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diretto da Romano Luperini

La democrazia del (testo) difficile a scuola

«Una delle letture più diffuse e indicate»

Questa estate ho riletto I Malavoglia. Ho sottolineato, ho trascritto, ho glossato ogni pagina con gli asterischi e i punti esclamativi, con i «questo è importante» e i «questo è bello». Ho preso di nuovo coscienza di che capolavoro è quel romanzo, della sua grandezza, della sua universalità nel tempo e nello spazio, ma anche delle sue difficoltà, del suo esigere molto dal lettore: penso allo spaesamento che già si sconta nel secondo capitolo, alla coralità disorientante del paese, alla lingua che deflagra, al bordone continuo delle voci, al venire meno dell’agio del punto di vista univoco. Terminata la lettura e ancora tutto dentro l’importanza di quell’esperienza, mi è capitato di leggere su Wikipedia il cappello introduttivo alla pagina sul romanzo:

I Malavoglia è il romanzo più conosciuto dello scrittore Giovanni Verga, pubblicato a Milano dall’editore Treves nel 1881. È una delle letture più diffuse e indicate nei programmi di letteratura italiana all’interno del sistema scolastico italiano. Fa parte del Ciclo dei Vinti.

Ecco, proprio quell’ «è una delle letture più diffuse e indicate nei programmi di letteratura italiana all’interno del sistema scolastico italiano» ha mosso in me alcune riflessioni, che mi pare interessante discutere insieme, che riguardano il senso della presenza di capolavori – difficili – all’interno delle nostre scuole o meglio della nostra idea di scuola.

Certa gratitudine e certa difficoltà

Una prima considerazione ha che fare con la gratitudine. Ma non tanto nei confronti di Verga, avrebbe poco senso, quanto di quel sistema ermeneutico – sì, il famigerato canone che poi è anche frutto dello studio e delle scelte dei critici – che a un certo punto della nostra storia ha contribuito a fare sedimentare la consapevolezza che I Malavoglia fosse un romanzo essenziale, da dovere essere letto da tutti, diffuso in tutte le scuole, indicato – per lo meno fino a quando sono esistiti – in tutti i programmi. L’idea che il nostro sistema scolastico abbia fatto in modo che un libro tanto importante e bello potesse essere patrimonio comune mi è parsa confortante, di più, mi ha fatto sentire grato e chiamato a risponderne. Una seconda considerazione riguarda l’evidenza di come, a lettura fresca, I Malavoglia rimangano un testo difficile per chiunque, assolutamente difficile oggi per la nostra scuola, un’opera che presenta ostacoli oggettivi, tali da porla sotto processo dal punto di vista della sua reale spendibilità didattica. Queste due considerazioni in apparenza dissonanti, ovvero il riconoscimento positivo dell’eredità del canone, ma anche della evidente difficoltà di uno dei suoi testi più rappresentativi, mi pare implichino naturalmente una domanda. È vero, la nostra letteratura è miniera di capolavori che, così come I Malavoglia, sono stati prima canonizzati e poi messi a disposizione di tutti. Ma a scorrere le opere previste per il triennio, ovvero nel tempo in cui ci si imbarca a scuola nell’impianto storico, tanto più nell’ultimo anno ovvero nel tempo in cui la lettura integrale di alcuni capolavori sarebbe opportuna, quante e quali sono le opere che oggi un insegnante potrebbe portare senza difficoltà in classe? A riguardo ho pochi dubbi: nessuna, e lo affermo avendo in mente non solo I Malavoglia, ma anche opere che per lungo tempo ho considerato affidabili alla prova della classe. Se il criterio è quello della difficoltà, dal mio punto di vista – parziale certo – mi pare che oggi non ci sia più un Calvino o una Morante che tengano, Sciascia o Moravia che siano, men che meno Svevo o Pirandello, insomma che non ci sia nessuna opera canonica, ché di quelle stiamo discutendo, che possa garantire facile successo didattico, perché la letteratura italiana, quella che conta, è difficile, lo è sempre stata, lo sarà sempre di più per gli studenti e le studentesse di domani. Ma va da sé che occorre intenderci sul senso del «portare in classe» e ancora di più su un’idea del «difficile».

Dove andare?

