Storie di uomini e di coltelli. Sulla violenza di Senago e Abbiategrasso
Nella antica terra dei Longobardi incidere una tacca su un albero serviva a stabilire un confine ed una proprietà. Senago, a Nord di Milano, porta nel nome quella storia. Poco più ad occidente di Milano i luoghi ricordano nel nome il mondo dei Celti, che incontravano le sorgive rampollare dalla terra, ed i Galli ed i Romani trovarono fertile quella pianura. Abbiategrasso, infatti, racchiude l’acqua dei Celti (abi) il suffisso toponimo (atis) e l’indicazione latina di terra ubertosa (grassus). Sono circa 37 chilometri quelli che separano Senago, in cui è morta Giulia Tramontano, uccisa, intorno alle otto di sera, dal padre del bimbo che aveva in grembo, da Abbiategrasso, in cui è stata aggredita Elisabetta Condò, ferita, intorno alle otto del mattino, da un suo alunno. L’assassino di Giulia ha 30 anni, l’aggressore di Elisabetta ne ha 16. Sono maschi che si sono avventati contro una donna, e, per stabilire la loro supremazia, entrambi hanno usato il coltello. Sembra riemergere dalla profondità della storia l’antico diritto del maschio, che decide della vita e della morte di suo figlio, che si sbarazza della donna che non vuole più, che rimette al suo posto la donna che pretende di sollevarsi dalla sua inferiorità, e che osa giudicare le azioni di chi le è superiore per natura. Entrambi in torto, i maschi si sono fatta ragione colpendo alle spalle la donna che aveva il diritto di interrogarli. Come se un istinto ferino li guidasse, senza più intelletto, senza emozioni, freddamente hanno realizzato un piano di difesa che consisteva nell’eliminare l’ostacolo. Questo ho pensato, leggendo due notizie che i giornali hanno considerate scollate, e che a me, invece, sono subito apparse intimamente legate. Ridotti all’essenziale, i fatti raccontano di due donne che non hanno preso in considerazione una possibilità: poter essere vittime.
Dalla parte delle vittime
Qualunque siano stati i labirinti mentali che hanno scatenato la violenza, e qualunque siano le ‘ragioni’ che rendano comprensibile l’aggressione, in premessa bisogna affermare che la civiltà umana, nel suo percorso millenario, ha sancito che la risoluzione dei problemi personali non passa attraverso l’eliminazione fisica di chi è identificato, a torto o a ragione, come responsabile di tali problemi. Possiamo comprendere l’azione criminale, ma questo non significa attenuarne il significato, al contrario, a mio parere, significa stabilirne la gravità. Il perdono può essere slancio individuale dell’offeso, che non può e non deve avere peso nel giudizio dei fatti e nell’attenuazione della colpa. Dunque non spetta a noi perdonare l’assassino e l’aggressore: a noi spetta il compito di capire.
Principi sacrosanti e condivisi stabiliscono la salvaguardia della persona, la difesa della sua incolumità, il rispetto della sua dignità. Le donne nel tempo hanno conquistato la dimensione di persona, ma non uniformemente, tanto che esistono luoghi oggi in cui tale conquista è spostata nel futuro, e chi lotta per l’utopia di un mondo in cui uomini e donne siano liberi e uguali nei diritti, subisce tutto il peso della repressione legale contro la sovversione e la rivoluzione. Lo slogan Donna, vita, libertà, dopo la morte di Mahsa Amini, dall’Iran si è diffuso in Afganistan, in Turchia, nei perseguitati gruppi di disobbedienza civile sparsi per il mondo, in India, e – debolmente – in Francia e in Italia. La sola esistenza di gruppi di resistenza, di opposizione, di protesta, dimostra che la condizione femminile è ancora tragicamente segnata dalla sopraffazione e dall’emarginazione. Anche là dove lo sviluppo economico ha consentito l’integrazione delle donne nel tessuto civile, e la nascita di una coscienza politica ha realizzato l’emancipazione da una condizione di inferiorità sociale, permane, in alcuni gruppi, in alcuni individui, in alcuni schieramenti politici, un