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diretto da Romano Luperini

Conquistare la narrazione: fenomenologia di un festival sulla letteratura working class

Dal 31 marzo al 2 aprile, presso il presidio ex GKN di Campi Bisenzio, si è tenuto il primo festival della letteratura working class, con la direzione artistica di Alberto Prunetti. Organizzato dal collettivo di Fabbrica, dalla APS Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo, dalla casa editrice Alegre, da Arci Firenze, il festival è stato il primo in Italia dedicato alla letteratura working class, e in Europa è stato preceduto solo da un’esperienza decisamente più piccola tenuta a Bristol nel 2021. In tre giorni si sono succedutə nei vari panel D. Hunter, Cash Carraway, Claudia Durastanti, Francesca Coin, Simona Baldanzi, Sarah Gainsforth, Anthony Cartwright, Cynthia Cruz, Davide Di Ciaula, Matteo Rusconi e moltə altrə, ci sono state performance e brani teatrali come quelli di Wu Ming 1 o del collettivo Kepler 452, proiezioni di film e uno spazio prole per bambine/i con laboratori e attività per tutta la durata del festival. Ma al di là del programma indubbiamente molto ricco (chi volesse, può consultarlo qui), il festival si è rivelato un’esperienza unica nel suo genere, sia per partecipazione sia per atmosfera.

Cose che succedono

«Sta succedendo qualcosa».

Questo ci dicevamo continuamente durante il Festival, mentre ci incrociavamo presso il presidio ex GKN, durante gli incontri fugaci con altri membri dello staff di organizzazione, con operaiə, relatorə, avventorə, ce lo ripetevamo durante i panel, alla mensa, al bar, all’accoglienza, nello spazio prole, sul fazzoletto di erba tagliata di fresco dove le persone prendevano aria e sole.

Sta succedendo qualcosa di inaudito.

Circa tremila partecipanti in tre giorni in cui il presidio è stato vissuto, animato, abitato da moltissime persone che non avevano mai messo piede negli spazi dell’ex-GKN, da tanti mondi diversi che abbiamo visto incontrarsi: il mondo dell’Università e della ricerca, tanta scuola e tantə docenti, liberə professionistə, operatorə sociali, lavoratorə in appalto in mille settori, in particolare bibliotecarə, molti lavoratorə delle librerie e delle librerie indipendenti.

Ha scritto Francesca Coin a festival appena concluso sul suo profilo social: 

«Io non so che strana alchimia si sia sprigionata in un evento come quello appena passato, so che niente di ciò che ho conosciuto di recente è riuscito a dimostrare tanta lucidità sul futuro e sul presente e deve essere questa la ragione per cui ce ne abbeveriamo tutt* come se fosse l’unica fonte di vita in un mondo che corre con grande velocità verso la guerra e il collasso economico e climatico».

È stato così: un evento in cui ci si abbeverava di ogni riflessione, di ogni momento, in cui si aveva la sensazione che le parole pronunciate corressero su una ragnatela di terminazioni nervose che collegavano tutte e tutti, che risuonassero chiare in chi le ascoltava come se ci fossimo sintonizzatə su una medesima inaudita frequenza. E’ stata un’esperienza rara e condivisa.

Quali sono le ragioni che hanno prodotto questa alchimia?

Le parole e la fabbrica, o del luogo.

Un primo elemento che sicuramente ha prodotto una potente reazione chimica è stato l’incontro tra l’evento e il luogo. Il primo festival della letteratura working class in Italia, infatti, non si è svolto in un ‘setting’ qualsiasi, ma presso il presidio ex GKN. Qui dal 9 luglio 2021, giorno in cui la vecchia proprietà, il fondo finanziario Melrose, ha cercato di chiudere la fabbrica e licenziare con un’email 422 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori sono in assemblea permanente. Da allora portano avanti una lotta che ha attraversato molte fasi e si articola adesso su piani diversi, da quello della vertenza sindacale, alla convergenza con i movimenti ambientalisti e transfemministi, al lavoro culturale fatto dentro e fuori la fabbrica fino alla progettualità concreta per una reindustrializzazione dal basso pensata insieme al mondo della ricerca.

