Il ragazzo invisibile e crossmediale di Gabriele Salvatores
Di tutte le previsioni formulate in passato, l’unica che regga forse il peso degli anni riguarda i dischi volanti: in Italia, sosteneva Carlo Fruttero, non arriveranno mai. Purtroppo è vero: marziani a Lucca non se ne sono visti, finora. Ma, nel frattempo, i fumetti in forma di romanzo sono approdati in libreria, e i supereroi hanno fatto la loro comparsa nel cinema di casa nostra, tradizionalmente ostile alle sollecitazioni del fantastico e del fantascientifico. Tasche vuote e ragioni storico-culturali sono di norma chiamate in causa per giustificare questo ritardo: se da un lato gli effetti speciali costano troppo, dall’altro è fin troppo evidente la difficoltà con cui ha preso corpo da noi una cultura tecnico-scientifica diffusa, da cui partire per balzi in avanti, reazioni risentite o fughe nell’irrazionalità.
Un tentativo coraggioso di agguantare le più recenti tendenze dell’immaginario internazionale è stato compiuto dal regista Gabriele Salvatores con il Ragazzo invisibile (2014), operazione crossmediale a tutto tondo: dal medesimo soggetto sono nati infatti un film, un romanzo e, appunto, un graphic novel. Tre modi, tre generi diversi per raccontare la storia di Michele Silenzi, tredicenne triestino che scopre di possedere il dono dell’invisibilità: molto utile quanto si tratta di copiare il compito di matematica, vendicarsi dei compagni “bulli” e sgominare una banda di cattivissimi russi alla ricerca degli Speciali: uomini donne e ragazzini come lo stesso Michele, mutati dalle radiazioni di una catastrofe simile a quella di Chernobyl.
A voler essere precisi, prima ancora che nella fascinosa Trieste ci troviamo nella geografia parallela e convenzionale dell’adolescenza di celluloide: un mondo dove – alle medie! – la classe è un emiciclo a gradoni lignei, dove gli studenti fanno la doccia dopo educazione fisica (mai successo, credo, nelle patrie scuole) e i presunti sfigati sono biondi e bellocci. Ma fa tutto parte del gioco, e sarebbe sbagliato imputare agli sceneggiatori-scrittori Fabbri, Rampoldi e Sardo, che dichiarano di prendere a modello i mitici Goonies (1985), l’inosservanza del principio di realtà trasmesso da Chunk al mostruoso Sloth: «Puzzi come dopo l’ora di ginnastica!».
Quel che conta è che la scelta di Trieste è tutt’altro che casuale: la città, sospesa da sempre tra culture e nazionalità molteplici, è un luogo propizio alla mescolanza di realtà e fantafinzione. A Lucca no, insomma, a Trieste sì: per sdoganare la fiction supereroica, e aprire la strada – potremmo aggiungere col senno di poi – al Jeeg Robot romano (2015), c’è voluto un capoluogo periferico.
Per sceneggiare la scoperta dei superpoteri, il team di scrittori ha fatto ricorso alla collaudata struttura del Bildungsroman: la presa di coscienza dei talenti soprannaturali fa tutt’uno con la cognizione delle responsabilità che questi comportano, e l’invisibilità – richiesta dai produttori del film come garanzia di contenimento dei costi – è metafora di una precisa condizione esistenziale («Vi sentite sbagliati, soli, come invisibili agli occhi dei vostri genitori, dei vostri insegnanti, dei vostri stessi amici…»).
Come spesso accade in questi casi, la Bildung finisce per soggiacere ai diktat della fantasia: si ferma cioè al di qua della soglia della vita adulta, davanti a uno “Stop” che ha l’evidenza e l’intransigenza di un cartello stradale: «Le avrebbe chiesto di tornare a casa insieme […] E dopo i compiti le avrebbe chiesto di andare al cinema. A maggio sarebbe uscito il nuovo X-Men. Le loro spalle si sarebbero sfiorate. Lui si sarebbe chinato verso di lei per offrirle il bicchiere di popcorn. E poi…STOP».
Il punto in cui piazzare il segnale di ingresso al mondo dei grandi varia dal film al romanzo al fumetto, nel senso che ciascun format declina la medesima storia secondo modalità e pubblici diversi: il film si rivolge a un’utenza di bambini e adolescenti, ma strizza anche l’occhio a spettatori più maturi, con omaggi a film cult come Shining e Gremlins, mentre il graphic novel corteggia le frange più disinvolte e scalpitanti del vasto pubblico adolescenziale, approfondendo aspetti della trama altrove solo allusi o accennati. «A questo fumetto – spiega Diego Malara nell’introduzione – è affidato il compito di espandere gli orizzonti del lungometraggio. Di allargarne la prospettiva e offrire uno squarcio su un affresco narrativo che suggerisce nuove avventure e nuovi sviluppi. I tre capitoli che compongono la storia si muovono negli spazi tra una scena e l’altra del film, sviluppandosi su tre diversi piani narrativi». Piani, questi ultimi, che il film e il romanzo omettono per convenienza morale e pecuniaria. Rappresentare la vicenda di Andreij, il padre di Michele capace di leggere nel pensiero, avrebbe voluto dire, probabilmente, sforare i limiti di budget del film e di tenuta del pubblico: ragazzini a cui, prima della proiezione in sala, era rivolta la pubblicità degli Amici Cucciolotti, patatosi animaletti dal naso oltremodo pronunciato. Andreij si segnala infatti per comportamenti poco edificanti: beve come una spugna, fugge per mezza Europa, e in passato ha lavorato a lungo per la mafia di Hong Kong.
