Il falcone maltese 2.0
Un’avventura. C’è chi la chiama così.
In particolare un sardo con degli occhiali rettangolari che fanno a pugni con la sua faccia, rotonda. Molto rotonda. La sua pelle ha il colore del prosciutto cotto lasciato fuori dal frigo per diversi giorni. I suoi vestiti sono quelli di uno che ha provato a fare l’elegante-informale per un colloquio di lavoro, senza sapere che certi colori piazzati insieme potrebbero causare un distaccamento della retina. O perlomeno una forte nausea.
«Perché la mia ragazza l’Erasmus qui ci ha fatto a Malta e allora poi in vacanza siamo venuti e poi il corso d’inglese facciamo che è importante l’inglese, no? E allora poi per questo io… io allora poi lavoro cerco e… allora poi, abbiamo detto… in questa nuova avventura proviamo a lanciarci… no?».
Di fronte al sardo l’esaminatore, dipendente di una ditta israeliana con sede legale a Cipro e filiale italiana strategicamente piazzata a Malta, sembra un pesce. La sua trédincòmpani è specializzata in scambi monetari ai limiti della frode e deve reclutare degli italianspichingseilsagènz: insomma, gente che sappia usare l’italiano per vendere qualcosa. Non si capisce cosa.
Sta fermo immobile dietro un iPad, tenuto davanti come uno scudo e non sembra nemmeno respirare. È un tipo bruttino, pelato, con una camicia casual-sbottonata, una giacca blu firmata, una calvizie cattiva come il caffè fatto con le bustine.
Strizza gli occhi, ancora fissi sul sardo, come se avesse un riflettore puntato davanti alla faccia. Ha venticinque anni, l’esaminatore, anche se ne dimostra una quarantina. Parla italiano per lavoro, ma il suo italiano è quello tipico del quasi-trentenne maltese che non ha perso una puntata di Bim Bum Bam e dei Ragazzi della Terza C. Insomma, tra l’eloquenza madrelingua e l’imitazione di un pagliaccio rosa che interagisce con Paolo Bonolis, ce ne corre.
«Quali sono le qualità che secondo te è utile per questa professione?» domanda, senza troppo pensare ad accordare soggetti e verbi.
Il sardo biascica qualcosa che nessuno capisce e che ricorda la sintassi del Maestro Yoda. Suona tipo: «Perché una nuova avventura, noi vogliamo lanciarci. Una possibilità vogliamo provare, noi, che la crisi in Italia….».
Nessuno degli altri quattro candidati nella sala meeting capisce il senso della risposta. Cinque, candidati. Un giovanottone siciliano con troppo dopobarba e un giubbotto alla Fonzie è appena entrato di corsa biascicando sorri àim in ritardo, interrompendo il sardo in difficoltà.
L’esaminatore abbandona per un momento la faccia da pesce e chiede il nome al nuovo arrivato.
«Santino Di Mario, ciàattutt’!».
Lo guarda per un istante. Gli occhi strizzati di chi ha visto una roba nera sul pavimento e teme che sia un ragno. Stringe a sé ancora più forte l’iPad, in un gesto di estrema rabbia o disperazione. Poi abbandona le avventure del sardo e passa ad un secondo candidato.
Fuori piove, una pioggia nebbiosa degna dei sobborghi di Londra e per nulla mediterranea. La stanza del meeting è come tutte le stanze dell’isola: umida, senza riscaldamento, arredata col gusto di trent’anni fa. Mette voglia di benzodiazepine o di aprire il gas. Ma il gas non c’è, sull’isola di Malta.
Il secondo candidato è vestito da globe-trotter ripulito alla meglio, sui toni del beige-schizzato-di-qualcosa. Ha la barba lunga e un odore un po’ strano. Ristorante misto a deodorante del Lidl, forse. Non ha meno di cinquant’anni e si è seduto vicino ad una ragazza molto più giovane, la cui mimica corporea risulta chiara come un cristallo: si è praticamente spalmata sul muro per stargli lontana.
«Ciao a tutti, sono Danilo, ho vissuto quindici anni in Francia e sono venuto a Malta per fare il pianista».
