Insegnare l’ignoto: Tristan da Cunha
Il dito sul mappamondo
Quando eravamo bambini, quelli della mia generazione almeno, giocavamo al gioco del mappamondo. Si faceva girare velocemente il globo e poi lo si bloccava di colpo con l’indice poggiato in un punto a casaccio: quello sarebbe stato il posto dove saremmo andati a vivere da grandi. Io, come credo molti, l’indice non lo poggiavo mai in un punto a casaccio, piuttosto, con gli occhi puntuti mi sforzavo per quanto possibile di beccare ogni volta l’oceano, i poli, un posto il più sperduto possibile. Per me, che bambino ero stato iniziato all’esercizio dell’immaginazione dagli Stevenson e dai Salgari stropicciati della bibliotechina della mia scuola elementare, sarebbe stato avvilente condannarsi con l’indice a un futuro banale in Russia, nelle Americhe o peggio di tutto in Europa.
Il dito su Google Earth
Crescendo ho continuato a coltivare una gran passione per atlanti, carte, odeporiche, finché, più o meno a metà degli anni Zero, sono stato folgorato sulla via di Damasco dall’apparizione di Google Earth: strumento incredibile che con una manina digitale, un + e un – sulla destra dello schermo era (è) in grado di trasumanarci all’istante in un dio, in un deus ex machina qualunque, capace di sbatacchiare il globo a destra e sinistra, in alto in basso, per precipitare infine di colpo su un qualsiasi punto del mondo, fino a vederne il tetto, la strada, la pattumiera presente in quello e in ogni metro quadrato possibile della terra. Nano sulle spalle dei giganti, fantasticando sulla faccia di un Tolomeo, di un Galileo o di un Magellano che mi spiavano increduli, il gioco del mappamondo è diventato, da adulto, quello dell’esplorazione serale su Google Earth delle vie delle città che non ho visto e che mai vedrò, delle praterie patagoniche e dei deserti nord americani, delle città più fredde del mondo in Siberia e della capanne di fango sudanesi, della via di casa mia a Ponte San Giovanni e di quella dei miei avi sardi in Barbagia, oramai sepolta sotto un campo sportivo.
Il dito su Tristan da Cunha
Durante queste esplorazioni, più e più volte, mi sono ritrovato a poggiare il mio dito digitale su quello che a ragione è considerato uno dei posti più remoti e inaccessibili del mondo: l’isola di Tristan da Cunha (è qui, e dopo averla trovata su Google Maps, meglio in modalità satellite, tornate indietro con la rotellina del mouse per capire quando sia veramente remota), che è parte di un minuscolo arcipelago fatto di nomi assolutamente parlanti: Inaccesible Island, Nightingale Island e Gough Island. Il primo ad avvistare Tristan da Cunha fu all’inizio del XVI secolo il navigatore portoghese Tristão da Cunha, il quale, in uno dei tanti tragici fuori rotta di quell’epoca di incredibili imprese, si trovò a un certo punto come Ulisse difronte a un immenso scoglio sovrastato da un’immensa montagna. Tristão fu il primo a rendersi conto dell’estrema difficoltà d’accesso dovuta alle forti correnti e alle scogliere aspre che di fatto ancora oggi non permettono la presenza di un porto degno di questo nome. Ma l’isola era stata trovata e ben presto divenne luogo strategico e prezioso per un motivo semplice: la presenza di acqua dolce che la fece diventare, una volta capito come abbordarla, una specie di provvidenziale stazione di servizio nel nulla atlantico. La storia dell’isola e dell’uomo che provava a prenderla dunque iniziò, meglio di un libro di Stevenson e Salgari, fatta di personaggi leggendari come il marinaio Jonathan Lambert, il quale il 27 dicembre 1810, naufrago insieme a soli due superstiti (l’americano Andrew Millet e il livornese Tommaso Corri), perso nel nulla atlantico, dimenticato da Dio e dagli uomini, si autoproclamò proprietario dell’isola pronunciando parole perentorie, stabilì i colori di quella che doveva essere la bandiera, fino ad affermare «che nei nostri rapporti con tutte le altre nazioni, noi ci consideriamo, io e il mio popolo, legati da principi di ospitalità, di cameratismo e dai diritti delle leggi e delle nazioni». «Io e il mio popolo», proprio così disse: lui, Jonathan Lambert, unico essere umano nell’isola, oltre ai due naufraghi mezzi morti che lo ascoltavano stralunati. La storia andò comunque avanti, con il susseguirsi dei primi insediamenti umani e per farla breve arriva fino ai giorni nostri, glissando per sintesi su eventi che davvero sembrano usciti da un romanzo, come il naufragio del brigantino Italia nel 1892, che lasciò per sempre sull’isola due giovani liguri di Camogli, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto, i quali diedero vita a una discendenza ancora oggi presente, o come l’evacuazione forzata ma temporanea nel 1961 di tutti gli allora 264 abitanti dell’isola a causa del risveglio del vulcano che incombe sull’unico villaggio presente.
