati che magari possono partecipare al concorso letterario provinciale di turno che non manca mai tra le nostre circolari. Interessa piuttosto verificare se e come un’introduzione intelligente dell’esercizio della scrittura creativa a Scuola possa giovare in toto alla didattica delle materie umanistiche e quindi non solo a vantaggio di precoci vocazioni di narratori che spesso sarebbe meglio raffreddare piuttosto che rinfocolare. Ne parliamo con Giulio Mozzi.

1) Giulio Mozzi, in un precedente colloquio con Michela Murgia abbiamo riflettuto come, fatta eccezione per la scuola primaria e a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone, l’insegnamento della cosiddetta scrittura creativa sembri trovare poco spazio nelle aule scolastiche.  Quale è la sua idea a riguardo?

Mettetevi comodi, che la prendo larga. Intanto propongo di non parlare di “scrittura creativa”, bensì di “teoria e tecnica della composizione di testi argomentativi, narrativi, drammatici e poetici, scritti e orali”; potremmo usare l’agile acronimo Ttctandpso o l’antica parola “retorica”: che io preferisco. So che parlar di retorica in contesti creativi è come parlar di sapone in casa dell’impiccato; fattostà che ciò di cui si parla sempre quando si vuole nobilitare l’insegnamento della c.d. scrittura creativa, ossia l’esperienza nordamericana della creative writing insegnata nelle università, si parla appunto di qualcosa che somiglia più al Come tirar su un buon rètore di Quintiliano che ai Draghi locopei di Zamponi e Piumini. Intendo ovviamente una retorica allargata, allargatissima, che l’esperienza didattica e critica (e industriale: il cinema) nordamericana nonché l’esperienza critica e teorica francese (ah, gli anni Settanta!…) abbiano provveduto a richiamare in vita e desclerotizzare: inventio, elocutio, dispositio, actio, memoria, eccetera, e non solo figure e tropi; narrazione, dramma e poesia e non solo argomentazione.

Oppure potremmo scegliere una formula ancora più semplice. Per Catone, così si tramanda, l’oratore era un vir bonus dicendi peritus, ossia una persona seria e onesta capace di (ovvero: anche attrezzata tecnicamente per) sostenere efficacemente una discussione: punto e basta.

Il guaio è che la retorica non richiede una didattica, ma un’intera pedagogia. Non si tratta di insegnare ai ragazzi la struttura in tre atti della narrazione o la differenza tra un sillogismo e un entimema o la varietà di accenti di un endecasillabo (e così via): si tratta di educarli, con allenamento costante, alla correttezza del dire (nei primi anni la correttezza è importante), all’articolazione del discorso, alla concezione del discorso come relazione (ovvero: la centralità dell’ascoltatore/lettore), alla scrittura come relazione differita (e quindi: l’ascoltatore/lettore come invenzione da produrre nel testo), e chi più ne ha più ne metta. L’insegnante che entrasse in classe e dicesse: «Oggi facciamo scrittura creativa» commetterebbe, secondo me, un errore pedagogico.

Non ci vuole meno retorica (di quella «discreta, fine, di buon gusto», se possibile) nello scrivere i testi per le vendite telefoniche (l’ho fatto) o i trattati di geometria (ricordo ancora il Morin-Busulini, sul quale studiai al liceo) o i discorsi per una campagna elettorale (lo feci, alle europee del 1985) – che per scrivere un racconto.

Pertanto: bene che ci sia del tempo (con relativa strumentazione didattica) specificamente dedicato alla tecnica della retorica; ma credo che l’intero insegnamento dovrebbe essere intriso di una certa pedagogia. Se tra i monumenti della nostra letteratura ci sono Il principe e i Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, il Dialogo sui massimi sistemi o i Saggi di naturali esperienze, l’articolo di Spallanzani sui pipistrelli o i discorsi di Luigi Einaudi, eccetera, ben si vede che si tratta sempre di allargare il campo, non di restringerlo.

2) In che modo un approccio di questo tipo potrebbe essere utile per avvicinare gli studenti ai grandi autori e alla conoscenza dei meccanismi letterari propri delle loro opere?

