Riflessioni a vent’anni dai fatti di Genova
Premetto che quel venerdì 20 luglio 2001 alla manifestazione contro il G8 non ci andai e fu una scelta deliberata: nelle lotte anticapitaliste degli anni Sessanta e Settanta avevo imparato che non ci si caccia nella bocca del lupo se non si è pianificata almeno una possibilità collettiva di venirne fuori al meglio o almeno con il minor danno possibile sia in termini umani che politici. Inoltre occorre essere organizzati per controllare chi nelle manifestazioni può offrire il fianco alla provocazione dell’avversario, offrendogli la possibilità di un più facile successo sia in piazza che nella prospettiva politica. Nessuna di queste condizioni era rappresentata a Genova in quei giorni, nonostante la buona volontà e le sacrosante ragioni del Genoa Social Forum. Inoltre c’era il precedente della “mattanza” in Piazza Municipio a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del vertice Ocse e l’azione provocatoria dei Black Bloc vista in precedenti occasioni. Infine avevo la responsabilità di due figli adolescenti, che avrebbero insistito per venire con me e che non ero sicuro di riportare a casa indenni. Tra l’altro questo obbiettivo di generare paura e insicurezza era uno degli obbiettivi degli animatori della strategia della tensione contro il movimento no-global. Gli unici che avevano un’idea se pur minima dello scontro erano le “tute bianche”, i “disubbidienti”, che avevano già dimostrato di essere capaci di difendersi, ma che non avevano il controllo della situazione, né capacità di egemonia politica, tant’è che non aderivano al Forum a testimonianza della frammentazione politica ed organizzativa del movimento di opposizione alla globalizzazione selvaggia.
Quindi non sono un testimone oculare, quello che so è desunto dai media, dalla testimonianza di alcuni vecchi compagni che c’erano e dall’inchiesta giornalistica indipendente di Franco Fracassi (G8 Gate. 10 anni di inchiesta: I segreti del G8 di Genova, Alpine Studio, 2011). Come andarono i fatti è in gran parte chiarito dai numerosi processi succedutisi, dalle commissioni di inchiesta e da quelle giornalistiche, anche se – come al solito – il ruolo dei servizi segreti dei vari paesi è in larga misura oscuro. Vale la pena di richiamare sommariamente alcune evidenze.
- Nessuno fece alcun tentativo serio di fermare o controllare le azioni distruttive dei cosiddetti Black Bloc, i cosiddetti anarchici che tutti davano per scontato fossero manipolati e infiltrati da agenti provocatori. La loro natura di “assembramento tattico”, informale, elasticamente organizzato, li rendeva particolarmente predisposti a questa evenienza (S. Sensi, D. Tsang, Carta, n. 8, 2001). Scrive Fracassi: “gli unici ad avere realmente affrontato i Black nei due giorni di scontri furono alcuni iscritti alla sezione di Rifondazione Comunista di Marassi e … l’unica volta in cui furono attaccati da qualcuno, i neri le presero di santa ragione dandosi alla fuga” (p. 46).
- L’assalto alla scuola Diaz da parte della polizia nella notte tra il 20 e il 21 luglio fu un atto di deliberata e inaudita violenza, che è stato sanzionato da uno specifico processo, i cui responsabili sono stati condannati con sentenze passate in giudicato, anche se alcuni di essi dopo aver scontato la pena sono rientrati in polizia, continuando a fare carriera.
- Le forze dell’ordine al centro di identificazione dei fermati della Caserma di Bolzaneto (come anche alla scuola Diaz) si macchiarono di reati che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto vere e proprie torture. Ne ho testimonianza diretta da un compagno, che ha portato sul proprio corpo i segni di quella violenza fino alla morte. Sappiamo che in quella centrale operativa era presente Gianfranco Fini, esponente della “nuova destra” di Alleanza Nazionale dal passato missino, da poco sdoganato da Berlusconi, del cui governo era vice-presidente. Tale situazione è specifica del “caso italiano” nel panorama europeo, per cui la destra sedicente “liberale” di Forza Italia mantiene rapporti stretti di alleanza con quella neo-fascista ed oggi con quella lepenista. Fracassi scrive: “Alcuni sostengono che la sua presenza sia stata determinante per scatenare la repressione … Fini avrebbe fatto capire alle forze dell’ordine che qualunque cosa avessero fatto sarebbero state appoggiate e coperte dal governo … Queste sono supposizioni. Non c’è la possibilità di capire che cosa sia successo a quel livello. C’è però la certezza … che c’erano dei gruppi di poliziotti di estrema destra che volevano intervenire in un certo modo” (p. 97). Politicamente il governo Berlusconi da poco insediato voleva dimostrare la sua capacità gestionale sulla scena internazionale. Nessuno degli autori ha scontato per questi fatti un solo giorno di carcere. In quest’occasione abbiamo “scoperto” che il nostro Codice Penale ancora vigente, quello del fascista Rocco, non prevedeva il reato di tortura. Con molto ritardo, e sotto pressione dell’Europa, ci è stata messa recentemente “una pezza” (l’art. 613 bis del CP, per altro molto criticato, è del 14.7.2017) . D’altronde questo è un copione consueto di mancata applicazione della Costituzione, che dura da 76 anni.