Momento di gelo, l’ennesimo. Incomprensione generale. La ragazza accanto, sempre appiccicata al muro come una ventosa, si lascia scappare: «La leggenda del pianista sullo scoglio!».
L’esaminatore la guarda e gli scappa da ridere. Si nasconde dietro l’iPad/scudo, ma il suo ghigno si intravede ugualmente. Danilo è fottuto in partenza, non ha alcuna speranza. Ma, ovviamente, non se ne rende conto.
«Io ho esperienza, nella vendita, però» bofonchia, esponendo una dentatura da brividi «Vendevo pubblicità, sapete. In feistuféis».
L’esaminatore smette di ridere, scrive qualcosa su un foglio e con la sua faccia da merluzzo essiccato puntualizza: «Puoi spiegarmi cosa vuò dire vendere pubblicità faccia a faccia? Volantini? Spazi web?».
No, con i verbi Bim Bum Bam ha un po’ fallito.
Il pianista aggrotta delle sopracciglia grigie grosse come uno spazzolone da cesso.
«Eh, pubblicità, no? Roba come… materiale pubblicitario… E poi ho collaborato con un concessionario. E poi anch’io sono pronto a lanciarmi in una nuova avventura».
Il silenzio cala di nuovo. La pioggia batte sui vetri. L’esaminatore sembra sul punto di lanciarsi dalla finestra. La ragazza del pianista sullo scoglio alza la mano e chiede: «Ma siamo al meeting… per il posto di agente di vendita madrelingua italiano, vero? Valuta estera, borsa… non ho sbagliato posto?».
Il povero esaminatore-pesce annuisce e la rassicura, senza cogliere minimamente il sarcasmo.
«Ah, ok. Andiamo bene» aggiunge la tizia, abbandonando per un attimo la postazione contro al muro per infagottarsi in una specie di improbabile sciarpa a fiori. Una ragazza dietro di lei le chiede sottovoce: «Che bella… è di Desigual, vero? La sciarpa!», come se avesse visto un unicorno. Dopo due anni passati a Malta senza mai uscire dall’isola, ha sviluppato una maniacale attrazione per tutti i prodotti di marca non disponibili sul posto e più tardi confesserà, con gli occhi lucidi, di farsi spedire da una cugina i cataloghi di Intimissimi.
Arriva il momento dell’ultimo arrivato, il giovanottone siciliano col giubbotto alla Happy Days. Si alza in piedi, prima di parlare, poi si risiede.
Non è un adolescente, ma è pieno di acne. Una collezione di brufoli rossicci gli spunta sulle guance e sul mento. Forse è qualcosa che ha mangiato. Dopotutto l’isola di Malta vanta una certa spensieratezza riguardo il concetto di catena del freddo ed ha il fantastico primato di cinquanta casi di tifo all’anno. Ma questa è un’altra storia.
Santino ha un modo di parlare tutto suo, ancora più oscuro del sardo/Maestro Yoda. Dice di essere portato per queste attività perché ogni tanto fa il pierre a Paceville per qualche locale. Lo dice convinto, fregandosi le mani. Ripete tre o quattro volte di essere siciliano e trova utile aggiungere alla sua scarna presentazione che l’idea di una compagnia straniera che fa cose strane coi soldi lo esalta tremendamente… e non esita a dire che a lui gli piacciono proprio queste robe tipo i film. L’esaminatore tira una riga dritta sul foglio di fronte a lui. Non serve un sensitivo per capire che la riga serve a barrare il nominativo del sicilianissimo Santino. Una scrollata disperata della testa accompagna il colpo di penna.
Il colloquio passa a quel punto alle tre donne rimaste.
La prima a parlare è Doris, che pronuncia il suo nome Dorìs, con l’accento sbagliato. La tizia in prima fila, la cui lingua biforcuta aveva taciuto, shockata, di fronte all’esibizione del Fonzie di Catania, sorride da sola. Nessuno sa che il nome Doris le fa venire in mente una canzone del Teatro degli Orrori. Nessuno sa che quella canzone le evoca immagini surreali, ma non tanto surreali quanto quella stanza sottilmente puzzolente di antimuffa e cantina, con sette disperati più o meno italofoni chiusi dentro.
