Sì, è davvero la buona battaglia. Sull’ultimo libro di Claudio Giunta
1. L’istruzione umanistica «non serve»?
Nell’Epilogo che dà il titolo al suo libro, E se non fosse la buona battaglia?,[i] e ne compendia le tesi centrali, Claudio Giunta traccia un quadro del clima attuale, poco propizio alla cultura umanistica:
La crisi che attraversiamo oggi non è tanto un fatto di quantità (un po’ meno di latino e greco nei curriculum della classe dirigente, una sua minore famigliarità con la musica classica eccetera) quanto un fatto di qualità, cioè un vero e proprio mutamento di paradigma tanto in ciò che la generalità delle persone ritiene sia oggi una formazione culturale adeguata ai tempi quanto nel campo dei consumi culturali: la scomparsa della poesia anche dai radar dei letterati, la sostituzione del pop alla musica classica anche nell’orizzonte del pubblico acculturato, il primato delle lingue moderne sulle lingue classiche, delle scienze applicate su quelle teoriche, delle materie tecniche come l’economia e la giurisprudenza sulle discipline speculative, l’oggettivamente scarsa presenza della cultura umanistica tra i membri dell’élite politico-economica, una lacuna che non sembra aver ostacolato la loro marcia verso il successo («Non leggo» stava scritto nel profilo di Mark Zuckerberg: ma Zuckerberg, oltre a essersi inventato Facebook, parla cinese), e infine, da parte di questa élite, una generale sfiducia nei confronti di qualsiasi formazione scolastica che abbia come principale campo d’indagine il passato anziché il futuro.
E in base a queste considerazioni conclude:
Se questa è l’aria del tempo, ed è certamente questa, diventa difficile sostenere che il modo migliore per starci dentro sia spendere gli anni della propria formazione studiando le belle arti o le belle idee del passato. E ai paladini dell’utilità dell’inutile bisognerebbe far presente che la cultura umanistica che non serve un tempo serviva eccome, non perché avesse alcuna reale applicazione pratica ma perché valeva come metonimia. Chi la padroneggiava, chi aveva avuto la possibilità di sfiorare per alcuni anni della propria vita le lingue classiche, l’arte, la filosofia, disponeva di un capitale culturale che gli permetteva di consolidare il proprio privilegio o di progredire rispetto alla propria classe di origine. […]
Tutto questo però cessa di essere vero in un mondo del lavoro nel quale le competenze tecniche settoriali risultano più spendibili della cultura generale e, soprattutto, in un mondo in cui il numero dei laureati eccede spesso la domanda proprio nei settori degli umanisti.
La situazione di fatto è certo questa, e Giunta in materia non scopre nulla di inedito. Ma non è affatto detto che uno debba accettarla e adeguarvisi supinamente: c’è sempre la possibilità di opporsi, rifiutarla, lottare con tutti i mezzi per cambiarla. Per Giunta invece è scontato che si debba «starci dentro»: non contempla neppure l’ipotesi che si possa anche non arrendersi e non omologarsi.[ii] D’altronde, poche pagine prima, ironizzava sul «Grande Rifiuto» da lui stesso vagheggiato negli anni della sprovvedutezza giovanile. Evidentemente nell’attuale situazione ci si trova benissimo. Difatti confessa apertamente: «A me l’economia di mercato andava (e va) benissimo»: più chiaro di così. Comunque, bisogna riconoscergli una coerenza.
Dal quadro tracciato da Giunta dell’«aria del tempo», oltre all’accettazione passiva della datità dell’esistente, in totale sintonia con quell’«aria» spira un malcelato senso di sufficienza per chi, invece di adeguarsi saggiamente al presente, vivendo fuori della realtà ritiene ancora essenziale lo studio del passato, inutile per l’affermazione e il successo, considerati evidentemente il valore supremo, che fa premio su qualunque altro. Al contrario dovrebbe essere chiaro a tutti che la rinuncia a far proprio il patrimonio del passato implica uno spaventoso impoverimento di umanità: crea esseri piatti e vuoti, hollow men incapaci di capire il presente in cui vivono, privi di strumenti per analizzarlo, quindi di rifiutare quanto di negativo li opprime, nonostante la loro eventuale beata incoscienza, docilmente disponibili a essere manipolati ed eterodiretti come automi. Una società in cui dominano solo l’efficienza pratica e gli interessi della produzione, in cui la cultura e l’istruzione sono al servizio di quegli interessi, è agghiacciante, per chi abbia un minimo senso della dignità umana, del valore della persona, della sua libertà interiore ed esteriore. È il pericolo lucidamente indicato dall’ottimo libro di Martha Nussbaum, Non per profitto, un’analisi molto lucida e incisiva della realtà attuale, che non a caso Giunta liquida con un giudizio sommario e sprezzante («Il favore con cui questo libro pieno di retorica e buoni sentimenti è stato accolto da molti non mi pare un buon segno»).