Da sei mesi la nuova proprietà, che in un anno e mezzo non è stata in grado di avanzare nessun piano per la ripartenza o la riconversione dello stabilimento né di portare investitori per rilevare quello che è un vero patrimonio industriale, nel tentativo evidente di piegare la lotta, ha sferrato un attacco durissimo alle lavoratrici e ai lavoratori ex GKN smettendo di corrispondere loro il salario e sospendendo i diritti del lavoro e sindacali. Nonostante più di 200 decreti ingiuntivi e due sentenze che riconoscono i diritti tuttora in essere deə dipendenti, gli stipendi, i cedolini, le CU continuano a non arrivare, e le lavoratrici e i lavoratori si trovano adesso in una situazione difficilissima, drammatica. Di fatto, attraverso la violenza della conquista per fame, la nuova proprietà cerca di spingere le operaie e gli operai alle dimissioni volontarie che permetterebbero almeno l’accesso alla NASPI. È dunque la fase più drammatica di una lotta che si snoda lungo quasi due anni.

In questo luogo, in questa situazione si è tenuto il festival. In questo che è un luogo e non un ‘setting’ : nessun allestimento, nessuno spazio risultava parte di una scenografia. La vicinanza della fabbrica, il silenzio del suo arresto improvviso, il processo innescato dalla lotta, la condizione di assedio in cui si trovano le lavoratrici e i lavoratori: tutti questi fattori hanno giocato un ruolo, sono divenuti attori dell’evento e hanno guidato il festival, lo hanno con gentilezza spinto a registrarsi, a sintonizzarsi da subito su alcune caratteristiche. Anzitutto la contiguità con la fabbrica ha richiesto che fossero pronunciate parole adeguate al luogo, alla situazione, alla lotta, e quindi parole il più possibile autentiche. Al tempo stesso, assistere a ogni panel, a ogni dibattito, performance o spettacolo teatrale ha condotto ə partecipanti verso una comprensione condivisa delle istanze che in quello spazio si portano avanti.

Così parlare di demonizzazione della working class, dei suoi traumi, di donne, razza, identità di genere e working class, parlare di conquistare la narrazione non è stato mai esercizio speculativo, ma costruzione di un discorso collettivo che trovava negli spazi del presidio il suo specchio e che in ogni attimo era chiamato in quello specchio a trovare il suo senso.

Parole strappate alla macchina, o del tempo.

Chi scrive ha collaborato all’organizzazione del festival come membro della APS SOMS, la Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo, convenzionata con Arci, Mag e Fuorimercato e nata da alcuni mesi in collegamento con la lotta e con la vertenza. La SOMS è in primo luogo un CRAL aziendale e un’associazione attraverso la quale è possibile esercitare attività culturali e di mutualismo. Essa da un lato mette a frutto le possibilità sancite per gli spazi aziendali dall’articolo 11 dello Statuto dei lavoratori (la legge 300 del 1970), dall’altro ha messo e continua a mettere in campo azioni concrete di sostegno fra il territorio e le lavoratrici e i lavoratori attraverso forme di microcredito e il recupero delle pratiche di mutualismo nate a partire dall’’800. Infine, la SOMS sostiene attivamente il progetto di reindustrializzazione dal basso per il recupero sostenibile della fabbrica. A curare l’organizzazione del festival dal lato del Collettivo, delle lavoratrici e dei lavoratori, c’è stato invece Matteo Ciolli, un operaio che dal 9 luglio 2021, dal momento della chiusura, ha iniziato a occuparsi della “convergenza culturale”, cioè dell’organizzazione di corsi, eventi culturali di incontro tra fabbrica e territorio.

Matteo è un lettore forte e un appassionato di letteratura, e questa passione, racconta lui stesso, è nata in fabbrica, nei tempi morti della macchina, nei dieci minuti di pausa ogni 50 di lavoro conquistati con la lotta per l’ergonomia e la tutela della salute portata avanti dalla RSU e dal Collettivo di Fabbrica negli anni precedenti la chiusura. I tempi morti della macchina, della catena, della produzione, diventano così tempo vivo della conoscenza, della cura di sé, tempo di crescita. In questi tempi strappati alla linea, Matteo inizia con letture semplici, e poi passa ai classici, alla letteratura russa per esempio, e arriva al 9 luglio 2021, al momento in cui diviene elemento attivo dell’ambito della convergenza culturale, con un bagaglio ricco e una gran voglia di occuparsi di cultura.

