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Su Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento

 Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, Galaad Edizioni 2014.

L’ultimo libro di Antonio Tricomi Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, è un volumone di 400 pagine che raccoglie di testi di vario argomento, natura e provenienza: saggi (anche lunghi anche molte decine di pagine), interventi occasionali nei convegni, brevi (a volte brevissime) recensioni su diverse riviste e settimanali e, infine, persino degli inediti sfoghi, definiti così dallo stesso autore. Un libro sotto molti punti di vista barocco, a livello macro, nel carattere disarmonico della sua struttura interna e nel paratesto straboccante di titoli, sottotitoli e epigrafi, ma anche a livello micro, nelle frequenti ripetizioni e nella prosa arditamente ipotattica, che però ha il merito di rifuggire da qualsiasi tecnicismo, riflettendo così un’idea di critica letteraria come discorso sul mondo e sul presente attraverso i testi, e non esegesi specialistica destinata al circolo chiuso dell’università.

Per introdurlo, seguiamo il suggerimento dello stesso autore partendo dal saggio d’apertura dedicato al regista russo Aleksandr Sokurov. Non è un caso che Tricomi abbia scelto di iniziare con un saggio sull’autore dell’Arca russa, un film che è «un’esplorazione di un mondo che non c’è più e di cui si può fare esperienza solo vagliandone i resti stipati in uno spazio chiuso, un museo»(p.26). Tema centrale del suo libro è, infatti, la crisi della civiltà occidentale, il declino dell’umanesimo, la fine di qualsiasi consorzio civile all’interno di una società composta non più da individui dotati di pensiero critico, ma di atomi dediti semplicemente al consumo.

Un’atmosfera post-apocalittica aleggia dunque su tutte le pagine di Tricomi e, tra i ritratti dei diversi scrittori da lui evocati, il lettore si aggira spaesato, come lo spettatore del film di Sokurov tra i capolavori dell’Hermitage, allegorie in entrambi i casi di una modernità ridotta in macerie.

Impossibile dare conto di tutti gli autori considerati e presi in esame dal critico marchigiano, con la passione, il rigore e l’intelligenza critica che lo contraddistingue. Anche nello spazio ridotto di una scheda di meno di duemila battute, Tricomi riesce a formulare un giudizio articolato e netto, senza lesinare sulle stroncature, quando è necessario. Un’attenzione particolare viene tributata agli scrittori tedeschi della prima metà del secolo (come Franz Hessel e Christopher Isherwood, ma ricorrono anche i nomi di Simmel e Benjamin) perché, come si legge più volte nei diversi saggi del volume, l’Italia di oggi «sinistramente ricorda la Repubblica di Weimar»(p. 397). Tra gli italiani ricorre naturalmente il nome di Pasolini, al quale Tricomi ha già dedicato numerosi saggi, senza però ricadere nel vizio, comune oggi a molti, di farne un santino, ma mostrando anzi una chiara consapevolezza dei suoi limiti artistici e culturali. Tricomi non prende in esame tanto il poeta e il romanziere, quanto lo scrittore corsaro e luterano, l’intellettuale che con più profondità di altri ha saputo interpretare la cesura generazionale e i cambiamenti antropologici dell’Italia tra anni Sessanta e Settanta, colui che più tragicamente ha preso atto del tramonto dell’umanesimo, dell’impossibilità di una sua sopravvivenza in seno ad una società consumistica ed edonistica.

L’attualità di Pasolini è del resto confermata dai due libri che hanno fatto tesoro – sia pure in modi diversissimi – della sua lezione e che, a parere di Tricomi, sono tra i più significativi degli “anni zero”: Gomorra di Roberto Saviano e Troppi paradisi di Walter Siti. Libri che appartengono a una stagione nuova della letteratura italiana: «è innegabile – afferma Tricomi – che (…) oggi vediamo giunta a maturazione una letteratura capace – dopo anni di sterili giochi intertestuali – di confrontarsi col presente»(p. 208). Questa affermazione contrasta con i toni apocalittici di cui si diceva all’inizio e con le affermazioni pessimistiche che si leggono in uno dei saggi conclusivi del libro, dove Tricomi, con coraggio e lucidità, guarda negli occhi l’irrilevanza sociale scontata oggi dalla cultura umanistica e da tutti coloro che si ritengono ad essa legati e si ostinano a riconoscerle ancora un qualche valore. In questo «scritto, o magari forse sfogo, inedito», Tricomi prende le mosse dalla tesi formulata da Romano Luperini nel suo Tramonto e resistenza della critica, secondo cui gli attuali lavoratori della conoscenza, in virtù della loro stessa marginalità sociale, sarebbero in grado di rappresentare la marginalità di tutti e rilanciare così il nucleo vero dell’umanesimo, l’idea di comunità e unità del genere umano. Un auspicio nel quale Tricomi – appartenente alla generazione cui fa riferimento Luperini, in quanto «quasi quarantenne operatore culturale stabilmente precario» a scuola e all’università – ravvisa «il rischio di un’illusione paternalistica»(p. 365): «mi addolora – confessa l’autore – non potermi ritenere, in tutta onestà, un effettivo resistente, perché ciò contrasta e destina al fallimento ogni mio ipocrita, e però forse psicologicamente indispensabile, tentativo di nobilitare dal punto di vista etico la condizione di servaggio e di infamia sociale che mi è congenita»(p. 364).

Quella di Tricomi costituisce, dunque, la rara confessione d’impotenza di una «generazione umiliata», incapace di scrollarsi di dosso quell’individualismo al quale è stata educata da una generazione di padri narcisisti, e mettere in pratica comportamenti realmente comunitari. Non si può dargli torto: basti pensare al fallimento clamoroso del progetto TQ lanciato nel 2011 da un gruppo di intellettuali trentenni e quarantenni. Ciononostante, occorre rifuggire da atteggiamenti troppo inclini all’autocommiserazione, vizio inveterato di un ceto, come quello dei critici e dei letterati, che oggi più che mai ha il dovere di allargare l’orizzonte del proprio sguardo e orientarsi verso una prassi più concreta e incisiva. 

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