Made in Italy. Brevi note sulla rimozione della pandemia
Oltre a quello del comunismo, che induceva tantissimi giovani a iscriversi ai licei, ignari delle gioie di turismo e agricoltura, un altro spettro si è aggirato nelle scuole italiane durante gli ultimi anni: la pandemia di Covid. I timori nati dall’impossibilità di prevederne gli sviluppi hanno generato un fiume di retorica e le proposte più disparate per riformare il sistema dell’istruzione. Tuttavia, questo spettro aveva quanto meno avuto il merito di sollevare questioni organizzative, didattiche e culturali di grande ed effettivo rilievo.
Ѐ passato poco tempo, però oggi tutti fischiettano e fanno finta di niente.
Si chiama “rimozione” e Freud ne ha parlato esaminando il funzionamento della nostra psiche. Ha a che fare con la paura di non saper gestire l’ansia e il dolore. Con il ritrarsi di fronte al pericolo reale o immaginato. Con la costruzione di alibi e difese destinate a produrre altro dolore e altri pericoli. Prenderne atto significa capire qualcosa di importante, ed è l’esercizio che proverò a fare in quest’articolo: perché la pandemia è stata rimossa così velocemente, anche da molte e molti di noi, dall’orizzonte del dibattito sulla scuola?
La medicalizzazione come scorciatoia culturale
Se per ogni parola pietosa pronunciata nei confronti degli adolescenti in pandemia (e oltre, fino a oggi) fosse messo a diposizione del fondo d’istituto un centesimo di euro, le scuole potrebbero permettersi lussi mai immaginati. Invece, nonostante le lamentazioni, i fondi delle scuole sono sempre più miserabili, e il tema dei dolori dei giovani si è sempre più spostato sul versante di una sorta di medicalizzazione dello studente, che ne mette ovviamente al centro la dimensione psicologica, ma pretende il primato anche sulla didattica e sulla formazione culturale.
Mi scuso in anticipo con chi starà pensando “Oh no! Adesso arriva il neoliberismo capitalista!”, però purtroppo è proprio così: in perfetta coerenza con le logiche di mercato che stanno da tempo determinando le politiche scolastiche, le difficoltà di persone perfettamente sane ma clamorosamente diseguali fra loro che popolano le nostre classi (per la cronaca, la grande maggioranza) diventano un problema medico e individuale, non collettivo e etico-politico. Non si affrontano quindi prioritariamente mettendo in discussione le ragioni strutturali, organizzative e sociali che determinano la disuguaglianza, e il suo portato di sofferenza; al contrario, si immaginano giocose rivoluzioni personalizzate, nei rapporti sociali, nelle dinamiche di gruppo, nei metodi di apprendimento, rispetto alla quale perfino Quintiliano sembra un socialista ante litteram quando scrive sul rapporto fra l’individuo, il gruppo i cui fa parte, il docente che li guida. Fioriscono, sul mercato della formazione (a proposito di neoliberismo…), corsi sulla dimensione attoriale e teatrale dell’insegnamento, app nate già vecchie utili a trasformare la fatica dello studio in divertimento, moltiplicazione degli schermi, dell’elettronica scolastica, di tutto ciò che sa di virtuale e di multiverso (pani e pesci del percorso di formazione), intesi come magici moltiplicatori di attenzione: un vero e proprio processo di trasformazione ludica, di cui ha scritto benissimo Emanuele Zinato in un suo recente articolo.
Assunta come verità indiscutibile l’idea che il giovane soffra e che la scuola non debba rendere ancora più miserabile la sua condizione concentrandosi sul sapere, compito di chi pensa la scuola e di chi la fa deve essere curarlo nel modo meno invasivo possibile, attraverso un generico saper fare. Così sono state rapidamente accantonate tutte le domande serissime che l’insegnamento a distanza e in mascherina aveva (ripro)posto: sul ruolo positivo delle tecnologie nel percorso di apprendimento e sui loro limiti, sulla complessità della didattica frontale e di quella laboratoriale, sul concreto pericolo che la cosiddetta centralità dello studente si risolva in un sostanziale impoverimento del patrimonio culturale del singolo e dell’istituzione scolastica nel suo insieme, sulla presunta e debolmente argomentata contrapposizione fra “conoscenze” e “competenze”.
