La “maturità” della scuola. Un secolo di esami di Stato tra letteratura, politica, e società/ 3
Pubblichiamo la terza parte di Un secolo di esami di Stato tra scuola, letteratura, politica, e società, un saggio sulla storia dell’esame di Stato dalla “riforma Gentile” ai nostri giorni scritto da Mario Ambel e Annamaria Palmieri. Ringraziamo vivamente l’autore e l’autrice che hanno voluto destinare in anteprima ai lettori di LN questo lavoro, importante per ampiezza, spessore, implicazioni e spunti di riflessione. La prima parte si può leggere qui e la seconda qui.
Parte terza. Il bisogno di cambiamento (1975-1997)
6. Gli anni Settanta-Ottanta e i “Nuovi Programmi per la scuola media”
Alla fine degli anni Settanta, il quadro è chiaro: non servono solo le riforme (degli esami), ma una riflessione sui saperi, ovvero programmi nuovi e metodologie rinnovate.
Nella scuola media inferiore, è evidente, è tempo di metter mano non più al “latino”, ma all’idea stessa del sapere da proporre alle nuove generazioni: lo sottolinea provocatoriamente Pier Paolo Pasolini, in una delle sue ultime incursioni critiche (“Corriere della Sera” del 18 ottobre del 1975), proponendo due grandi riforme in Italia: l’abolizione della TV e della scuola media!
“La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). (…) Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E’ questo il nodo della questione).[1]
La proposta swiftiana di Pasolini non avrà seguito, ma i tempi sono maturi per una riflessione più organica e complessiva: è quel che accadrà con la L.6 giugno 1977 (ministro il democristiano Franco Maria Malfatti), n. 348, e con i Programmi del 1979 (ministro il repubblicano Giovanni Spadolini), iniziative cui fortemente collabora anche l’allora Partito Comunista Italiano. Del resto la provocazione di Pasolini si concentrava contro il rischio che la scuola di massa producesse una massificazione piccolo-borghese della società italiana, figlia del consumismo incipiente. La fine degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo segnano la speranza di un profondo rinnovamento della scuola italiana, un rinnovamento che avrebbe dovuto scongiurare quel pericolo, ma che si è realizzato solo in minima parte, anche se in quegli anni sembravano essere non pochi i contesti in cui potesse attecchire.
Quello, a partire dal 1975, fu il tempo delle “10 Tesi per l’educazione linguistica democratica”, del lavoro di ricerca di associazioni come il Giscel, il Cidi e di una parte della cultura accademica più attenta ai problemi della scuola e dell’insegnamento (Raffaele Simone, Tullio De Mauro, Altieri Biagi) intorno a concetti -questi sì essenziali- come unità del sapere e interdisciplinarità, introdotti come tratti chiave della programmazione educativa. Le discipline smettono di essere cataloghi di nozioni finali e diventano strumenti per la crescita globale dell’individuo:
“se correttamente interpretate, tutte le discipline curriculari – sia pure in forme diverse – promuovono nell’allievo comportamenti cognitivi, gli propongono la soluzione di problemi, gli chiedono di produrre risultati verificabili, esigono che l’organizzazione concettuale e la verifica degli apprendimenti sono consolidate mediante linguaggi appropriati.
Nella loro differenziata specialità le discipline sono, dunque, strumento e occasione per uno sviluppo unitario, ma articolato e ricco, di funzioni, conoscenze, capacità e orientamenti, indispensabili alla maturazione di persone responsabili e in grado di compiere scelte.” [2]
E così, una volta tanto, è l’esame a discendere dalla riforma culturale e didattica e non viceversa: l’esame di terza media, che è stato in vigore inalterato fino al D.lgs 62 del 2017, affonda qui le sue radici e verrà definito nel 1981[3].