Tra le molte iniziative del festival, fin da subito il direttore artistico Alberto Prunetti e tutto il gruppo che si è occupato dell’organizzazione ha voluto che ci fosse un reading tratto da Alla linea, il romanzo di Joseph Ponthus che racconta in versi l’esperienza dell’autore come operaio interinale nelle fabbriche del settore agroalimentare, una fabbrica di gamberetti e un mattatoio. Ponthus è recentemente scomparso, a soli 43 anni, e la sua opera, il suo racconto duro, mai estetizzante, di una bellezza che non conosce sconti, rimane imprescindibile per chi si voglia avvicinare alla letteratura working class.

All’inizio l’idea del gruppo organizzativo era di prestare ai versi di Ponthus una voce esperta, la voce e l’espressione di un attore noto. Poi è stata accolta la proposta di far leggere Alla linea direttamente da chi quella linea l’ha conosciuta, anche se nel settore metalmeccanico e non in quello agroalimentare: le operaie e gli operai ex GKN. E così sabato sera Ponthus è andato in scena e ha camminato di fronte a un pubblico di circa settecento persone con le voci di Massimo ‘Berva’ Cortini, Marco Gori, Tiziana De Biasio, Michele Pannone con la collaborazione dell’attore fiorentino Antonio Branchi.

È stata un’esperienza di lettura sentita e ne è venuto fuori un lavoro semplice, ma efficace (già sono arrivate le prime richieste per replicarlo fuori dagli spazi del presidio ex GKN), anche se preparato in poco tempo. E se il tempo che si è avuto a disposizione per provare è stato poco, lo si deve principalmente ai tempi della vertenza, che sono spesso dettati dalla controparte, dagli attacchi della nuova proprietà. Così, per il 25 marzo, a ridosso del festival, per rompere l’assedio del sequestro degli stipendi e sostenere il nuovo piano di reindustrializzazione proposto dal basso, è stato indetto un importante corteo nazionale. Un corteo che ha visto la partecipazione di circa quindicimila persone e che è stato lanciato poco più di due settimane prima. Se si devono portare in piazza, come è stato, così tante persone con meno di 20 giorni per pubblicizzare e diffondere l’iniziativa, il tempo per la lettura, per la regia, per le prove non c’è più. Il tempo, la sua gestione, lo sappiamo, è troppo spesso un lusso cui la working class non accede.

Ponthus ha scritto Alla linea, lo racconta lui stesso, un verso alla volta, un verso per ogni turno di lavoro.

La narrazione della working class si snoda come lunga ricerca, come lunga conquista non del tempo perduto, ma del tempo sottratto, del tempo negato: il tempo della scrittura di Ponthus strappato alla linea, il tempo della lettura di Matteo strappato alla macchina, il tempo della preparazione del reading strappato ai tempi che la controparte cerca di imporre alla vertenza, sottratto dagli operai al tempo dell’assedio, al non-tempo senza stipendi, senza diritti che si trovano da mesi a vivere.

E così il tempo del festival, tutto il tempo del festival, in linea con questi tempi, è stato un tempo conquistato, mai scontato, mai dato per acquisito, che ha avuto bisogno in ogni momento, a ogni iniziativa, di essere riaffermato e rivendicato.

Se quindi il luogo ha costituito lo specchio, la prova del fuoco della tenuta dei panel, delle iniziative, di ogni parola pronunciata, la particolare consistenza dei tempi che sono venuti a convergere nelle iniziative, la natura speciale del tempo che la working class è chiamata a conquistarsi palmo a palmo, ha scandito il ritmo di tutto il festival, gli ha conferito quella urgenza, quella necessità, quella epifania di vitalità che ha animato in crescendo le giornate, fino a una domenica spessa di commozione, dall’ultimo panel, in cui le parole di Simona Baldanzi, Alessandro Portelli, Alberto Prunetti, Giulio Calella, Francesca Coin hanno preparato il terreno all’intervento conclusivo del Collettivo di Fabbrica e poi ai brani dello spettacolo teatrale Il capitale, un libro che non abbiamo ancora letto, messo in scena da Kepler 452, in cui quattro lavoratorə ex GKN, Tiziana De Biasio, Francesco Iorio, Felice Ieraci  e Dario Salvetti, raccontano le loro storie e la storia della fabbrica sulla scena.

Dice Ponthus in Alla linea

Il tempo perduto

Caro Marcel ho trovato quello di cui andavi alla ricerca

Vieni in fabbrica, te lo mostro subito

Il tempo perduto

Non avrai più bisogno di farla tanto lunga.