Il fumetto si fa dunque romanzo facendo leva sulla caratteristica principale del “genere ibrido” – la possibilità di rappresentare ciò che non può essere portato sulla scena, oppure letto a voce alta come i versi di una poesia – e coniuga la suggestività dei disegni con la tensione proibita della lettura muta e solitaria. Se, dopo un rapido prologo, il novel-e-basta si apre con Michele che va a scuola in bici, il libro con balloon opta per l’esecuzione cruenta, per mano della malavita cinese, dei traditori scovati grazie ai poteri infallibili di Andreij, a cui fa seguito il resoconto della lotta degli Speciali contro i loro carcerieri, desiderosi di sfruttarne le doti per scopi militari, e la fuga dello stesso Andreij con Michele ancora in fasce, fino alla consegna del superpupo alla madre adottiva Giovanna.
I piani del racconto si sovrappongono e si accavallano alla ripresa dei momenti salienti del film (la festa, le prime manifestazioni dell’invisibilità, il rapimento della futura fidanzatina Stella), dando forma a un racconto che necessita di una maturità di fruizione superiore a quella del film e dello stesso romanzo, ben scritto e godibile ma certo più lineare della controparte con immagini e nuvolette.
Alla configurazione adulta dell’intreccio fa riscontro una maggiore apertura alla dimensione affettiva e sessuale di lui e di lei, nel rispetto beninteso delle rispettive sensibilità: il lettore, si presume, gradirà la dipintura dell’intimità di Andreij e Yelena, così come la lettrice apprezzerà le abitudini casalinghe di Michele, che a febbraio dorme tranquillamente senza pigiama. Ma, soprattutto, rispetto al romanzo e al film viene meno la cappa di estrogeni che incombe (a guisa di Edipo) su un mondo di finzione in cui l’autorità è quasi esclusivamente femminile: a scuola ci sono solo prof donne, e Michele vive con la madre poliziotto. Mario, l’unico altro abitante della villetta color «rosa maialino acceso», è in realtà il cane di casa. I pochi esemplari di maschio adulto si segnalano per un’aggressività inaccettabile, che si traduce ora in competizione sfrenata (il padre di Brando «aveva trasferito la sua brama di arrivare sempre più in alto sul figlio»), ora in botte da orbi e soggiorni in galera (il padre di Ivan, il bullo della Terza B).
Per il lettore del romanzo a fumetti, Andreij è una figura su cui plasmare la propria maturità incipiente, nel segno di una vita avventurosa, eroica e raminga, e al contempo un esempio da superare in nome di una sopraggiunta responsabilità: all’invito paterno a scappare, perché i russi sono arrivati in città alla ricerca degli Speciali e hanno cominciato a rapire i ragazzini più talentuosi, Michele risponderà che «scappare è da vigliacchi». Per il pubblico femminile, invece, Andreij è un uomo bello e dannato, con bicipiti scolpiti e chioma fluente. Poco importa che sia diventato cieco – effetto collaterale della lettura del pensiero altrui: i flashback nel passato più recente restituiscono l’immagine di un individuo fascinoso, con una benda sull’occhio che lo affratella ai tanti avventurieri che, da Capitan Harlock in poi, hanno solcato le onde dell’etere.
Dal graphic novel viene un invito deciso a diventare grandi, per quanto l’adultità risulti rappresentata in una declinazione esclusivamente eroica. Più sfumato è il romanzo, che accosta alla stilizzazione rassicurante di un mondo di mamme il caveat impersonato da Luigi Minnella, il collega ipersensibile di Giovanna. Luigi è un uomo che in fondo è rimasto bambino, con tutte le conseguenze del caso: «era entrato [a scuola] a sei anni, sulle sue gambette a X, con un sorriso sdentato e un’incrollabile fiducia nel futuro che lo aspettava. E ne era uscito, otto anni dopo, con molti lividi e una sola certezza: il mondo non era fatto per lui […]. E da quel momento aveva smesso di chiedere qualcosa alla vita, come se a lui non spettasse nulla se non brutti regali da accettare di buon grado. Si era accontentato del suo posto in polizia, nel quale vedeva gli altri fare carriera e spiccare il volo».
I disegni, realizzati da un tris di matite con pedigree Marvel e Bonelli (Camuncoli, Dell’Edera, Vitti), traducono su carta e colore le inquadrature e i volti del film di Salvatores: le foto di scena diventano strisce, mentre la fantasia dello sceneggiatore Diego Cajelli è chiamata a colmare i vuoti della storia ufficiale. Chi legge il graphic novel deve riconoscere i personaggi del film o, viceversa, prepararsi a saltare dalla lettura al cinema.
Facilitare questi passaggi – da un medium all’altro, dal solco della trama al plot secondario – è compito, oltre che dello stile del disegno, della composizione grafica della pagina: le strisce sono disposte per lo più in orizzontale, così da facilitare il riconoscimento dell’ordine di lettura, e i colori scuri segnalano la presenza di analessi. Ciascun capitolo porta il nome di un personaggio (Andreij, Yelena, Michele): l’obiettivo è legare assieme i lacerti di un racconto segnato da frequenti ellissi, che tradiscono la dipendenza dell’universo grafico da quello filmico. Forse è questo, il punto debole del graphic novel del Ragazzo invisibile: il suo statuto di prodotto ancillare. Ma è già in lavorazione il sequel, e chissà che la seconda volta non sia quella buona: «La sala – spiega Salvatores – diventerà solo una delle piattaforme che ti possono far godere un film. Bisogna […] ripensare bene a tutto il sistema di distribuzione, e quindi anche al sistema di comunicazione. Sinceramente, se quando usciranno in contemporanea il fumetto e il film qualcuno andrà a vedere il film e qualcuno si comprerà solo il fumetto, io sarò molto contento».
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