sotterraneo tradizionalismo maschilista, una mentalità che resiste ai cambiamenti e rimpiange il buon tempo antico del controllo patriarcale delle femmine. Questo sostrato antico emerge anche in Italia nelle battute di spirito, nei lapsus, negli atteggiamenti, in azioni o dimenticanze innocenti, oppure, tragicamente, in colpevoli azioni criminali. Sono, perciò, a mio parere, differenze quantitative quelle che separano una battuta volgarmente sessista, fondata sul disprezzo, dall’aggressione fisica, come, nella violenza, muta soltanto l’intensità tra un ferimento e un omicidio. Ma la qualità è la medesima. La sostanza è offendere, colpire, annientare. Del resto, questi maschi aggressori, dal punto di vista simbolico, è evidente che hanno aggredito alle spalle la ‘madre severa’. Elisabetta Condò lo è per ragioni anagrafiche, rispetto al sedicenne, e perché annuncia l’interrogazione (il giudizio, la valutazione), inoltre, in quanto insegnante, è una proiezione genitoriale. Giulia Tramontano è ‘madre’, perché prossima al parto, e vuole dal compagno una spiegazione, che lui, evidentemente, come il sedicenne, non vuole (o non può) fornire: come il sedicenne, non vuole sia ferito il suo narcisismo. Se si trattasse di un romanzo e si avesse a che fare con personaggi, e non con persone reali, si potrebbe facilmente arguire che l’autore di questa trama voglia suggerire un groviglio esistente tra i maschi e le loro madri, e che la madre simbolica è il tema dell’angoscia e del disadattamento dei figli. Si tratterebbe di personaggi che vivrebbero l’assenza – debolezza del padre e che temerebbero la madre giudicante. Ma quello di cui sto trattando è argomento, purtroppo, da criminologi, a cui lascio il compito, e non da letterati.
Sto trattando di fatti di quella cronaca, che si definiva «nera», nel tempo in cui un giornale, il giorno dopo, era buono solo per incartare il pesce. Adesso della notizia rimane ancor meno, tra qualche giorno ancora, nel susseguirsi vorticoso di sempre nuove emozionanti breaking news, il ricordo di questi nomi e di questi fatti evaporerà. Come sembra non mai avvenuto quanto invece è accaduto a Maria Cristina Finatti, l’insegnante dell’Itis “Viola Marchesini” di Rovigo, colpita alla testa da pallini esplosi da una pistola ad aria compressa impugnata da un suo alunno. Si tratta di un caso interessante su cui riflettere, per due ragioni e due postille.
La prima ragione è che si è trattata di una aggressione di gruppo, pianificata e realizzata allo scopo di postare il video, che infatti è in rete. Su questo primo dato è necessario notare come la relazione tra la realtà e la rappresentazione/documentazione si sia capovolto rispetto al Novecento. In epoche precedenti, la ripresa doveva documentare la realtà, che esisteva in sé, al di fuori dell’occhio che guarda. Oggi, invece, la realtà esiste perché l’occhio che guarda la determina. Nel caso specifico, che mi appare esemplare, se non fosse stato possibile fare il video, l’aggressione non sarebbe avvenuta: il senso è nel video e non nell’aggressione-derisione avvenuta nella realtà. È così che le risate che si sentono chiaramente diventano uguali a quelle registrate nelle candid camera d’antan. Nel totale stravolgimento di realtà e rappresentazione, il vero e il falso non sono più distinguibili e diventa innocente il colpevole, uno scherzo il reato.
La seconda ragione è che un genitore, invece che accettare in silenzio i provvedimenti disciplinari a carico dell’intera classe, ha presentato ricorso. Non interessa qui seguire la vicenda delle sospensioni agli alunni individuati come responsabili e la denuncia (doverosa) dell’insegnante. Quello che interessa è la collocazione del genitore al fianco del proprio figlio, contro la normale reazione dell’istituzione scuola. Questo mi sembra provare, indiscutibilmente, l’immaturità genitoriale che favorisce (se non determina) l’immaturità e il narcisismo filiale.