Apro le Operette morali di Leopardi, raggiungo Il Parini o della gloria, e nel capitolo secondo leggo (avendo per indubitato che l’opinione qui espressa dal personaggio sia quella medesima dell’autore):

«Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l’esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà dal conoscerle, all’imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l’una e l’altra una cosa sola. Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e dell’esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi».

Molti ragazzi fanno sport. Tutti sanno che non s’impara a giocare a calcio o a pallavolo o a pallacanestro guardando le partite in televisione o allo stadio o al palazzetto. Tutti sanno che il fatto di giocare effettivamente a calcio o a pallavolo o a pallacanestro con un minimo d’impegno (a es. in una società sportiva parrocchiale o di quartiere) porta a guardare le partite in televisione o allo stadio o al palazzetto con occhi diversi: con maggiore comprensione tecnica, maggiore capacità di memorizzare, e soprattutto con un pensiero in mente: «Questa giocata qui, appena ho un pallone tra i piedi provo a rifarla anch’io».

Il famoso motto «Vuoi scrivere? Allora leggi!» va quindi (anche) voltato all’incontrario: «Vuoi leggere? Allora scrivi!».

3) «I ragazzi non leggono più». Come se ne esce?

I luoghi comuni sociologici hanno i loro pregi (spesso segnalano l’esistenza di un problema, e più spesso ancora l’esistenza della percezione dell’esistenza di un problema – non necessariamente esistente) e i loro difetti (affermano all’ingrosso e senza distinzione: aboliscono, per così dire, le mezze stagioni).

Se guardo i numeri del mercato editoriale, non è vero che «i ragazzi non leggono più». O almeno non è vero che i libri destinati a loro abbiano smesso di vendere. È vero casomai il contrario: la produzione editoriale che sceglie i ragazzi come target, e in particolare la produzione cosiddetta young adult, è tra le poche aree del mercato che mostrino vivacità e vitalità.

Cambierei l’affermazione così: i ragazzi, oggi, leggono meno cose che i loro professori considerano letteratura e più cose che i loro professori stentano a considerare letteratura.

Allora qui bisogna prendere una decisione. Se lo scopo dell’insegnamento è allenare i ragazzi a leggere la buona letteratura, è un conto; se lo scopo dell’insegnamento è allenare i ragazzi a leggere bene la letteratura, è un altro conto.

Ma naturalmente, per quanto mi riguarda, penso che entrambi gli scopi siano da perseguire; e che abbiano pari dignità. Il mio lavoro di insegnante di scrittura e narrazione mi porta ad aver che fare quasi esclusivamente con adulti (volontari e paganti, per di più): questo è il limite della mia esperienza, e vi prego di tenerne conto. La mia esperienza è che questi adulti volontari e paganti, sufficientemente interessati alla scrittura da investirci giornate e giornate, viaggi, quattrini e tempo, si nutrono prevalentemente di cattiva letteratura; o, almeno, di letteratura poco sicura. Hanno letto magari Tabucchi, o King, o Crichton, o Morante, o Veronesi, o Parrella, o che so io; spesso hanno letto di molto peggio, e comunque facendo una gran confusione tra alto e basso, medio e midcult, nuovo e masscult, e così via. E quando ricordo loro (ogni sessanta minuti circa) l’esigenza di rileggere mensilmente I promessi sposi, si scherniscono e fanno risatine e parlano male della loro insegnante del liceo (ma io rincaro: trimestralmente il Furioso; le Operette morali ogni quaresima – perché sono un’opera nella quale davvero “Dio è morto” –; tutte le estati – perché è un’opera solare – il Dialogo dei massimi sistemi; la Commedia sempre sul comodino; le Smanie per la villeggiatura ogni volta che le danno a teatro, eccetera – anch’io ci ho un canone fatto a modo mio, come vedete).

Non demonizzerei il mercato. Se un paio o forse più di generazioni sono venute su leggendo coralmente a scuola Se questo è un uomo, Il sergente nella neve, Il barone rampante e Un anno sull’altipiano, devo arrendermi a un’evidenza: in casa Einaudi, per quella trentina d’anni, hanno avuto un ufficio marketing da urlo.

