Le storie ci donano piacere e ci istruiscono. Simulano dei mondi che ci consentono di vivere meglio in questo che abbiamo. Ci aiutano a riunirci in comunità e a definirci come culture. Senza dubbio hanno rappresentato un grande vantaggio per la nostra specie.
Ma stanno forse diventando una debolezza? Si può delineare un’analogia fra la nostra fame di storie e la nostra fame di cibo. La tendenza ad alimentarsi in eccesso è stata utile ai nostri antenati quando le scarsità di cibo erano qualcosa di assolutamente prevedibile nella vita. Ma oggi, per noi moderni sedentari che stiamo affogando nei grassi e negli zuccheri, la sovralimentazione significa mettersi all’ingrasso e morire prima del tempo. Similmente, potrebbe darsi che una vorace avidità di storie fosse salutare per i nostri antenati ma che abbia invece qualche conseguenza dannosa in un mondo dove libri, lettori, MP3, televisori e smartphone rendono le storie onnipresenti – e dove abbiamo, nei romanzi rosa e in reality show televisivi come Jersey Shore qualcosa che è l’equivalente narrativo dei bomboloni fritti alla crema. Penso che lo studioso di letteratura Brian Boyd abbia ragione a domandarsi se il sovraconsumo, in un mondo inondato di storie spazzatura, possa causare una sorta di “epidemia di diabete mentale”.
J. Gottshall, The storytelling animal (L’istinto di narrare, 2014, Boringhieri, pag. 210)
Il sonno della ragione genera spettacolo
Quale media education è possibile, allo stadio evolutivo della società italiana dello spettacolo che abbiamo di fronte ogni giorno, esaltato di recente dalla celebrazione del lutto a reti unificate per il più grande monopolista della comunicazione che il nostro Paese abbia mai conosciuto?
Da cittadino e insegnante appassionato dello studio dei mass media, impegnato da anni nella riflessione teorica e nell’esperienza pratica dell’alfabetizzazione a/ con questi linguaggi e strumenti, quest’interrogativo mi si è posto con urgenza. Perché mai come in questi giorni, assistendo al triste spettacolo di conformismo offerto da giornalisti, intellettuali e politici, ho sentito vacillare certezze civili e didattiche che consideravo incrollabili.
Parto da alcune evidenze.
L’interattività è una proprietà della tecnologia, mentre la partecipazione è una proprietà della cultura. La cultura partecipativa sta emergendo man mano che la cultura reagisce all’esplosione delle nuove tecnologie mediali che rendono possibile, per il consumatore medio, attività come l’archiviare, il commentare, l’appropriarsi e il rimettere in circolo contenuti mediali in nuovi e potenti modi. Concentrare l’attenzione sull’accesso alle nuove tecnologie non ci porterà lontano se non pensiamo anche a promuovere le competenze e le conoscenze culturali necessarie per utilizzare questi strumenti al fine di raggiungere i nostri scopi.
H. Jenkins, Culture partecipative e competenze digitali, 2010 Guerini, pag. 69
Gli “scopi” di Jenkins coincidono con una crescita nella partecipazione democratica dei cittadini alla vita della comunità. Si può chiedere, invece, quali siano gli scopi di chi, attraverso una bella storia a reti unificate, trasforma la morte di un politico di parte in lutto della Nazione?
Quale media education è (ancora) possibile?
Lo scempio di logica e verità attuato attraverso strumenti comunicativi vecchi e nuovi non fa che confermare l’imperativo morale di studiare i media a scuola. Tuttavia, le giornate di lutto nazionale impongono una nuova riflessione sull’impostazione di questo studio, e sulle tendenze alla moda nel processo di tecnologizzazione e mediatizzazione delle scuole.
Esiste infatti il concreto rischio di adattarsi al ruolo di piccoli e modesti giocatori, di ritagliarsi uno spazietto in cui travestire con magica polvere di modernità i contenuti delle discipline, adeguandosi supinamente all’odierna spietata presentificazione e spettacolarizzazione. In questo senso, la rinuncia alla sfida etica e culturale sembra già scritta nella denominazione di quest’indirizzo di pratica mediaeducativa: “terzi spazi”, “atelier digitali”. Ed è attestata da tantissimi risultati di sperimentazioni e produzioni scolastiche: a partire dagli ormai immancabili video promozionali d’istituto, in cui tutto si può trovare tranne la realtà viva e autentica della vita delle comunità scolastiche.