La prima postilla riguarda una notazione della DS dell’Itis “Viola Marchesini”, la quale, ovviamente stupefatta dall’accaduto, e lucidissima nell’individuare le responsabilità della classe, conclude (nel video linkato più su) dicendo che quella che dirige, e che frequentano tanti ragazzi «più adulti», è «un istituto d’eccellenza». Ecco, se non avesse manifestato preoccupazione nei confronti di una possibile cattiva fama, che potrebbe danneggiare l’Istituto, e avesse detto che la scuola che dirige, e che frequentano tanti ragazzi, è un istituto scolastico e basta, avrebbe manifestato estraneità nei confronti della deleteria idea dominante della necessaria concorrenza tra scuole, il cui successo si misura con il numero di iscritti e le somme di finanziamento. Il punto dolente su cui riflettere è dunque questa pervasiva urgenza attuale della “fama” e del “successo”, che misura il “merito” nel mondo reale, quello dei soldi, a cui il mondo fittizio della scuola oppone resistenza nella dimensione degli insegnanti, che pretendono, da morti di fame, di dare lezioni a quei figli della ricca-agiata borghesia che i soldi li sa fare. Il Ds, a norma di legge, è esattamente un manager, che non solo deve far quadrare i conti, ma deve aumentare i finanziamenti, e che guadagna in proporzione. Gli insegnanti sono gli operai, dunque è già tanto quello che guadagnano. Se poi sono donne, come in maggioranza sono, diventano la vittima perfetta da umiliare pubblicamente.
La seconda postilla deriva in gran parte dalla prima e riguarda la delibera di promozione con 9 in condotta dell’alunno che ha sparato. Non entro, anche in questo caso, nel merito della decisione, in quanto il Consiglio di classe ha preso in considerazione elementi e dati, ignoti all’esterno, di cui si occuperanno gli ispettori ministeriali. Quello che colpisce è la mancanza di solidarietà di colleghe e colleghi nei confronti di Maria Cristina Finatti, a cui non viene riconosciuto neanche lo status di vittima: è lei che è stata allontanata dalla classe e non gli aggressori. Sembrerebbe, dunque, di trovarci di fronte, ancora una volta, alla colpevolizzazione della vittima (se l’è cercata, se l’è meritata) atteggiamento costante nel momento in cui si ha a che fare con violenze contro le donne.
Il 9 in condotta a giugno cancella quanto avvenuto in ottobre: è come se nulla fosse accaduto, perché l’atteggiamento assolutorio di fronte alla violenza necessita della negazione della violenza. Il Consiglio di classe, che non ha avuto il coraggio di affermare che a scuola non si spara alle insegnanti, sembrerebbe abbia voluto «sopire, troncare» e «troncare, sopire» di manzoniana memoria. Spero che Maria Cristina Finatti non vada a finire a Rimini come fra Cristoforo.
La schiava degli schiavi
Se ripensiamo alle donne-vittime scopriamo in ogni evento delle costanti che si ripetono, ma forse quella dominante su tutte è che l’aggressione e il delitto si consumano nel momento in cui dovrebbe avvenire un confronto. In quel momento, il maschio, che non è in grado di usare strumenti razionali, oscura la sua umanità e si avventa contro la donna. Da questo punto di vista, mi pare che la donna-insegnante sia l’emblema della donna-vittima: la depositaria dei valori della cultura e della civiltà, aggredita dalla brutalità idiota.
Questa è la ragione per cui Elisabetta e Maria Cristina sono sorelle di Giulia e di Masha, che ho ricordato, e di tante senza nome, di cui non si conosce neanche la morte: tutte hanno incontrato il maschio incapace di usare ragione. E credo che la società contemporanea, in genere, agevoli e premi chi non usa ragione: modelli trionfanti presso i giovani sono quelli degli youtuber, degli influencer, di coloro che attraverso il demenziale riescono a (o sperano di) fare soldi facili; i genitori preferibilmente si appiattiscono sulla generazione dei figli, di cui sono i primi entusiasti ammiratori; la gamificazione dell’esistenza fa pensare di essere invincibili e si confondono i piani del reale e del virtuale. Del resto, credo assolutamente sterile il rimpianto di un buon tempo antico, poiché il passato è pieno di quelle nefandezze e brutalità di cui oggi dobbiamo liberarci. Dovremmo essere convinti, invece, che questo non è il migliore dei mondi possibili e che è possibile, invece, un mondo migliore, in cui non siano il successo e i soldi a stabilire il valore di una persona. Forse, attenuando la competitività presente in ogni aspetto della nostra vita attuale, potremmo attenuare la diffusa aggressività, e la frustrazione quando «glorie e ricchezze», il «fine» di tutti gli uomini – secondo Machiavelli –, non sono raggiunte.
Le donne, pur partecipando al sistema della competizione e pur adeguandosi alla mascolinizzazione nella gestione del potere, sono spesso vittime designate.
In un mondo di schiavi, sono le schiave degli schiavi. John Lennon lo cantava nel 1972: Woman is the nigger of the world. Sono passati cinquant’anni.