È assai curioso leggere, nel saggio di apertura di un volume miscellaneo scritto nel 1982 in occasione del varo dei nuovi esami della scuola media, queste parole di Maria Corda Costa e Aldo Visalberghi, due dei maggiori pedagogisti italiani del Novecento:
“Logica avrebbe voluto che fosse la Commissione per la riforma dei programmi a concludere anche sulla regolamentazione degli esami. Ma si ebbe allora da parte del Governo (assai infelicemente rappresentato nei lavori finali di quella Commissione) una netta risposta negativa a tale richiesta. Così oggi gli insegnanti e i presidi si trovano di fronte alla nuova normativa ( il D.M. è del 26 agosto 1981) a breve distanza dal momento in cui gli esami andranno organizzati nelle varie scuole.” [4]
Pare dunque un malvezzo storicamente attestato quello di emanare le norme per nuovi esami all’inizio dell’anno in cui dovranno essere applicati. Si tratta di una reiterata tendenza all’iniquità procedurale, che risponde a circostanze di natura esclusivamente politica. E che si ripropone anche per normative d’esame, come queste, sostanzialmente positive.
Al centro dell’innovazione, anche se sull’esame le indicazioni apparivano non sempre chiare e lineari, stava senz’altro la ricerca di un nuovo rapporto fra discipline e interdisciplinarità, all’insegna della “unità del sapere”, dell’operatività, infine “dell’operare in spirito di solidarietà con gli altri nella costruzione del bene comune”[5]. Temi, concetti e prospettive problematiche che, come vedremo, sono tutt’altro che superate. Anzi, se c’è stato un limite nella scuola degli anni che vengono dopo gli anni Ottanta, è proprio quello di non aver saputo mantenere queste promesse.
7. Il nuovo esame al tempo dell’autonomia
Che cosa è avvenuto, invece, nella scuola superiore? Qui il rinnovamento si manifesta attraverso la lunga fase delle sperimentazioni, cui porrà uno stop solo la riforma Moratti. Per una riforma organica le contrapposizioni politiche non consentono l’emergere di progetti complessivi e condivisi. Le sperimentazioni assistite, come i progetti Brocca (così detti dal nome del sottosegretario alla pubblica istruzione dal 1987 al 1992, Beniamino Brocca) introducevano innovazioni didattiche rilevanti, ma l’incapacità del Parlamento di portare a compimento una riforma organica va inquadrata anche nella crisi generale del sistema politico nato dalla Costituzione, che di lì a poco sarà spazzato via con la Prima Repubblica.
Il rinnovamento dell’esame però non può tardare, anche perché il contesto di riferimento sta evolvendo rapidamente: sarebbe lungo definire tutti i fattori di mutamento che si riverberano sul sistema, ma basti qui segnalare, da un lato, il confronto con i sistemi educativi europei che costringe a ripensare il sistema di conoscenze, competenze e valutazione in uscita dal curricolo scolastico, dall’altro, l’incidenza pesante della crisi degli investimenti pubblici che spinge verso il decentramento amministrativo e delle responsabilità. Si apre la stagione dell’autonomia (1997)[6] e con essa la riforma del Ministro Luigi Berlinguer, che ha inizio proprio con due provvedimenti, non soltanto simbolici: la revisione del programma di storia nel triennio superiore, con l’ “imposizione” dello studio del Novecento all’ultimo anno e la riforma dell’esame di maturità, denominato da allora “Esame di Stato”.
Come si vede siamo di fronte a interessanti corsi e ricorsi storici: oggi, nell’ambito dell’ennesimo intervento sugli esami finali, anche l’importanza della storia è messa in discussione in discussione, con l’abolizione, tra le altre novità, del tema storico all’esame.