Giunta ripete poi la solita solfa, degna dei luoghi comuni più triti delle conversazioni da bar o da sala d’aspetto, della cultura umanistica che oggi è «inutile», «non serve», mentre un tempo serviva solo come segno di un privilegio di classe posseduto o da conquistare. Per lui “servire” sembra avere solo il più banale senso dell’utilità pratica: a quanto pare non lo sfiora l’idea di un “servire” diverso e più profondo, indirizzato alla formazione intellettuale e umana complessiva, alla conquista della capacità di organizzazione logica del pensiero e del discorso, all’acquisizione del patrimonio culturale del passato, indispensabile, come si diceva, a un’autentica integrità della persona.
In un mondo dominato dal principio dell’efficienza produttiva e del profitto, a cui tutto deve essere subordinato e finalizzato, l’istruzione umanistica nella scuola media inferiore e superiore serve proprio a salvaguardare la sopravvivenza del patrimonio del passato, per formare quindi individui non passivamente disponibili ad adeguarsi alla realtà di fatto, capaci di elaborare un pensiero libero e originale, di leggere criticamente la realtà, di capire quanto sia negativa e di provare l’impulso ad opporvisi. Il compito di tenere in vita questo spirito critico spetta agli intellettuali, e in primo luogo a coloro che fanno la professione d’insegnanti di materie umanistiche. I quali sono ben altro che individui pateticamente inutili e parassitari, come pensano gli apologeti del presente, e le loro analisi critiche della realtà attuale sono tutt’altro che «piagnistei», come li qualifica con la consueta supponenza sprezzante il Giunta: il loro è un compito sociale e civile di vitale importanza. Parassiti del sistema economico e sociale vigente sono semmai gli intellettuali che abdicano a tale compito critico, si riducono al ruolo di servi (sciocchi o astuti che siano) del sistema, in cui si trovano benissimo. Tempo fa Antonio La Penna usò per essi l’espressione «intellettuali saprofiti»: i saprofiti sono organismi che vivono e prosperano felicemente nelle sostanze organiche in decomposizione, cioè nel marciume immondo.
2. La necessità del cambiamento
Il professor Giunta passa poi a esaminare la funzione delle materie umanistiche nella scuola attuale, e nota che le scelte culturali in atto sono ancora quelle fatte «in un’epoca nella quale si illuminavano le case con le candele, e alle scuole superiori accedeva una frazione minima dei cittadini italiani». Non si è riequilibrata l’istruzione umanistica tradizionale sulle esigenze di una scuola di massa, «riformando i programmi e riducendoli a una misura più ragionevole». Cioè si può intendere: visto che alla scuola di massa accedono i ceti inferiori prima esclusi, riducendo i programmi bisogna dar loro un’istruzione di livello inferiore. A una simile idea è necessario ribattere che il problema è proprio l’opposto, adattare sì la scuola alle nuove esigenze, elaborando forme nuove di cultura e nuovi metodi della sua trasmissione, ma salvando la qualità, conservando un livello alto: altrimenti si compie un’operazione squisitamente reazionaria, privando i ceti inferiori di ciò a cui hanno diritto, al momento in cui entrano in scuola, e compiendo una truffa ai loro danni. Che è poi quello che di fatto è avvenuto nello sviluppo della scuola di massa, dall’istituzione della media unica in avanti; solo che non si è fatto apertamente: come Giunta stesso riconosce, «si è preferito silenziosamente esautorare quell’istituzione tradizionale attraverso la gragnuola dei “progetti”, delle attività extrascolastiche svolte all’interno del tempo scuola, rendendola nei fatti impossibile».
Il rifiuto del cambiamento, prosegue Giunta, sarebbe giustificato se si dessero due condizioni: che il mondo fuori della scuola fosse simile a quello di ieri, e che il sistema educativo desse risultati soddisfacenti. Passa quindi a esaminare il primo punto, e nota che gli insegnanti «percepiscono una sconnessione ormai troppo profonda tra ciò che si trova nei libri di testo e gli interessi di ragazzi soggetti a tutt’altre forme di comunicazione e dediti a tutt’altri consumi culturali». È un problema effettivamente molto sentito dagli insegnanti, quello di motivare i loro allievi a studiare le materie umanistiche. Giunta così delinea il quadro:
Fino a qualche decennio fa, per i giovani, non esisteva quasi una cultura alternativa a quella scolastica. Una frazione della popolazione studentesca completava, nel pomeriggio, l’acculturazione che era cominciata la mattina a scuola con i libri, il cineforum, il teatro, le buone conversazioni. Tutti gli altri non facevano niente. Oggi questi “altri” hanno una vita culturale o sottoculturale che passa attraverso la TV e la rete: hanno una scelta. Se vogliamo che questa facoltà di scelta si affini, per tutti e non solo per i predestinati, bisogna pensare allora a un’istruzione umanistica più orientata sul presente, o che perlomeno non cerchi di instillare negli studenti – come accade – la diffidenza nei confronti di tutto ciò che è contemporaneo o, peggio, nei confronti di tutta la realtà che non si conforma all’Ideale rispecchiato dai libri.
