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diretto da Romano Luperini

Viaggio al termine della notte è del 1932. Di poco successivo è Guerra, rimasto a lungo inedito, trovato e pubblicato solo recentemente. Già in Viaggio al termine della notte la guerra è mostrata nella sua insensatezza, nella sua assoluta assurdità, sin dalle prime pagine: i soldati vivono continuamente «sotto la minaccia, nel disgusto di vedersi torturati, ingannati sino al sangue da un’orda di pazzi incarogniti, diventati tutto ad un tratto incapaci di far altro che uccidere e farsi sbudellare senza sapere perché». Siano francesi o tedeschi, non possono trovare nella guerra nessuna ragione di riscatto, nessuna giustificazione. Anzi «In quel mestiere d’essere ucciso, non bisogna fare i difficili, bisogna fare come se la vita continuasse; è questo il più duro, questa menzogna». Come il protagonista di Guerra, rimasto ferito al cranio e a un orecchio, oltre che a un braccio, la guerra “entra nella testa” e determina da ora in poi il modo di pensare e di parlare.

Già qui tragico e comico convivono. Nel mondo capovolto, nella menzogna in cui viviamo, la verità non può che essere pronunciata con il ghigno grottesco di chi la guerra l’ha capita davvero perché “gli è entrata nella testa”. Le prime cinquanta-sessanta pagine di Guerra (Adelphi,2023) sono fra le più orribilmente belle che Céline abbia scritto. Il protagonista, che ha passato un giorno e una notte nella incoscienza della ferita, lentamente ritorna in sé, si ritrova in mezzo a montagne di cadaveri, si tira faticosamente in piedi e cerca di tornare da dove era venuto quando era scattato l’attacco contro le trincee nemiche. Nonostante tutto, scopre di avere fame e sete. Il corpo è l’unica entità cui può ancora prestare fede. Beve, senza volerlo, sangue proprio e altrui mescolati, cerca fra i morti chi abbia con sé qualcosa da mangiare. Si sforza di orizzontarsi e di camminare ma la testa, a causa dell’orecchio ridotto in poltiglia, è un mugliare di rumori confusi, la stanchezza, la debolezza, la febbre gli danno allucinazioni, la campagna brulla e deserta è cosparsa solo di uomini e cavalli morti, e nell’aria stagna dovunque il fetore dei corpi. Finalmente incontra un soldato inglese a cavallo che lo porta in un ospedale, dove si fa un amico ben presto fucilato per autolesionismo, e fra le infermiere incontra L’Espinasse che aiuta i malati senza nascondere la vocazione erotica che la porta ad assisterli e in cui, come dice Carrère (vedi “La lettura”, 18 giugno 2023), Céline ritrova la sua propensione per la povera gente (o piuttosto, direi io, per l’erotismo, anche in condizioni estreme) e la propria inclinazione a stare dalla parte dei soldati semplici e delle infermiere contro gli ufficiali e i medici irrigiditi dal grado e dal conformismo patriottico. Alla fine il protagonista riceve una medaglia al valore (accolta col solito ghigno sarcastico) e può partire per l’Inghilterra. Non mancano nemmeno qui aspetti razzisti (tutti i personaggi, osserva Carrère, hanno un nome proprio tranne l’arabo), ma indubbiamente meno pronunciati che altrove.

E proprio qui sta il punto invece ignorato da Gibault (uno dei maggiori esperti francesi di Céline) nella prefazione di Guerra. Quello dell’antisemitismo e del razzismo, e poi della professione apertamente fascista di Céline, che finita la guerra dovette scontare più di un anno di prigione in Danimarca per il suo collaborazionismo con il governo di Vichy. Da un lato Céline non è certo un “patriota” (per usare un termine oggi molto in voga) e anzi non perde occasione per prendersi beffe dell’esercito e dell’idea di nazione, dall’altro le sue simpatie per il nazismo e il razzismo antisemita sono esplicite e si manifestano apertamente in numerose occasioni sino a Bagatelle per un massacro. Detto in breve, il problema è questo: come può un autore antisemita e fascista scrivere dei capolavori che sanno esprimere come pochi l’orrore della guerra e che dunque pronunciano una verità opposta alla ideologia professata?

Diceva Montale, citando Gravina, che la poesia è un sogno fatto in presenza della ragione. Il moderno pensiero postfreudiano e psicoanalitico parla di convivenza nel linguaggio artistico di logica simmetrica e antisimmetrica (Matte Blanco) e insomma di ragione e inconscio. La grande letteratura non è mai solo ideologia o solo inconscio, e vive proprio di questa compresenza e contraddizione. Céline in Viaggio al termine della notte o in Guerra non fa ideologia o propaganda, ma lascia aperta la porta all’inconscio. Nel mondo popolare da lui amato negli anni della professione medica aveva incontrato pulsioni antimilitaristiche e miti ancestrali, imprecazioni e bestemmie; nella propria vita stessa e nella propria infanzia ritrovava paure remote, atteggiamenti ribelli e anticonformistici, sogni e angosce di un mondo non ancora o non del tutto sottoposto alla logica asimmetrica della civiltà occidentale.

L’arte, insomma, è contraddizione. Senza ideologia, senza una struttura razionale non ha forza né consistenza, e neppure (a veder bene) possibilità di comunicazione, ma senza una apertura all’inconscio resta estranea al mondo profondo dei simboli e dei miti, delle paure e delle angosce, chiusa nei limiti della propaganda politica o religiosa. Céline può essere, insieme, un fascista antisemita e un grande artista che ci fa avvertire l’orrore della guerra più di tanti scrittori pacifisti. Il fuoco di Barbusse o Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque sono molto più espliciti, molto più pietosi e lacrimevoli, ma molto meno efficaci. L’arte è maledetta, ambigua e indiretta, spesso equivoca, eppure va più in profondità.

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