Per un confronto numerico con il passato, nell’a.sc. 1998/99, anno in cui si avvia anche la riforma dell’esame di Stato, gli allievi dell’ultimo anno delle scuole superiori erano 477.206.[7] Che l’esame Sullo dopo trent’anni di provvisorietà andasse rivisto appare evidente e lo spiega, nel 1999, con chiarezza e onestà intellettuale, Tullio De Mauro, che non risparmia dure critiche all’esame stesso e alle sue conseguenze nefaste sulla scuola: un esame che avrebbe dovuto durare due anni in attesa della riforma delle superiori e invece durò trent’anni. E il giudizio di De Mauro su questi trent’anni è assai severo:
“Certo non tutto dipende da come sono fatti gli esami finali, ma non bisogna essere grandi pedagogisti per capire che se l’esame finale è una burletta, ciò finisce col retroagire sul corso anteriore degli studi. Si ha la fondata impressione che proprio questo sia successo. E negli anni in cui ragazze e ragazzi organizzano la mente e la persona, maturano le loro scelte di vita, per trent’anni è stata loro se non sbarrata, certo resa difficile la via d’accesso alle conoscenze storiche, critiche, scientifiche, alla conoscenza dei testi letterari e delle grandi opere d’arte, alla comprensione del metodo matematico e statistico, all’assimilazione del pensiero scientifico del mondo moderno.”[8]
Forse, più che l’esame, sull’inefficienza della scuola superiore e del suo mandato sociale hanno pesato riforme mai attuate e soprattutto il non avvenuto innalzamento dell’obbligo, ovvero il tentativo di fornire a tutti un ulteriore livello di crescita culturale e strumentale, che l’esame avrebbe poi potuto e dovuto verificare e sancire.
In quei trent’anni (1969-1999) si è consumata in realtà l’incapacità della scuola superiore di realizzare nei fatti quella dimensione di massa, che andava assumendo almeno formalmente nelle iscrizioni iniziali. L’elevato tasso di selezione e di bocciature nei primi anni (soprattutto negli istituti professionali) e i tassi eccessivi di dispersione scolastica, che caratterizzano gli ultimi decenni del secolo scorso, testimoniano di un sistema scolastico che più che di faciloneria ha peccato di inefficienza, soprattutto per la persistente mancanza di una adeguata formazione, iniziale e in itinere, degli insegnanti. Cosa che, almeno in parte, è proseguita anche dopo.
Il passo citato di De Mauro appartiene a una “guida del Mulino” del 1999 firmata con lo psicologo Paolo Legrenzi. Si tratta di una testimonianza importante per lo sviluppo del nostro excursus. Nel volume i due autori esplorano le novità introdotte dall’esame del 1999:
“Esso è il primo tentativo di arginare trent’anni di disattenzioni e malefatte. E propone a tutti, alla scuola, ai docenti, alle ragazze e ai ragazzi, l’occasione di uscire da una china pericolosa e di imboccare la via di una formazione medio superiore di livello europeo. È un’occasione che richiede uno sforzo di consapevolezza, attenzione e impegno nuovo.”[9]
Non va sottovalutata questa chiamata di corresponsabilità nel ridare serietà e prospettive all’esame e con esso alla scuola e all’istruzione superiore. È tipica della lettura che una parte della scuola tentò di dare alla stessa “autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo”, che era stata attribuita alla scuola dal Regolamento (DPR 275/1999) e che pure nasceva anche o soprattutto su altre pressioni e istanze che ebbero poi nel tempo la prevalenza.
A proposito di tempistiche normative, è significativo ricordare che gli autori, ancor prima di addentrarsi nell’esposizione delle novità introdotte dall’esame, ribadiscono che
“La legge, i decreti del ministro, i regolamenti, le istruzioni date dal ministero della Pubblica istruzione a provveditori e presidi raccomandano e specificano che il nuovo esame debba entrare in vigore gradualmente.” [neretto nel testo, NdR].
Una prassi non usuale, ancorché ovvia, che ci piace sottolineare.