Nei tre giorni del festival, abbandonato al suo destino il tempo perduto, si è celebrato il tempo conquistato, il tempo della presa di parola e della costruzione autonoma della propria narrazione.

Uscire dalla frammentazione o del modo

Quando abbiamo pensato all’organizzazione del festival, ci siamo chieste/i come organizzare i panel, gli spettacoli e le performance, i dibattiti di un programma molto denso e ricco. L’ipotesi di tenere alcuni eventi in contemporaneità, in due spazi separati, si è appena affacciata nelle nostre discussioni, ed è stata subito accantonata senza appello. La ragione principale, quella maggiormente evidente, è stata la difficoltà logistica di allestire più spazi in contemporanea nei luoghi del cral aziendale. Con la sola eccezione dello ‘spazio prole’, in cui si è svolto un festival parallelo con attività specificamente dedicate a bambine e bambini, ə convenutə sarebbero statə chiamatə a non scegliere a cosa assistere ma semplicemente a partecipare. In realtà dietro quella scelta si celava un atto politico di cui non eravamo pienamente consapevoli.

Nel primo panel seguito alla presentazione del festival, La working class è queer, Filo Sottile, scrittrice e attivista, ha contestato il termine ‘intersezione’: questa parola, ha notato, parla comunque di frammentazione delle istanze e delle lotte che vengono chiamate a intersecarsi come fossero segmenti. La working class deve invece uscire dalla segmentazione e trovare una prospettiva unitaria verso cui convergere.

Fragmentation è stata anche una delle parole-chiave nel panel di Cynthia Cruz: la colpevolizzazione delle persone appartenenti alla working class, la spinta verso la vergogna per la propria condizione, l’essere inchiodatə a un trauma di classe che non si è in grado di mettere a fuoco e quindi tantomeno di superare, sono condizioni che agiscono in un contesto di frammentazione, di separazione, in cui ognunə vive come problema individuale un fenomeno che in realtà è sempre più ampio e diffuso. Trovare le parole per pronunciare la working class vuol dire anzitutto superare questa frammentazione.

La scelta di non programmare eventi e panel in contemporanea, e non solo, la scelta di sospendere la programmazione per il tempo in cui si avvicendavano i turni del pranzo e della cena, hanno prodotto un risultato che è andato ben oltre le nostre intenzioni: ogni passaggio, ogni evento è stato vissuto collettivamente, insieme. Nello spazio dei tre giorni di festival abbiamo sperimentato un tentativo di sospensione della sovrabbondanza delle offerte e della continua compulsione alle scelte di consumo. Questo atto, piccolo, ha saputo creare un margine dove tentare un superamento della frammentazione, dove le istanze potessero uscire dalla loro condizione di segmento a partire dal fatto che le stavamo vivendo tutte collettivamente. In questo margine di manovra si è data anche la possibilità della riflessione che rischiava di rimanere meno affrontata: quella su cosa sia la working class oggi, chi includa, quanto si estenda: non solo lavoratorə alla linea, ma disoccupatə, working poors di tante categorie, interinali e lavoratorə in appalto, lavoratorə della conoscenza proletarizzatə, poverə colpevolizzatə, esclusə, nascostə e spintə ai margini delle città-vetrina.

Su questi tre assi, il luogo, il tempo e il modo, si è articolata la peculiarità di un evento nuovo che probabilmente ricorderemo a lungo.

Dario Salvetti del Collettivo di Fabbrica, nell’ultimo intervento, ha auspicato che questo fosse il primo appuntamento di una ricorrenza annuale, un pesce d’aprile che ogni anno la working class fa a un sistema che la invisibilizza, la spinge verso la frammentazione, le toglie la parola e la narrazione, “il nostro personale pesce d’aprile a una storia che vuole gli oppressi muti e chi domina a spargere narrazioni false e tossiche”.

Non sappiamo ancora se questo avverrà. Nell’attesa di vedere cosa sarà del festival e della sua alchimia, invitiamo tutte e tutti a sostenere il progetto di reindustrializzazione dal basso e il crowdfunding lanciato per sostenerlo che trovate qui.

La fabbrica che verrà, la fabbrica sostenibile e socialmente integrata che questo progetto intende costruire, se sarà, sarà anche spazio di cultura e riflessione condivisa, di riappropriazione della narrazione e della letteratura. Dipende da tutte e tutti costruire uno spazio che sia anche, nel senso più ampio e politico dell’espressione, la letteratura e noi.

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