Dorìs ha venticinque anni, come l’esaminatore. Come lui, ne dimostra quasi il doppio, nonostante un tailleurino elegantissimo e un meno elegante strato di fondotinta color mattone spalmato dal mento alla fronte. Ha i capelli di quella sfumatura di rosso che fa pensare ai Tena Lady e ai guai della menopausa e ha un’aria triste di una tristezza d’altri tempi.
Suo padre, ingegnere trevigiano, ha trascinato sua madre e lei dalla ridente Civitavecchia alla meno ridente Marsa, zona industriale di Malta, due anni e mezzo fa. La ragazza ne ha approfittato per imparare due cose: l’inglese maldestro dell’isola e il razzismo anti-lavoratori-stranieri delle persone maltesi di fascia sociale medio-basso-rasoterra. Non ha un fidanzato. Non ha un lavoro. Si gratta il viso, mentre parla, aprendo strisce di pallore nel fondotinta.
«Ho lavorato in un call center della Betting Connection. Gaming online. Non sembra troppo diverso da quello che fate voi».
Doris non brilla per eloquenza, ma sembra avere le idee un filo più chiare, un accento comprensibile e una grossa fame di lavoro. L’esaminatore, per la prima volta, tiene a bada la penna. Forse Doris verrà reclutata. Anche se nessuno ha ancora parlato chiaramente di soldi, orari di lavoro, contratti. Tutti sparano e sperano a caso.
Non restano che due candidate, la stronza in prima fila e una tizia dietro di lei, infagottata in un cappottone marrone fradicio di pioggia.
La signora-cappotto è Marisa, moglie di un cuoco arrivato sull’isola con la promessa di un contratto per un hotel di lusso. Il contratto è stato rescisso dopo un giorno di prova. Solo dopo alcuni mesi di stenti e preoccupazioni, l’hotel Le Méridien lo ha assunto e ha salvato lui e la sua scialba, minuscola, moglie.
Sì, perché Marisa, dentro il cappotto, è una cosina di quaranta chili. Tutta occhiali e capelli crespi di un color giallo-mesciato. Ha l’aria malaticcia e più tardi, di fronte ad un caffè, racconterà di soffrire di diarrea cronica e di essere rimasta svenuta per più di mezz’ora sul pavimento del cesso della sua povera casa da moglie di cuoco sfigato.
«Io sono stata insegnante di italiano per stranieri, quando vivevo a Roma. Parlo inglese, tedesco e capisco un poco di arabo».
Doris sente la parola Roma e le bisbiglia qualcosa, tipo conosci micaMichele Vattelappesca di Civitavecchia?
L’esaminatore si aspetta qualcosa di più, da una professoressa, e chiede ulteriori dettagli; le chiede di parlare un po’ di sé.
Marisa tace. Si spinge gli occhiali enormi sul naso e, con una vocina debolissima, sussurra: «Mi piacciono i cani».
«Allora hai porta tuoi cani qui a Malta?» ribatte l’esaminatore, senza rendersi conto di parlare un italiano non proprio degno della Crusca.
Marisa abbassa la testa.
«In realtà, non ho cani» risponde, prima di scivolare di nuovo in un mutismo totale.
La pioggia continua a scendere interminabile, la stanza è sempre più fredda, anche se si avvicina il mezzogiorno. L’ultima a parlare è la tizia criticona in prima fila.