Qualche mese dopo la pubblicazione del volume citato, Tullio De Mauro, nel frattempo diventato Ministro, scrive la “Introduzione” di un altro volumetto sugli esami.[10] Nelle sue parole, la critica mossa al precedente trentennio di inerzia e agli effetti nefasti della facilitazione dell’esame del ‘69 si mescolano con le speranze nelle novità introdotte dall’esame: la rinata considerazione dell’importanza dell’intero curricolo scolastico, il coinvolgimento di tutte le discipline, appunto la certificazione delle competenze, il ruolo di stimolo della “valutazione in itinere” intesa in quanto ricerca a sostegno e orientamento delle scelte politiche ed è inevitabile che queste novità vengano inquadrate nella introduzione dell’autonomia delle scuole, che di quel panorama intendeva rappresentare la cornice e la vera scommessa politica:
“Ci vorrà del tempo perché gli effetti positivi, che già sono sensibili, correggano trent’anni di incuria; ma il cammino è cominciato. E il nuovo esame di Stato si inserisce come fattore strategico nell’imponente processo di riforma che questa legislatura ha messo in atto per darei, finalmente, una scuola al cui centro non stia più l’astratto rispetto formale di programmi centralistici, ma la qualità effettiva dei processi di apprendimento, la verifica di tale qualità e l’autonoma capacità dei docenti nel promuoverla e farla raggiungere nelle diverse realtà ambientali del Paese. Il nuovo esame di Stato è l’alba di questo rinnovamento profondo che la scuola italiana si accinge a vivere.”[11]
In realtà, vent’anni dopo, dobbiamo amaramente constatare che la società e la scuola italiana non hanno saputo dar seguito a quelle ipotesi di rinnovamento. Dell’autonomia scolastica hanno spesso avuto seguito, più che la scommessa culturale, le origini burocratico-amministrative e le distorsioni competitive e pseudo-aziendaliste. Di quelle speranze è rimasta attiva forse solo l’ansia, alla fine diventata patologica, di “verificare la qualità”. Il resto si è andato disperdendo in mille rivoli: anzi, gli ultimi anni segnano un ritorno al neocentralismo ministeriale, che non si esprime più nei vincoli programmatici e prescrittivi (ormai i “programmi” sono stabilmente sostituiti dalle “indicazioni”), ma nell’azione, talvolta diretta, altre volte surrettizia, dell’amministrazione centrale e periferica, che spesso rinuncia al suo compito di garanzia e controllo (ceduto di fatto alle sole prove Invalsi!) per assumere quello di orientamento e indirizzo didattico, che forse assai meno le compete. Nello stesso tempo, le pratiche di gestione dell’autonomia hanno spesso premiato logiche competitive, che hanno finito purtroppo col confermare a posteriori le critiche di chi aveva visto fin da subito nell’autonomia una eccessiva concessione a logiche neoliberiste.[12]
Si è in parte smarrita (ma neppure è stata favorita e sostenuta) proprio l’applicazione di quel concetto di “responsabilità” (culturale, etica e politica) prima richiamato, che era quello su cui si fondavano le speranze di un’ autonomia della responsabilità e della cooperazione contro l’autonomia della competitività, della privatizzazione e della omologazione culturale. E quanto sia stato infelice perdere quella battaglia, lo capiamo ora che dovremmo fare l’ulteriore salto verso l’autonomia dell’inclusione e dell’integrazione o forse ancor meglio (e finalmente) della emancipazione individuale e collettiva dei vecchi e nuovi emarginati e ci ritroviamo a dover contrastare la deriva di atteggiamenti oltranzisti e aggressivi.
