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diretto da Romano Luperini

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Cultura visiva e Transmedialità/ Il cinema è il cinema

 Perché una rubrica su “cultura visiva e transmedialità”?

Nella sua storia, il nostro blog ha ospitato più volte interventi sul crescente influsso della dimensione visiva nella cultura contemporanea, dedicando uno spazio importante alla riflessione sulle nuove istanze e forme espressive che proliferano in quest’ambito. Il confronto su questi temi ha toccato aspetti diversi, e si è tradotto in una pluralità di voci e punti di vista, legati alle esperienze e alla formazione di redattori e redattrici: il caso più significativo, in tempi recenti, è costituito dal dialogo che si è aperto a partire dalla recensione della docuserie “Sanpa”. Nell’ambito della redazione, è quindi nata l’idea di ritagliare per la cultura visiva e la transmedialità uno spazio specifico, all’interno della sezione “Il Presente e noi”. 

In questo spazio affronteremo argomenti anche molto differenti fra loro, in forme articolate: recensioni di libri, film, serie e prodotti multimediali; brevi saggi critici; interviste ad esperti del settore. Attraverso la varietà dei temi e degli approcci perseguiremo alcune finalità condivise per comprendere a fondo il ruolo che visivo e transmediale giocano nella nostra vita personale e professionale.


Si sa che fin dalla sua nascita il cinema ha dovuto convivere con chi lo reputava la Settima Arte e chi un fenomeno da baraccone destinato a durare ben poco. Questa sua doppia natura – di forma d’arte e di spettacolo – è diventata nel corso del Novecento anche la sua forza, se è vero, come sostiene Francesco Casetti ne L’occhio del Novecento (Bompiani, 2005), che «il cinema, nel catturare la realtà, abbia finito con il delineare un tipo di sguardo sulle cose, su se stessi e sugli altri, che il secolo ha fatto proprio, o perlomeno con cui si è identificato». Del suo potenziale furono senz’altro consapevoli i dittatori, che subito misero le mani sul cinema per influenzare le masse e manipolare le loro coscienze. Artistico o meno, da strumento di divertimento il cinema divenne velocemente uno strumento potenzialmente pericoloso, sulle cui specificità si soffermarono molti studiosi, alcuni dei quali presi in prestito anche da altri ambiti – dalle arti plastiche, dalla filosofia, dalla semiotica, dalla psicanalisi e via dicendo.

Si sa anche che alcuni famosi letterati non la presero bene quando il cinema fece la propria comparsa: lo consideravano una cosa senza futuro, che con l’arte aveva poco a che fare – di qui il tentativo di difendere la sua artisticità da parte di alcuni teorici, come Rudolf Arnheim, che in Film come arte, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1960  da Il Saggiatore, predicava la necessità di non integrare il sonoro e il colore per non rischiare di trasformare il cinema in un mero riproduttore della realtà.

Tra questi c’era anche Vachel Lindsay, un poeta, utopista e visionario, che scrisse il primo libro di teoria del cinema uscito negli Stati Uniti, esattamente nel 1915, intitolato Art of the Moving Picture (si veda l’edizione italiana uscita per Marsilio nel 2008 con il titolo L’arte del film). Dalle parole dello stesso Lindsay è possibile comprendere quanto difficile potesse sembrare all’epoca far passare l’idea che il cinema fosse un’arte, soprattutto nel paese che avrebbe dato i natali alla grande macchina hollywoodiana.

«I soggetti che spero di convincere sono: 1) i grandi Musei d’Arte d’America, inclusi quelli che in vario modo li sostengono, quelli che vi espongono le proprie opere o che li frequentano, gli studenti di belle arti che circolano nei corridoi dei piani bassi e operano nello stesso campo; 2) i dipartimenti di letteratura inglese, di storia del teatro, di arte drammatica, e di storia dell’arte e di “pratica artistica”, nella lista incredibilmente lunga dei nostri college e delle nostre università (di cui si può prendere visione, per esempio, nel “World Almanac”; 3) il mondo della critica e della letteratura in generale.»