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Questo articolo conferma, con l’incongruo e dissonante miscuglio di fatti e concetti differenti e di portata differente che fa di esso un mero centone intellettuale o una infantile mozione degli affetti, quanto sia necessaria un’analisi meno frettolosa e cursoria delle condizioni concrete in cui si trovano oggi gli insegnanti del nostro paese. Tale analisi deve tener conto della stratificazione socio-economica di una categoria ad alto tasso di femminilizzazione (un dato, questo, che priva di qualsiasi fondamento le argomentazioni vittimistiche addotte in tale articolo), la quale comprende ai suoi estremi, per indicare due ‘tipi ideali’, la moglie del dirigente che con lo stipendio di insegnante si paga la colf e il sottoproletario meridionale che per acquisire quello stesso stipendio si adatta a vivere nelle situazioni più precarie (una dicotomia di cui non a caso, data l’ottica piccolo-borghese che lo caratterizza, non vi è traccia nell’articolo qui considerato). Da questo punto di vista, occorre poi sottolineare che i processi di proletarizzazione che hanno investito la categoria degli insegnanti, oltre ad essere, nel contesto del sistema economico-sociale capitalistico, oggettivi e irreversibili, colpiscono essenzialmente, dato il tasso di femminilizzazione esistente all’interno di tale categoria, la sua minoranza maschile (laddove un sintomo inequivocabile di tali processi è proprio la crescita della sindacalizzazione). Ciò significa, tra l’altro, che l’idea di un’emancipazione delle donne ‘ut talis’, che si realizzi indipendentemente dall’insieme delle classi lavoratrici, è altrettanto illusoria quanto fu, nel corso dei dibattiti dell’800, l’idea di un’emancipazione degli ebrei ‘ut tales’, come dimostrò a suo tempo Marx nella “Questione ebraica”.
Dopodiché, come ho già argomentato in mio precedente intervento, la questione che va posta al centro di una riflessione matura sui fatti di Senago e di Abbiategrasso (e lasciamo perdere, per piacere, i parallelismi del tutto infondati, in stile ‘radical-chic’, con fenomeni afghani o indiani) è il confronto approfondito e serrato fra la cultura della scuola, portatrice di una tradizione in cui al linguaggio proposizionale (cioè logico) è riconosciuto un posto centrale, e la cultura dei giovani, fortemente influenzata da un linguaggio non-proposizionale o moderatamente proposizionale. Ciò spiega, inoltre, un fenomeno che è dato rilevare già nella scuola e poi nella società, un fenomeno che ha robuste radici nella trama di rapporti che si viene a stabilire fra la struttura economica e la sovrastruttura ideologica, ossia la coesistenza, spesso nella stessa persona, di analfabetismo emozionale, culture non-proposizionali, pragmatismo positivistico e tendenze filobatiche con potenziali esiti aggressivi.
Nel mio ragionamento osservavo poi che, se il segno distintivo che assume tale coesistenza è quello della estraniazione contemporanea, occorre dedicare un’attenzione speciale alla ‘manutenzione’, per così dire, di quei circuiti simbolici in cui avvengono l’incontro e lo scontro, ma in cui è anche possibile produrre la sintesi dialettica fra immagini, emozioni, concetti e idee (in tal senso il cinema e il teatro possono svolgere una significativa funzione matetica), operando, a livello educativo e cognitivo, in modo da evitare che siffatti circuiti si inselvatiscano e si ostruiscano. Non per nulla, come Freud ha insegnato una volta per tutte, se l’energia connessa alle pulsioni fondamentali dell’individuo umano viene rimossa e cacciata via, anziché essere immessa in una struttura simbolica, essa è destinata a ritornare nel reale sotto forma allucinatoria (di questi ritorni abbiamo continui esempi sotto gli occhi nella vita quotidiana).
Occorre dunque impedire che si verifichi un radicale conflitto fra la cultura della scuola, fondata sulla formazione dello spirito critico e rivolta a creare le condizioni affinché gli studenti acquisiscano la capacità di esprimere il proprio mondo interiore con le difficoltà cognitive ed emotive che lo caratterizzano, e la cultura dei giovani, che identifica la vera realtà con la sfera del non-proposizionale e vede nella cultura proposizionale della scuola una finzione, quando non una coazione. Ecco perché, concludendo questa anticritica, ritengo importante sottolineare che, se c’è un compito etico-politico che spetta all’insegnante, è proprio quello di vigilare, utilizzando le metodologie più appropriate, sui circuiti della struttura simbolica, in modo che tali circuiti non siano compromessi dal degrado e dall’incuria. Per citare di nuovo Freud, “dove era l’Es deve subentrare l’Io”: una regola aurea valida tanto per la psicoanalisi quanto per la pedagogia.