Una prima riflessione è di natura “simbolica”. L’istituzione della “zona rossa”, che recingeva con una cortina di acciaio elettrosaldata la parte di Genova dove si sarebbero incontrati “i grandi della Terra”, rappresenta plasticamente il modo di intendere il rapporto tra elite dirigenti e masse, che le classi dominanti non solo avevano messo a punto sul terreno dello scontro militare, ma avevano progettato come modalità di gestione della globalizzazione appena avviata. È il vecchio progetto borghese, per dirlo con le parole di Lukács, della “libertà protetta dalla forza”. Inizia così l’epoca dei muri e del filo spinato (Messico, Palestina, Ceuta, Balcani ecc.), che dura tutt’oggi e che quindi non appartiene solo al Novecento, agli anni in cui si vuole che “il male assoluto” mettesse a ferro e fuoco il mondo. Purtroppo il male non è stato sconfitto una volta per tutte, è storicamente permanente: si riproduce più o meno simile nelle varie epoche storiche, intrecciandosi con il potere, il dominio dell’uomo sull’uomo, lo sfruttamento. Per chiarire il contesto storico cito un documento del 2003, firmato da un gruppo di militanti, che si interrogavano sul futuro e che prevedevano la crisi globale che si sarebbe presentata di lì a pochi anni e in cui siamo ancora dentro, prima e dopo la pandemia: “La contraddizione Nord/Sud collabora in modo potente al terremoto in atto. La minaccia terroristica e la reazione imperialistica (tanto più in quanto cieca e indiscriminata quale quella promossa da Bush) costituiscono un elemento di destabilizzazione ulteriore. L’acutezza della contraddizione che divide palestinesi e israeliani, le minacce di guerra all’Iraq e ai cosiddetti stati-canaglia, la previsione di una guerra trentennale e quindi di una nuova guerra mondiale, la proliferazione degli armamenti nucleari, la rete terroristica internazionale, l’invasione dell’Occidente da parte dei popoli affamati del Terzo Mondo schiudono scenari nuovi e devastanti, tanto che si potrebbe immaginare anche se non a breve termine una vera e propria palestinizzazione del pianeta, cioè una minoranza, il cui privilegio è difeso dalle armi, in guerra continua contro una maggioranza affamata, a cui non viene riconosciuto il diritto di ribellarsi e di autodeterminarsi, con un confine incerto e frastagliato difeso dai reticolati che attraverserebbe tutto il pianeta”. La “zona rossa”, la sempre più netta divisione tra élite al potere e popolo sottomesso, è poi diventata uno strumento propagandistico nelle mani del populismo in una forma di apologia indiretta dei rapporti di forza esistenti tra le classi, affondando nel burro della sinistra socialdemocratica europea e mondiale, che ha rinunciato ad ogni strumento teorico di critica del reale. Dall’altra parte proprio e non casualmente sul terreno simbolico stavano gli “avversari”, che i media ci presentarono a Genova e ancora ci presentano a favore delle telecamere: i Black Bloc, i casseur, i sedicenti distruttori dei simboli del consumismo, i retori della violenza per la violenza (anche questa è una retorica datata e nota). Cito ciò che questo arcipelago frastagliato ha scritto di sé. “I simboli del potere globale che distruggiamo costituiscono per noi un vero e proprio intervento di arredo urbano, anche se momentaneo, purtroppo … nello stesso identico modo interrompiamo nelle città il flusso simbolico del potere globale” (dal documento “Io sono un Black Bloc, poesia e pratica della sovversione”, Derive Approdi, 2002). Il risultato è la spettacolarizzazione dello scontro, che in maniera del tutto isomorfa alla logica degli strateghi della globalizzazione punta a trasformare un evento politico in un evento criminale. Dichiara a Fracassi Sergio Finardi, collaboratore de Il Manifesto di Chicago, uno degli esperti mondiali dei Black Bloc: “invece di parlare di quelli che sono gli obbiettivi della manifestazione, si parl[a] del fatto che sono state spaccate delle vetrine” (p. 72). Meglio ancora sarebbe stato se ci fosse “scappato il morto” come effettivamente avvenne sulla pelle di Carlo Giuliani. Quindi la manipolazione e l’infiltrazione dei Black Bloc furono parte integrale della strategia della tensione volta a sconfiggere il movimento no-global. Da notare una significativa spia semantica: l’inversione dei colori, il rosso e il nero non richiamano tradizionalmente i ruoli dei contestatori e dei contestati, ma connotano specularmente le parti in campo. Ciò dimostra quale fu la linea, anche sul terreno simbolico, perseguita a Genova dai “grandi della Terra” e dai loro servizi segreti, da Seattle in poi.