Il dito sull’ignoto
Perché il fascino di Tristan da Cunha è proprio questo: ancora oggi è un posto assolutamente remoto e letteralmente fuori dal mondo. Non c’è un aeroporto, sono necessari almeno sei giorni di navigazione burrascosa per raggiungerla, infine non si sbarca direttamente ma è necessario un ultimo trasbordo su lance adatte a ormeggiare tra mille difficoltà sulla terra ferma. Ciononostante, in questo posto dimenticato dal mondo e dalla storia esiste una comunità minuscola (oggi 250 persone), assolutamente coesa e fatta di solo otto ceppi familiari, che non abbandonerebbe per nulla al mondo questo posto, per niente interessata a quello che loro chiamano l’outside world (a riguardo si legga la bella testimonianza di Adriano Valerio) e che vive un modello comunitario particolarissimo. Orbene, al di là del mio interesse personale, che c’entra infine la scuola con un posto di questo tipo? Infondo questo pezzo esce per la sezione del blog La scuola e noi. A suo tempo, sempre su laletteraturaenoi avevo proposto una riflessione sulla rivitalizzazione dello studio della geostoria attraverso l’odeporica e naturalmente anche Tristan da Cunha rientra a pieno titolo in questo ambito didattico (molto utile in tale senso è il bel volume di Annamaria “Lilla” Mariotti, Tristan da Cunha. Storia e vicissitudini della più remota comunità umana, Magenes, Milano 2013). Eppure, mi pare che oltre questo, un posto del genere rappresenti una riserva simbolica rara di un qualcosa che avverto oggi ancora necessario, specie a scuola: la capacità di sperimentare e mettere a sistema il senso dell’ignoto e il potere della sua fascinazione. Perché Tristan da Cunha sfugge anche alla civiltà digitale e all’immaginario stereotipato e condizionato dei nostri studenti, di fatto è difficile reperire informazioni in rete, non è un’isola caraibica da cartolina, le poche immagini descrivono un luogo ostile e piovoso e fatta eccezione per i pochissimi che avranno il privilegio di andarci, è possibile avvicinarla solo attraverso i libri e l’immaginazione. Ecco, io credo che, a partire dalla capacità di sognare un posto come Tristan da Cunha ma anche altri come questo, reali ma immaginifici, si possa aprire per ogni insegnante e ogni classe, con modalità e percorsi tutti da inventare (io ho i miei), il vuoto fertile dell’ignoto, l’unico capace di riempirsi dei contenuti originali e sorprendenti che solo il trasporto del conoscere sa generare.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Eppure anche in Adriatico abbiamo la nostra Tristan da Cunha, l’isola di Pelagrosa o Pelagrusza, abitata da due militari italiani (guardiani del faro) fino al ’45, poi svuotata e DIMENTICATA e occupata da alcuni militari della Marina Jugoslava che nel 47 ne prese ufficialmente possesso, senza insediamenti civili.
Più vicina alla costa italiana che a quella croata.
Articolo di Paolo Rumiz e voce su Wikipedia