In Europa quest’idea aveva attecchito soprattutto tra le avanguardie – tra le quali vale la pena ricordare il Futurismo, il Surrealismo, l’Impressionismo francese, l’Espressionismo tedesco e il Costruttivismo sovietico – che nel cinema videro e sperimentarono invece delle possibilità fino a poco prima impensabili. Il mondo delle lettere era però sulla difensiva, forse terrorizzato dall’idea di vedersi rubare la scena da un mezzo che muoveva le folle. Se per Antonin Artaud esso è addirittura una forma di rivelazione che ci mette direttamente in rapporto con la vita occulta, per il Pirandello di Serafino Gubbio operatore la macchina invece «ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita» di cui diventa padrona.

Oggi che viviamo in tempi di ibridazione e che l’uomo-macchina sembra non essere più uno scandalo, occorre chiedersi che cosa resti di questo cinema che è stato l’occhio del Novecento, per dirla ancora con Casetti: di un cinema che «ha cercato di trattenere il reale nel momento in cui esso usciva dall’orizzonte della nostra esperienza e che contemporaneamente si è inserito nel più generale sentimento di smarrimento che il secolo ha etichettato come “perdita dell’esperienza”, o come “esperienza della perdita”.»

Anche se è profondamente cambiata l’esperienza del cinema – sappiamo che ormai esso non coincide più, o non soltanto, con quella particolare esperienza che prevede l’ingresso in una sala buia, dove ci sediamo accanto ad altri spettatori e sospendiamo qualsiasi altra attività per un’ora e mezza o due – questo non significa che il cinema e ciò che ci ha insegnato in oltre un secolo di vita – quello che potremmo definire il suo bagaglio teorico – sia da buttare nell’epoca del proliferare incontrollato delle immagini; anzi, la mia idea è, per dirla con Jacques Rancière, che quest’arte delle immagini ci possa venire oggi in soccorso per contrastare quelle macchine dell’informazione e della pubblicità che sono internet e la televisione.

Probabilmente il vincolo dalla pagina scritta è stato, tra i tanti, il più difficile da allentare per un’arte giovane che voleva rendersi autonoma e che da questo legame ha saputo trarre nuova linfa. I punti di contatto tra il cinema e la letteratura sono tanti e vanno dalla citazione e dalla traduzione al più complesso concetto di immaginazione narrativa, che per Pietro Montani – si veda il testo L’immaginazione narrativa, pubblicato nel 1999 da Guerini e Associati – nel cinema, o meglio in un certo tipo di cinema, può coincidere con una forma di narrazione che l’autore definisce “oltre-letteraria” e che ha a che fare con «una speciale attitudine a risalire fino alle radici profonde del racconto, mostrando di saper esplorare la regione immaginativa in cui, prima ancora di trovare le sue forme, la comprensione narrativa delle cose e del tempo che le connette si fa cogliere nel suo più originario, e problematico, dischiudersi.» Montani intende cioè provare a mettere in evidenza una regione che potremmo definire intermedia, situata tra il dato e il senso: «non le cose, ma quel che c’è “tra” le cose, il phatos (la passività) con cui le riceviamo e, insieme, l’attività con cui le rendiamo significanti.» Il cinema avrebbe quindi il potere e il dovere di «far sentire questo processo immaginativo, di dargli tempo e forma.» È Sergej Ejzenštejn, teorico e regista, a chiarire questo passaggio in Teoria Generale del Montaggio (Marsilio, 1985), dichiarando che solo il cinema può accompagnarci nella comprensione di quello spazio che si apre oltre l’Ulisse di Joyce – che in letteratura è rappresentato dal Finnegan’s Wake, ovvero da un’opera che eccede «i limiti di una letteratura accessibile alla lettura e alla comprensione.» Partendo dalle basi gettate dal Paul Ricœur di Tempo e racconto (Jaka Book, 1986), Montani chiarisce quindi che questa peculiarità del cinema – di un certo cinema, lo ripeto ancora – consiste nel suo potere rifigurante, laddove «il rifluire della forma chiusa (l’universo della finzione testuale, NdA) nel mondo dell’esperienza effettiva» diventa oggetto di racconto, come risulta mirabilmente dalla trilogia di Abbas Kiarostami (Dov’è la casa del mio amico?, 1989 – E la vita continua, 1990 – Sotto gli ulivi, 1993). Nei tre film del regista iraniano questo andirivieni tra storia e finzione costituisce un intreccio che ha senso sia nelle opere prese singolarmente che nella loro totalità, attraverso una fitta rete di rimandi che coinvolgono gli attori e i personaggi che essi interpretano e mettendo in immagine, come allude esplicitamente il titolo di uno dei film, il fatto che la vita continui fuori campo. In Kiarostami la narrazione che Montani definisce oltre-letteraria consiste dunque «nell’immaginare, insieme, un tempo della vita e un tempo del racconto.»