Una seconda riflessione riguarda la fortissima influenza che le forze neo-fasciste continuano ad avere su scala planetaria e in particolare in Italia, dove i conti con il fascismo non sono mai stati fatti fino in fondo. Abbiamo già visto il ruolo giocato da Fini. In sintesi sono stati individuati tre livelli di intervento contro il movimento no-global (Finardi ,p. 91-92): 1. “c’erano gruppi di poliziotti fascisti, che intendevano picchiare, provocare” e questa è accertato; 2. “un secondo livello è quello ufficiale dell’organizzazione delle forze di polizia … Al suo interno ci sono i servizi segreti … di otto nazioni”, che agivano secondo una strategia decisa a livello internazionale per sconfiggere il movimento; 3. infine il “secret team” più difficile da descrivere, “che ha soldi e capacità di sorveglianza e … di intervento tecnico sulle comunicazioni”. A questo vanno sommati gli infiltrati della destra neo-fascista e neo-nazista, la cui presenza è stata accertata a Genova in quei giorni. Ciò attesta ancora che il pericolo fascista non è stato definitivamente sconfitto e che gioca in quest’occasione come in altre il ruolo di “carta di riserva” delle classi dominanti con i loro apparati politici, economici e militari, esattamente come fu negli anni Venti del Novecento e nella stragista degli anni Settanta, quando fallisce l’organizzazione di massa del consenso.
Un terza riflessione, che pongo qui anche come conclusione, riguarda la questione del potere, cioè di chi nella società prende le decisioni. Come è accaduto altre volte nel secondo Novecento (tale fu il ciclo di lotte intorno al 1968, ma anche il movimento per la pace degli anni Novanta) lo scontro tra il movimento no-global e gli enormi apparati multinazionali, che vollero imporre a tutti i costi la globalizzazione, assomiglia ad un ingenuo “assalto al cielo”, generoso, ma così poco organizzato – anche nella teoria – da essere candidato alla sconfitta. Come il movimento pacifista non riuscì a fermare la guerra, così il movimento no-global non bloccò e neppure riuscì a frenare la globalizzazione selvaggia, anche se oggi i suoi temi stanno nelle agende delle organizzazioni governative internazionali: in primo luogo la questione climatica, poi la gestione delle risorse naturali (soprattutto le fonti energetiche) e quelle umane del pianeta, il debito dei paesi poveri ed infine il problema se il modello dello sviluppo economico senza limiti sia davvero l’unico possibile. La terza rivoluzione industriale, quella elettronica, e la quarta che incombe alle porte, che rendeva inevitabile la globalizzazione dei mercati ed anche della produzione, non solo non ha risolto i problemi, anzi li ha esacerbati come dimostrano i dieci anni di crisi economico-sociale che abbiamo alle spalle e quelli della pandemia. Nello scontro di Genova il movimento no-global è stato sconfitto ed esso non esiste più. È sopravvissuto solo il Legal Social Forum, che ha il merito di aver condotto una lunga battaglia che ha prodotto qualche risultato nelle aule dei tribunali e illuminato alcuni lati oscuri della vicenda. Un’altra stagione di speranze è terminata. Con l’11 settembre, di cui è “il preludio immediato” con l’allarme dei servizi segreti di un attentato aereo contro Bush secondo l’opinione del giornalista indipendente Webster Griffin Tarpley, siamo entrati a pieno titolo nell’epoca della modernità liquida o ipermodernità con una perdita secca nel rapporto con la realtà materiale. Nel 2000 escono le “Reflections on exile” di Edward Said e la parola “esilio” come perdita della realtà sensibile comincia a popolare non solo i saggi letterari, ma anche l’immaginario collettivo. La speranza (ma per ora è solo una tenue possibilità) è che il movimento reale, che abolisce lo stato di cose presenti, si imponga per la salvezza della specie grazie alla pressione che le masse affamate del pianeta eserciteranno con sempre maggior forza contro i muri della zona rossa.
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