Consideriamo anzitutto il «portare in classe». È chiaro che se studenti e studentesse arrivano al tentativo di lettura integrale delle opere del canone come spesso è capitato, ovvero lanciatici e lanciateci contro unicamente a sberle di liste estive, il solo fantasticarne oggi la difesa sarebbe problematico. La notizia buona è che si fanno sempre più strada nuove metodologie di riappropriazione della lettura (penso al WRW, ma non è la sola) che anche da noi stanno rinnovando profondamente l’approccio ai testi, con risultati reali e misurabili specie nella primaria e nella secondaria di primo grado. Esperienze di questo tipo prendono di petto finalmente nelle prassi lo sviluppo di competenze, tali da affrontare in prospettiva e con altri muscoli anche la scalata di certe opere del canone che però, questo va detto, sono spesso quanto di più inospitale per mettere a sistema quel «piacere della lettura», quel «gusto di leggere» come opportunità libera e zona di benessere sul quale si fondano alcuni di questi approcci. A fronte di una libertà di scelta importante su quali letture esercitare il proprio apprendistato di molti nuovi metodi, l’essere vincolati dal canone al confronto con opere che nessun giovane lettore e giovane lettrice sceglierebbe, difficili, con promessa iniziale di rispecchiamento e gratificazione emotiva spesso pari a zero, a ragione potrebbe mettere in crisi qualsiasi metodologia che si basi anzitutto sulla soddisfazione certa dello studente o della studentessa. Dichiarando che anche su presunti campioni della leggibilità, da Calvino a Fenoglio, da Buzzati a Cassola, sarei pronto a dimostrare come oggi la lettura autonoma sia comunque impegnativa anche per i migliori studenti e le migliori studentesse delle migliori scuole, l’obiezione potrebbe essere allora proprio questa: ma perché dovremmo continuare a tentare di fare leggere certe opere? Chi ce lo impone? Non sarebbe forse il tempo di accontentarci definitivamente di qualche assaggio, qualche passo antologizzato, concedendo ad altre tipologie di letture, più «adatte al loro tempo, alla loro sensibilità» il privilegio della lettura integrale? Per quanto mi riguarda, e come ho raccontato mostrando qualche tempo fa il laboratorio di lettura che sono solito mettere in campo al triennio, la mia risposta è no: le opere del canone non vanno mollate e non andrebbero solo insegnate ma si dovrebbe fare tutto quanto possibile affinché vengano lette, se possibile integralmente. Ma prima dell’«ok, ma come» che io per primo avverto incalzare nei miei pensieri, occorre spendere qualche altra riflessione sull’altro corno della questione, ovvero sul nostro rapporto con l’idea del testo «difficile», o meglio sul perché il testo «difficile» a scuola.

Un’idea del «difficile»

A riguardo faccio mia anzitutto una dichiarazione di principio: io credo che oggi e alla luce dell’orizzonte storico, sociale e culturale, nel quale i nostri alunni e le nostre alunne si trovano a formarsi, il farsi carico dell’onere di accompagnarli alla prova del testo difficile, complesso, non immediato, sia anzitutto un atto profondamente democratico. Pur tra mille contraddizioni e ritardi, avverto oggi come patrimonio diffuso la consapevolezza della centralità delle istanze poste dagli studenti e dalle studentesse nel processo educativo, attorno alle quali strutturare la comunità educante e questo è un gran passo in avanti. A riguardo mi interrogo però su quali esiti sortiscano certe letture di tali istanze, alle quali finalmente viene riconosciuta centralità. Noto, e a volte anche io stesso sperimento personalmente, come una naturale e fisiologica resistenza da parte dei ragazzi e delle ragazze al passo verso l’alto che il «difficile» pretende, sia spesso patteggiata dal mondo adulto come realismo della rimodulazione della domanda e quindi di ridefinizione verso il basso dell’obbiettivo. Insomma, spesso leggo dietro le migliori intenzioni un paternalismo o un maternalismo latente, per i quali l’intenzione di non mollare la presa sull’obbiettivo alto venga travisata in attaccamento al passato, volontà di dominio, scollamento dal reale, mentre il rinunciare senza troppi patemi al «difficile» sia adesione positiva al piano di realtà, apertura al nuovo, valorizzazione della studentessa e dello studente. Tale piano inclinato mi pare declinare in modo assoluto, aggravando la questione democratica, alla luce del differente livello di scuola. Se ai licei quel «difficile», ovvero anche la letteratura canonica, nel più dei casi continua a essere preteso senza troppi sconti e infine anche raggiunto – perché ci sono famiglie dietro e libri in casa, quartieri e scuole protette, tanti altri mille motivi irritanti a ripetersi ma realistici a considerarli, a partire dalla selezione progressiva del livello medio degli alunni e delle alunne -, dico che negli istituti di istruzione grettamente considerati più ‘bassi’, passi spesso, nemmeno troppo surrettiziamente, il tanto meglio un progetto o un compito di realtà o al limite il libretto da cento pagine sul testimone di turno, perché in fondo quello possono fare ed è giusto che pensino ad altro senza troppo scornarsi con le astrusità del canone. Non mancherà poi l’istituzione che benedirà, magari difronte a una platea di una sala consiliare, i propri allievi e le proprie allieve che hanno fatto quella presentazione tanto bella, che hanno ricevuto il plauso dell’autorità di turno, che hanno espresso i loro pensieri pieni di emozioni positive, che il tempo perso dietro ai Malavoglia lasciamolo ai figli dei ricchi.