Benedetto Vertecchi, nello stesso volume di De Mauro, introduce un altro tema di estremo interesse per il nostro discorso: l’effettiva rilevanza dell’esame come chiave di accesso al futuro individuale e collettivo degli allievi, in un contesto economico e sociale in cui ha perso forza e significato quell’idea di snodo fra istruzione e vita, che rischia di apparire ormai vanificato dalla fine del lavoro stabile e duraturo e dalla conseguente necessità dall’apprendimento per tutta la vita. In un contesto, peraltro, in cui si affaccia minaccioso un altro pericolo: l’analfabetismo funzionale di ritorno anche per chi sia stato parzialmente scolarizzato, tema su cui Benedetto Vertecchi è tornato più volte a sollecitare l’attenzione della scuola e della politica:
“Gli esami di Stato non possono più essere identificati come il momento terminale di una procedura di cooptazione, e superarli non comporta di per sé alcuna mobilità sociale ascendente. […] si deve concludere che la scelta sociale è a favore di un’opportunità aperta d’istruzione e che pertanto il criterio valutativo non può essere quello della cooptazione, ma quello della certificazione – che, teoricamente, potrebbe riguardare l’intera leva di popolazione – del possesso di un repertorio esplicitamente dichiarato di competenze.
Un esame di Stato va visto perciò nella sua funzionalità rispetto ad un percorso di formazione non più limitato da un punto di vista sociale. Quel che emerge con crescente evidenza è che non si tratta più neanche di un termine ad quem, capace di per sé di segnare il profilo culturale o il destino professionale degli allievi.[13]
[1] Cfr. Pier Paolo Pasolini, “Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia”, su Il Corriere della Sera, 18 ottobre 1975; ora in Lettere Luterane, Garzanti, Milano, 1976, pp. 182-188.
[2] D.M. 6 febbraio 1979, “Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale “, IV Parte, art. 1. – “L’unità dell’educazione”.
[3] Cfr. D.M. 26 agosto 1981, “ Criteri orientativi per le prove d’esame di Stato per il conseguimento del diploma di Licenza media e modalità di svolgimento delle medesime”.
[4] Cfr. Maria Corda Costa e Aldo Visalberghi, “Prima valutazione d’insieme”, in AA. VV., a cura di Benedetto Vertecchi, Scuola media ed esami di licenza, la Nuova Italia editrice, 1982. Il volume, uscito ne “La nuova scuola media”, “Collana di pedagogia e di didattica per gli insegnanti diretta da Aldo Visalberghi e Maria Corda Costa”, contiene saggi dedicati alle diverse fasi del nuovo esame e al ruolo delle singole discipline con particolare attenzione all’interdisciplinarità.
[5] D.M. 6 febbraio 1979, “Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale “, IV Parte, art. 5. – “La socializzazione”.
[6] L’attribuzione dell’autonomia alle istituzioni scolastiche avviene con la Legge 15 marzo 1997, n.59, “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”.
[7] Le risorse finanziarie stanziate per il funzionamento delle commissioni 313 miliardi di lire. È significativo che vent’anni dopo, nell’anno scolastico 2018/19 gli allievi iscritti all’ultimo anno saranno poco più di 469 mila.
[8] Tullio De Mauro e Paolo Legrenzi, Il nuovo esame di maturità, Il Mulino, Bologna, 1999.
[9] Ibidem.
[10] AA.VV., L’esame di Stato, “Quaderni Iter”, Treccani, n. 4, maggio-agosto 2000. Si noti il cambiamento del titolo stesso dei due volumetti: l’oggetto, da esame di maturità è diventato esame di Stato: la dicitura infatti cambia con le norme di quegli anni.
[11] Ibidem.
[12] È sintomatico, per esempio, che l’intenzione di salvaguardare i diritti e la preparazione del candidato sia espressa con un termine assurto a simbolo, secondo alcuni, della deriva economicistica che avrebbe poi assunto parte della scuola dell’autonomia: i “crediti; accanto compare un altro discusso nodo problematico: il rilascio, accanto al “voto conseguito”, di “una certificazione analitica delle competenze raggiunte”. ” Si rammenta che contro la terminologia aziendalista, che cominciò a invadere e inquinare la scuola di quegli anni, si scagliarono immediatamente intellettuali anche moderati e sindacalismo di base.
[13] Cfr. Benedetto Vertecchi, “Stile degli esami e immagine della scuola”, in AA. VV. op. cit.
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