Ciò di cui mi preoccuperei (ma attivamente, non con lamentazioni) è piuttosto l’infantilizzazione. La pratica di produrre opere letterarie specifiche per il mercato dei sedici-ventenni – col risultato non so quanto voluto di procrastinare se non osteggiare per i sedici-ventenni l’incontro con le produzioni letterarie per adulti – contiene un’idea di infantilizzazione (che non abita solo qui, peraltro), e l’infantilizzazione è l’esatto contrario dello scopo che la scuola ha. Il combattimento però sta su due fronti: i ragazzi vanno condotti a leggere opere adulte, nonché a leggere adultamente qualunque cosa gli càpiti sott’occhio.

4) Il linguaggio è cambiato. Quello che usano i nostri studenti è profondamente segnato dall’irruzione del mondo comunicativo social. In che modo la scrittura creativa potrebbe disciplinare in un adolescente non solo la produzione ma soprattutto la decodifica di questo contesto comunicativo fondativo dell’oggi?

Questa è una domanda completamente pedagogica, e sarei tentato di rispondere: insegnanti, siate pedagoghi! Tuffatevi nell’acqua in cui nuotano i vostri ragazzi, e mostrate loro come si nuota! Siate dei capi-branco! O almeno dei pesci pilota!

Il problema vero è che tutti, adulti e ragazzi, si sono scontrati con queste nuove realtà nello stesso istante; gli adulti, per il naturale irrigidimento mentale dovuto all’età, ci si muovono spesso con minore arditezza e disinvoltura. Personalmente, temo più i gruppi WhatsApp delle mamme che quelli dei ragazzi.

Il problema non è dunque l’immersione – o lo sprofondamento –dei ragazzi in questi «contesti comunicativi»: il problema è la scarsa competenza degli adulti. Che devono quindi immergersi, sprofondare, risalire annaspando, e poi mostrare come si fa.

Non c’è controllo sociale più perfetto di quello esercitato da tutti e da nessuno. Nei social network siamo tutti intercettati, siamo tutti ascoltati, siamo tutti spiati: e mica solo dagli algoritmi colossali di Google o di Facebook. Siamo intercettati, ascoltati, spiati dai nostri vicini, dai nostri “amici”, dai nostri allievi, dai nostri professori.

Non sarà un caso se molti insegnanti (qui penso ai miei conoscenti: niente di più) si fabbricano profili nei vari social network usando i più stravaganti nomignoli. E spiegano: sai, qui ci sono anche i miei studenti, i genitori dei miei studenti… Mi viene da domandarmi se la via da seguire non sia quella contraria: non nascondersi, non mascherarsi, apparire – anche ai propri studenti – così come si è. (E: si possono anche gestire più profili).

La scuola stessa, peraltro, è in corso di panottizzazione. L’accesso diretto delle famiglie a certe informazioni è anche questo.

Poiché non si tratta di resistere (non serve a niente) ma di governare, sospetto che un passo importante sia quello di cercar di voltare la relazione con le famiglie: dall’ansia di controllo alla cooperazione educativa; dall’istinto di difendere la propria vita privata alla mediazione pedagogica tra privato e pubblico.

Una roba facile, mi si dirà.

5) Potrebbe ipotizzare, pur nel limite di una trattazione sintetica come questa, qualche pista operativa concreta tale da suscitare interesse anche nei più scettici tra noi insegnanti?

a. La scrittura si insegna per mezzo della correzione. Quindi una buona didattica della scrittura separa molto esplicitamente correzione e valutazione (la valutazione potrà essere fatta, eventualmente, sul testo corretto e riscritto e ricorretto e ancora riscritto: si valuterà, insomma, non il testo in sé e per sé, ma l’apprendimento avvenuto nel corso della correzione del testo).

b. La cosa più difficile, per i ragazzi, è: riferire meticolosamente un fatto accaduto (senza interferenze emotive, sentimentali, intellettualistiche, mistiche eccetera). Quindi è da lì che si può cominciare.

c. L’esercizio è pur sempre un lavoro nel quale l’interlocutore quasi esclusivo è l’insegnante: ed è per questo in una certa misura futile. La platea va quindi allargata (almeno alla classe, per cominciare), vanno fatte esperienze di “scritture reali” (ricordarsi di Célestin Freinet, di Mario Lodi). E qui i le reti sociali (i social network) spalancano un universo di possibilità ancora minimamente sondate.

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