Si chiama Anna, è italiana ma viene dall’Olanda e ci tiene a dirlo, con un visibile fastidio verso l’italianità tout court. Ostenta il suo italiano standard – quasi privo di accento – almeno quanto la sua sciarpa firmata e la sua taglia 42, che le costa indicibili sforzi quotidiani. Ha passato i trent’anni, ma non si vede molto e lei evita di dirlo. Lo si deduce dal fatto che ha una laurea, un dottorato, un anno di lavoro in un’università toscana e quattro di insegnamento nella scuola olandese. Il marito, chiamato ad insegnare nell’ateneo maltese, è la ragione del suo trasloco, di cui parla come potrebbe parlare di un grave lutto, di un cancro o di una calamità naturale. È vestita di nero, a parte la famosa sciarpa, ha un paio di piercing in faccia che si è ben guardata di nascondere per il colloquio, e ha dei capelli castani lunghissimi e lisci, da orientale. Verrà lungamente interrogata a riguardo, dopo il colloquio, dalle altre donne: piastra, shampoo, balsamo, le chiederanno tutto quello che usa. Da vera stronza, nonostante spenda ore per avere i capelli in quel modo, dirà alle sventurate compagne di averli naturali così. Così come dice di non avere mai fame e di non fare mai la dieta. Anna è quella che tutte le donne chiamerebbero una vera stronza.
Anna, dopo una breve presentazione, fa quello che nessun altro ha osato.
«Se permette, avrei anche io qualche domanda da fare. A quanto ammonta lo stipendio, quante ore di lavoro giornaliere sono previste e con quali tipi di turno? Dove si trova esattamente la sede? Si prevede un corso di formazione?».
L’esaminatore, estasiato, la guarda snocciolare le sue domande con la faccia di chi ha trovato la candidata ideale.
«Lo stipendio fisso è 800 euro mensili, per nove ore a giorno, dalle 9 alle 18 o dalle 12 alle 21. Dal lunedì al venerdì in la nostra sede di Sliema. Ma ci sono forti commissioni sugli account che riuscite ad aprire. Un ragazzo, qualche tempo fa, ha aperto un account da 100.000 euro! E si è presi il 14 percento. Ammazza, eh!».
Anna lo guarda delusa, molto delusa. La chiamano avventura, eh? Lei lo chiamerebbe sfruttamento, tralasciando la natura fumosa degli account da far aprire a questi ignari giocatori di borsa online.
«Non si dice ammazza» risponde, con un tono da prof inacidita «Vorreste vendere prodotti finanziari ad italiani dicendo cose come ammazza? In questi casi si dice complimenti per la sua eccellente scelta e grazie per aver investito con la nostra compagnia e blablabla. Lo so che lei deve giocare il ruolo del finto-informale, con la camicia slacciata e qualche parolaccia, per metterci a nostro agio e scoprire meglio le nostre debolezze: è un trucco molto comune nei colloqui di lavoro».
Tutti tacciono, terrorizzati. L’esaminatore trascrive la frase di Anna sul suo iPad. Scrive anche il blablabla.
I sei candidati, alla fine del colloquio, dovrebbero dunque essere pronti a lavorare 45 ore settimanali in una specie di call center, per 800 euro più commissioni, e pronti ad essere licenziati in tronco se a partire dal terzo mese non apriranno almeno 15 account mensili. Questa è l’avventura in cui lanciarsi, questa è la vita nuova lontana dalla crisi italiana. Questo è il loro falcone maltese, fatto della stessa materia di cui sono fatti i soldi degli investitori che cadono nella rete di questa compagnia: e no, non parlo dei sogni. Parlo di merda.
Dei sei candidati, soltanto una sarà dichiarata idonea: la stronza Anna, con la sua parlantina e la sua sciarpa firmata.
Anna, però, dopo una rapida ricerca su Google – nome-della-compagnia+truffa – deciderà di non presentarsi al corso di formazione. Deciderà di continuare a fare la casalinga disperata, ancora per un po’. Manderà un’elegante e-mail di scuse piena di auguri per gli altri candidati selezionati. Che non esistono.
Due ore dopo il non-presentarsi di Anna, l’esaminatore ri-posterà sui vari siti di annunci il suo italianspichingseilsagènz for a uèll nóun trédincòmpani... Forse stavolta sarà meno selettivo. Forse stavolta si renderà conto che quello che la sua azienda cerca, alle sue condizioni, non è altro che l’ennesimo, personalissimo, falcone maltese.
Che no, non è fatto della materia di cui sono fatti i sogni.
______________________
NOTA
Questo pezzo è comparso sul blog «Carmilla» ed è consultabile seguendo questo link: http://www.carmillaonline.com/2014/04/11/falcone-maltese-2-0/
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