Come ci ricorda Jacques Rancière (si veda La favola cinematografica, edizioni ETS, 2006), sintetizzando il pensiero del regista e teorico Jean Epstein, «la vita infatti non è fatta di storie, in essa non troviamo azioni orientate verso fini determinati, ma solo situazioni aperte in ogni direzione.»

Ovviamente questo vale per qualsiasi mezzo si decida di scegliere per raccontare una storia, con la differenza che al cinema il rapporto di prossimità dell’immagine con la “realtà” – il suo alto gradiente denotativo – non può certamente essere ignorato; anzi, è stato considerato per lungo tempo il suo limite e il motivo per cui alcuni non consideravano quella cinematografica un’arte degna di questo nome. Allo stesso tempo a insospettire era anche la natura per così dire spettacolare del nuovo mezzo, il suo essere forma d’intrattenimento popolare. Chi il cinema lo difendeva riconoscendogli una propria autonomia, come Apollinaire, preferiva il cinema “puro” degli esordi – quello dal taglio più documentaristico dei fratelli Lumière o, al contrario, quello dei trucchi fantastici di Méliès – agli adattamenti da opere teatrali o da romanzi, nonostante quest’ultimi incontrassero il favore del pubblico. Il poeta francese era sicuro che lo sviluppo della poesia visiva – ad esempio gli “ideogrammi lirici” basati sulla disposizione spaziale dell’enunciato – sarebbe addirittura dipeso dal fondamentale contributo del cinematografo.

Sugli effetti di quest’ultimo sulla letteratura e sulla scrittura più in generale resta molto da dire, soprattutto oggi che le nostre vite sono immerse in quella che è stata definita cultura visuale.

Che cosa significa, quindi, che il cinema è il cinema?

Come avrete potuto leggere nel precedente articolo di Giulia Falistocco, il cinema ha maturato al tempo stesso una sua specificità – verrebbe da dire appunto una sua artisticità (o autorialità), come fa Martin Scorsese rivendicando la propria libertà di dire che i film Marvel non sono cinema – ed è passato su altri supporti, portandosi dietro sia il proprio immaginario che le proprie marche stilistiche – il cinema come strumento per rileggere la storia o la cultura, che esso stesso ha contribuito a influenzare e di cui è diventato documento da studiare tra gli altri.

Il cinema è il cinema è un po’ come dire che la letteratura è la letteratura.

Si tratta cioè di stabilirne i confini, di decidere preventivamente se dei confini possano esserci e secondo quali criteri, e per farlo è necessario esplorare non soltanto gli stili e le forme che lo hanno caratterizzato nel tempo, ma anche le teorie che, partendo proprio da quegli stili e da quelle forme, hanno cercato di stabilire nel tempo che cosa fosse cinema e che cosa no.

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