Temi che apparivano vitali quand’eravamo tutti malati, ma non lo sono più da quando siamo tornati nel mondo della sana normalità, quello dove un giorno si propongono sanzioni severissime per chi dice qualcosa in inglese e il giorno dopo il Presidente donna underdog lancia l’idea del liceo del “made in Italy”.
La soave e triste musica dei pollai
Con la stessa naturalezza, siamo tornati sull’aia.
C’erano una volta le classi pollaio, le discussioni sulla didattica con gruppi piccoli (o almeno più piccoli di quelli odierni), l’idea di ampliare l’organico delle scuole permettendo l’assunzione straordinaria di personale (perfino in sostituzione dei pensionamenti!): nei diversi settori (dirigenza, docenti, collaboratori, amministrazione), simili interventi straordinari avrebbero permesso di fare fronte al sovraccarico di lavoro di cui il Covid aveva disperatamente messo a nudo la tragicità. Qualche amante delle statistiche aveva notato, en passant, che l’impegno messo in atto aveva riportato gli organici al livello del 2008, prima che la finanziaria Gelmini-Tremonti-Brunetta decidesse la più grande campagna di licenziamenti di dipendenti pubblici nella storia della Repubblica italiana.
Oggi che siamo “fuori dalla pandemia” tutto questo non ha ragion d’essere, perché di organici aggiuntivi non c’è più nessun bisogno.
Dunque la difficoltà di chi insegna a una classe di 30 persone non si affronta prima di tutto riducendola a 20, perché questo sarebbe una specie di Reddito di Cittadinanza scolastico, a fronte del quale il docente potrebbe oziare nella solita lezione frontale mentre i giovani stracarichi di compiti lavorano al posto suo. Ma 30 giovani non sono invece nulla se chi insegna sa valorizzare la postura, il tono di voce e l’attorialità, ChatGPT, Google Suite eccetera eccetera (corsi in offerta al black Friday della scuola, 5 CFU riconosciuti, pagabili con carta docente).
Del resto, l’esercizio di quest’opzione è di una chiarezza cristallina. La concreta realtà del decremento demografico poteva infatti essere un’ottima opportunità per mettere in pratica le affermazioni di principio del recente passato sulle classi pollaio: meno studenti e uguale numero di docenti avrebbe significato meno studenti per classe. Invece meno studenti e meno docenti significherà uguale numero di studenti per classe. La stessa logica indirizzerà le politiche nell’ambito amministrativo: al dramma di scuole in carenza di collaboratori, senza direzione amministrativa o con una reggenza per uno o due giorni alla settimana, si sarebbe potuto rispondere con un serio piano di assunzioni (stesso numero di istituzioni scolastiche e meno personale rispetto ai posti disponibili e alle esigenze di sicurezza uguale nuove assunzioni); si risponderà invece con un piano di ridimensionamento, accorpando gli istituti: meno istituti uguale meno posti disponibili uguale meno assunzioni.
Al contrario di quanto afferma il luogo comune, infatti, in certi casi la Matematica è un’opinione e fa apparire “naturale” la precisa scelta politica di impoverire la scuola. E presto le opinioni potrebbero essere venti, e venti le Matematiche: una per ciascuna scuola, differente da Regione a Regione.
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È giusto impedirlo toglierei il ” cercare” ma come ? Tutto giusto quello che scrivi, tutto condivisibile ho dei dubbi sul come ! il COVID ha lasciato anche questo, un impoverimento umano oltre che culturale purtroppo, e qualcuno di questo ne ha fatto una campagna politica , però devo essere obbiettiva purtroppo l’impoverimento è iniziato un po’ prima e noi l’abbiamo permesso. Non so se è servito o inerente questo mio commento ma questo è il mio pensiero di persona che lavora nella scuola e di mamma di un ragazzo di 20 anni.