In accordo con le sue affermazioni, mi permetto, però, di avanzare due dubbi.
1. Non credo che la scuola, come istituzione, sia in grado di porsi come lei scrive. Basti leggere i nomi dei Ministri all’istruzione succedutisi negli ultimi cinquant’anni o i finanziamenti dedicati alla scuola. Nè gli insegnanti, per selezione ( Galimberti vi ha scritto pagine illuminanti) e in quanto loro stessi uomini e donne di questa società, ossia loro stessi personalmente portatori di narcisismo e aspirazioni al facile successo e al denaro, li credo interessati e capaci di quanto lei scrive.
2. Forse, più che di sostituzione Es – Io, si tratterebbe di integrazione.
Caro Santambrogio, La ringrazio per l’attenzione e provo a risponderLe, pur sapendo che aggiungerò altri anelli alla catena dei ‘perché’. La scuola ha certamente bisogno di cospicue risorse materiali e di indirizzi seriamente rinnovatori, che fino ad oggi sono mancati, ma ha soprattutto bisogno di una ‘utopia concreta’ capace di parlare alle menti e ai cuori di chi, a vario titolo, vi opera: qualcosa che sia paragonabile al significato e alla portata che ebbe, un secolo fa, la riforma Gentile. Da questo punto di vista dobbiamo invece registrare il fatto che il modello epistemologico e teleologico che ha orientato le riforme scolastiche e, in particolare, la concezione, ad esse sottesa, del rapporto tra scuola ed economia di mercato, è rimasto, da Berlinguer a Bianchi, sostanzialmente lo stesso, mentre sono stati in qualche misura differenti i fini politico-sociali di tali riforme. La domanda strategica che occorre porsi è allora se il ‘dispositivo’ attuale, che determina il funzionamento della scuola, favorisca od ostacoli la relazione educativa tra i docenti, mediatori del curricolo esplicito e formale, e gli studenti, portatori di un curricolo implicito e informale; in altri termini se i saperi e i linguaggi formalizzati della nostra epoca trovino una mediazione flessibile ed efficace, pur preservando il rigore concettuale e la coerenza semantica che sono propri dello statuto metodologico delle discipline, nel lavoro didattico organizzato. Giova pertanto ribadire che, pur senza essere (e non lo è né lo può essere) un corpo chiuso, separato e adiàforo rispetto alle dinamiche della vita sociale, ciò che contraddistingue la scuola è pur sempre il suo carattere artificiale e ‘metaforico’, il suo (tendere a) ‘portare oltre’ rispetto ai codici del denaro, del sesso e del potere dominanti in quelle dinamiche: in altri termini, ciò che ‘contra-distingue’ la scuola e il più vasto campo dell’educazione in cui essa è inserita è il carattere radicalmente utopico dell’evento educativo, anche se il più delle volte tale carattere è velato e reso irriconoscibile dagli effetti feticistici di una progressiva naturalizzazione, di cui quelle dinamiche sono produttrici, e da una crescente colonizzazione dei mondi vitali, di cui quei codici sono generatori. Come indica l’immagine machiavelliana dell’arciere che, per colpire il bersaglio, deve mirare in alto e lontano, occorre allora prendere le mosse da un ripensamento della forma-scuola che sia capace di collocarla in una prospettiva storico-culturale più ampia e più profonda. Diversamente la scuola e chi, a vario titolo, vi opera, a cominciare dai dirigenti e dagli insegnanti per finire con i ragazzi e con i genitori, tenderà a imitare altri modelli – da quello della grande famiglia a quello della piccola azienda, da quello della comunità ecclesiale a quello del servizio sanitario -. La scuola deve invece restare se stessa: un’istituzione pubblica dove si insegna e dove si impara. Come è stato detto in modo suggestivamente poetico e insieme rigorosamente scientifico da Riccardo Massa, la scuola è lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo. E’ questa, in definitiva, la ‘conditio sine qua non’ affinché “dove era l’Es subentri l’Io”.