Il «difficile», l’alto, l’indispensabile

«Sì va bene, tutto bello, ma allora come facciamo in pratica a fare leggere certi testi». Occorrerebbe imbastire a questo punto un discorso altrettanto lungo su quanto sia importante lavorare in classe sulle competenze di lettura, e su questo come detto c’è chi lo sta facendo e bene, ma anche – e questo temo si faccia meno, i primi scettici sono spesso gli insegnanti – sulla negoziazione in classe del riconoscimento dell’importanza di quella scelta, di quell’atto, di quella fatica della conquista del testo canonico e difficile. Sarebbe utile anche definire cosa si intenda per “piacere” e “soddisfazione” dei ragazzi, avere anche il coraggio, horribile dictu, di giudicarlo quel piacere, capire a che punto sia, sfatarne la sacralità, giudicarlo e valutarlo, ché ogni piacere non è mai neutro e sempre e anche frutto di condizionamenti, dell’epoca e del mercato; a riguardo spingersi a ragionare su quanto, iterum horribile dictu, certa totemizzazione della immagine dello studente da parte del mondo adulto sia, per paradosso nemmeno troppo velato, quanto di più autoritario e autoassolutorio esista. Converrebbe anche fermarsi sulla gradualità necessaria, ma troppo spesso appiattita nei grandi discorsi sul leggere, che si è tenuti a rispettare, poiché se da ragazzine e ragazzini, nella prima adolescenza, la palestra del libro che accoglie è determinante, al triennio, parimenti, quando l’età adulta è alle porte, la responsabilità educativa della letteratura canonica dovrebbe essere dovuta. A riguardo e a dirla tutta, valutare come la grande letteratura, anche da adulti, ben poche volte sia in grado di fornire certa soddisfazione e certo piacere immediato, quanto piuttosto scorno, ostacolo, impaludamento nel complesso, ma proprio per questo opportunità conoscitiva unica e irripetibile. Sapere insegnare a leggere certo, ma anche sapere dire perché è importante farlo, cosa c’è in quel classico – e non in altre opere – che sa arricchire in modo unico la propria vita, rifiutare con nettezza il «purché leggano», comunicare l’urgenza di farlo, l’occasione da non mancare, il tesoro a portata di un tempo limitato, ecco, anche questo andrebbe fatto in classe. Dico che in questi venti anni di scuola ho visto alunne e alunni venire a capo di testi apparentemente ad anni luce di distanza dalla loro portata. Altri e altre, ben più forniti e fornite, lasciarsi sfilare davanti il treno di quella possibilità. Il quadro non è scontato, la sentenza a scuola non può essere mai scritta, la posta in gioco non è indifferente.

Perché lì ci sono gli archetipi

Ma mi rendo conto di essere stato generico e di essere gradualmente scivolato sulla percezione personale, a fronte di un ragionamento che invece vorrei sostenere come collettivo. Verrebbe allora da attaccarmi al racconto del mio tecnico meccatronico di qualche anno fa, nel quale leggemmo per intero un Moravia, un Calvino, un Fenoglioe, un Pavese, dalla fine di ottobre fino a maggio (ma non prima di ottobre, che per venti giorni erano stati, in tuta, in officina a «fare alternanza»); di Gesualdo letto per intero al professionale, ma anche, certo, de La storia letto per intero al classico, perché c’è anche questo sì, e non solo ai licei, l’evidenza di ragazze e ragazzi che leggono senza problemi i classici e magari girano per l’aula con l’Ernaux appena presa autonomamente, per curiosità personale, come ho visto fare la settimana passata. Mi verrebbe da dire di come, dal professionale al liceo, la centralità concessa per principio alla letteratura abbia sempre ripagato e fornito un orizzonte di senso per un linguaggio che, non dimentichiamolo, è ancora in grado di offrire gli archetipi necessari a vivere; del dovere morale di non derubare nessuno studente e nessuna studentessa dell’inquietudine di ‘Ntoni che se ne va, perché lì c’è la storia di ognuno di noi e di loro e, se gli diamo un nome, il mare che non ha paese non sarà la nostra tabe; dell’occasione che ci è data di imporre una forma quelle domande senza un perimetro che dentro ci logorano come Amerigo Ormea; di quella stessa forza che può essere il nostro viatico per il mondo, l’esercizio della nostra libertà, che scopriamo solo se senza infingimenti ci scorniamo con la domanda manzoniana su quanto davvero sappia il cuore (perché certo che sì, I promessi sposi vanno letti); ecco mi verrebbe da dire tutto questo, ma mi basta riaffermare come il diritto al «difficile», che è patrimonio di tutti e le cui ragioni ho qui tentato in modo così imperfetto di sostenere, nello specifico di quel «difficile» che è il testo letterario canonico, non possano non essere un valore fondativo della nostra idea di scuola.

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