Forse è tempo di difendere anche in quest’ambito la tradizione. In particolare, quella di una media education difensiva, che si assuma la responsabilità e il ruolo di esprimere giudizi critici, estetici etici e politici, sui contenuti di ciò che si trasmette e si vede. Una disciplina in cui i media e i loro testi siano prima di tutto oggetto di studio, non episodico e sempre storicizzato. Non siano, invece, orientati alla produzione di “narrazioni” alla moda, strumenti veicolari ai quali si ricorre per sembrare attuali. Ѐ invece proprio questo il risultato cui mirano le riforme tecno-scolastiche di questi tempi: sottrarre centralità ai contenuti e alle idee, per attribuirla alla forma e allo strumento. In altri termini, passare da una “vecchia” pratica cognitiva verticale, a proposito della quale il termine “colta” diventa quasi denigratorio, a una “nuova” orizzontale, nella quale l’utilizzo di strumenti popolari viene sbrigativamente letto come indizio di inclusione democratica, partecipazione e vicinanza alle giovani generazioni. La massiccia propaganda legata agli investimenti del PNRR, per esempio, ha nelle immagini delle rivoluzionarie “aule immersive” la traduzione visiva di questa finalità: il digitale come ambiente colorato di effetti speciali, spacciato per naturale, cui si attribuiscono magici poteri di coinvolgimento e attrattiva; con i quali, naturalmente, la semplice presenza o la voce di chi insegna non possono minimamente competere.
Riportare i media allo status di “contenuto” di studio scolastico, lungi dall’essere un passo indietro, è in questo tempo di postverità e apparenza una battaglia decisiva. Lo diventa perfino la logica del divieto, di una rigida moratoria sull’uso delle tecnologie personali nelle aule, per mostrare che un altro modo di esistere e dialogare è possibile, e per stimolare la consapevolezza attraverso l’opposizione, anziché attraverso le lusinghe di un’attualizzazione asservita ai peggiori stereotipi della peggiore industria culturale.
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Romano Luperini
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Oggi la tivvù rende migliori i peggiori e peggiori i migliori: essa è da fuggire (e da rifuggire) come la lebbra mentale e morale, che una società malata, criminogena e patogena fin nelle sue intime fibre, secerne, produce e riproduce su scala sempre più vasta. Infatti, anche le trasmissioni ‘migliori’ (quelle affidate alla falsa sinistra che imperversa all’insegna del finto pluralismo e del vero cinismo, mercé il generoso contributo dello Stato borghese, in alcune reti ben note) servono colpevolmente ad avallare e a legittimare la massa infetta e contagiosa delle trasmissioni peggiori. Per quanto mi riguarda, non ho il minimo dubbio sul fatto che per un uomo dotato di senno trascorrere una serata guardando la tivvù è sinònimo di bancarotta intellettuale e morale. Apprezzo quello statista tedesco (il socialdemocratico Schmidt, se non ricordo male), che diversi anni or sono invitò i suoi concittadini ad astenersi almeno un giorno (se non erro, il venerdì) dal guardare la tivvù, anche se sono convinto che, allo stadio attuale cui è pervenuta la ‘società dello spettacolo’, quella proposta, per quanto giusta, risulta oggi timida e insufficiente. Solo un radicale luddismo antitelevisivo potrebbe oggi preservare il nostro popolo e i nostri giovani da guasti morali irreparabili, da degenerazioni antropologiche irreversibili, da un istupidimento psichico truce, isterico e compulsivo: caratteri i quali, sommandosi gli uni agli altri, non solo alimentano la SIG (sindrome da imbecillità generalizzata), ma contribuiscono a fare del popolo italiano “un popolo triste e depresso”, come ebbe ad osservare un quotidiano europeo con quell’ottica estraniante e non pregiudicata che rende lo sguardo degli stranieri così lucido e inconfutabile.