Oro botanico e ferro equino/Lettere dalla Corea del Sud 6
20 ottobre 2013
Agatha è brasiliana, come me ha trentuno anni e gli occhi stanchi e dice che bisogna andarsene prima che cominci la nausea.
Io è da giorni che ce l’ho, da quando è scoppiato l’autunno e la strada del campus si è incrostata di frutti di ginko. È un albero bellissimo e al posto delle foglie ha tanti ventaglietti che quando si seccano sono così gialli brillanti che per davvero sembrano d’oro – e allora forse è per questo che i coreani il ginko lo chiamano unen namu, albero della banca, con un nodo di u e di nasali che tiene insieme la botanica e l’economia.
D’autunno i ventaglietti sui rami scintillano e si staccano e con loro vengono giù pure tante piccole palline arancioni, che quando le calpesti esplodono e schizza fuori un succo polposo così puzzolente che devasta: sa di vomito, ma proprio di vomito. Tutti lo sanno che non bisogna calpestarle queste palline che ticchettano via dal ginko, ma ce ne sono così tante sul marciapiede che evitarle è impossibile, a meno che uno non decida di mettersi a camminare sulle punte degli stivali, con gli occhi che sondano le fessure del cemento. E siccome nessuno lo fa, la strada del campus è purulenta di melma gialla e così resta fin quando non arrivano le olmoni, le nonnine col rastrello, che con la pazienza delle schiene curve si mettono a raccogliere tutte le palline, riempiendoci buste e buste. Non le butteranno mica: proprio no. Si siederanno sul bordo del fiume invece, con la tuta fucsia e le gambe aperte, e cominceranno a impastare quella melma sul cemento, per consumarla e liberare i noccioli, che quelli sì sono una ricchezza vera, perché cotti si tramutano in un farmaco prelibato: un ingrediente autunnale di tante zuppe vigorose, che se le ingoi tutte ti fanno da scudo preventivo contro il gelo che sta per arrivare, già ti appanna le finestre di mattina.
Ma non è della nausea da ginko che parlava ieri Agatha, Agatha che crede negli angeli e usa Thanks God come intercalare. È di una nausea più estesa, che tatua una smorfia sulla faccia, neutralizza le novità e fa smettere di imparare.
Non imparo più niente da questo posto, niente di niente – dice Agatha – non ascolto le parole, non leggo le insegne, odio l’autobus, ripeto e ripeto e mi annoio. Infatti. Ma questo sei tu che lo dici: infatti. Perché anche tu hai smesso di imparare, anche tu l’autobus lo odi, lo odi quasi quanto il semaforo e il cemento, e è da mesi che questo luogo l’hai esaurito: è deciso ormai.
L’hai deciso però solo da poco, da pochissimo, forse la decisione vera l’hai presa giovedì: l’altro ieri. La lezione era appena finita e tu ancora avevi il cervello intasato di parole italiane smozzicate e tremule e non ti eri mai sentita così nostalgica, mai, con una inedita voglia di prosciutto che quasi superava il bisogno di sintassi fluida. E così hai preso l’autobus e sei andata a Seoul, dove oltre al prosciutto hai trovato quello che ancora tutti chiamano Samsung Museum, anche se da anni ha cambiato nome e ora è il Leeum Museum. E dentro al museo, appena in tempo perché stava per finire, c’era una mostra su Calder, con tutte le sue sculture fluttuanti, dette mobili, che per la prima volta da New York erano arrivate a Seoul per mostrarsi un po’ anche ai coreani, perché vanno osservate dal vero queste sequenze di arte cinetica, sennò come si fa a meravigliarsi davanti alle ombre e a riconoscere che quello che dice Calder è proprio vero: “a mobile is a piece of poetry that dances with the joy of life and surprise”.
Alla mostra però non c’erano solo i mobili, ma anche una scultura piantata per terra, solida e industriale: un cavallo di ferro freddo, aguzzo e svettante, quasi uguale – forse solo più piccolo – a quello che sta alla stazione di Spoleto e che ne è il simbolo. Sì, quel cavallo di Calder alla stazione è il simbolo della città dove sei nata e ogni volta che parti o torni passi da lì, da quel gigante buffo animale messo a guardia di una rotonda. Con la macchina bisogna passarci attorno, stando attenti a non sfiorarla quella groppa stilizzata di ferro nero. Ma una volta un ragazzo di Spoleto invece di fare il giro ci è passato sotto come si passa sotto un ponte, e la macchina che stava guidando non era sua ma della scuola guida, e in quel giorno c’era l’esame di pratica e così è stato bocciato e si è arrabbiato tanto, ma proprio tanto.
E questa è diventata una leggenda cittadina e dopo quella volta nessuno è stato più bocciato per colpa del cavallo di Calder, che mi piace tanto, ma non posso dire che mi manca e nemmeno il prosciutto mi manca, non era mica vero; semmai la bresaola. Però è vero che qui ho smesso di imparare e che i frutti del ginko puzzano, e questo è un segno che riconosco e vuol dire una cosa sola: basta.
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