Certamente la scuola deve tenere conto della realtà in cui vivono gli studenti e della loro peculiare vita culturale e sottoculturale, deve partire da essa se non vuole condannarsi a un’incomunicabilità che le impedirebbe di svolgere la sua funzione, e certamente deve fare i conti con il presente: ma al tempo stesso non deve fermarsi a quel livello, deve salire a livelli differenti. Se il suo compito è essenzialmente educare ad accostarsi criticamente al presente, fornire gli strumenti per leggerlo a fondo, a questo fine è necessario anche prendere le distanze da esso, non immergersi totalmente e inconsapevolmente nel «vierge», «vivace» e «bel aujourd’hui»; cioè la funzione dell’insegnamento è proprio quella di instillare una forma di “diffidenza” (si cerchi di capire bene il senso della parola) verso ciò che è contemporaneo, premessa indispensabile per ogni distacco critico, e non c’è modo migliore che il confronto con le realtà diverse del passato, che danno il senso chiaro del divenire, della trasformazione incessante della storia e della possibile esistenza di altri modi di vivere e di pensare. Allo stesso modo partire dalle culture giovanili non vuol dire appiattirsi su di esse, rafforzando così negli allievi l’idea che siano le uniche possibili, ma usarle come trampolino per un balzo in altre dimensioni, quelle della cultura senza aggettivi. E per far questo è di nuovo necessario creare un distacco, cioè un po’ di “diffidenza”, e contrapporre a quella vita culturale proprio l’ “ideale” (con l’iniziale minuscola), cioè il patrimonio contenuto nei libri. E si deve suscitare nei giovani la voglia di leggerne il più possibile, di libri, non solo di leggere i messaggi whatsApp e twitter, i post su Facebook, di immergersi nei videogiochi, di ascoltare musica nelle cuffie. Altrimenti la scuola verrebbe meno alla sua funzione culturale e civile, che è in primo luogo, non mi stancherò mai di ribadirlo, quella di formare cittadini che pensino con la propria testa.
Giunta guarda con sufficienza i docenti che, percependo la distanza fra ciò che insegnano a scuola e ciò a cui il mondo sembra attribuire valore, «si sentono chiamati non a insegnare una disciplina meglio che possono ma a combattere per una causa». Si sentono, prosegue con caustica ironia, come «dei benedettini che nell’Alto Medioevo si chiudono nei monasteri e copiano i manoscritti antichi mentre fuori i barbari mettono a ferro e fuoco l’Europa. Allo stesso modo, nel nuovo Medioevo in cui tutti noi oggi vivremmo, gli insegnanti terrebbero accesa la fiaccola del vero sapere mentre fuori la TV e internet istupidirebbero le masse». I condizionali usati da Giunta sono impagabili. E il discorso continua: «Dopodiché, per trovare il nome dei nemici non c’è che l’imbarazzo della scelta: i non-libri di Fabio Volo, i rapper, l’Accademia di Svezia che assegna il Nobel a Bob Dylan anziché ai poeti». Direi che c’è poco da fare dell’ironia, in un tempo in cui l’Europa è percorsa davvero da un vento di barbarie, con la diffusione dei neonazionalismi e dei neonazifascismi, delle xenofobie e dei razzismi, e dal lato opposto con la follia dell’integralismo islamico terrorista; un tempo in cui la libertà di pensiero e lo spirito critico sono conculcati dallo strapotere della televisione, della pubblicità, dei social networks pullulanti di fake news (cioè panzane, frottole, fandonie), che le masse bevono allegramente, o dai deliri farneticanti degli haters, dei complottisti e dei novax; un tempo in cui la propaganda politica spudorata e menzognera si serve, oltre che dei mezzi tradizionali, proprio dei nuovi mezzi digitali per manipolare l’elettorato; un mondo in cui la finanza internazionale gioca indifferente con il destino di milioni di persone, in cui le multinazionali spadroneggiano incontrastate, in cui l’inquinamento ha raggiunto livelli da brivido per l’irresponsabilità delle industrie e dei singoli (con un presidente USA che ottusamente nega il riscaldamento globale, contro ogni evidenza scientifica). In questo panorama cupo e inquietante gli insegnanti possono essere davvero come i benedettini che tengono accesa «la fiaccola del vero sapere», cioè fuor di ogni inopportuna ironia sono chiamati a svolgere pazientemente il loro compito di insegnare a pensare e a ragionare nel trionfo dell’irragione. Con la differenza che i “chierici” oggi non devono chiudersi nei monasteri ma aprirsi, inserirsi con ogni mezzo nella dialettica sociale.
Ma già, bisogna ricordare che in questo angoscioso panorama Giunta, novello Pangloss, vive «benissimo», evidentemente non vi scorge nulla di negativo. Tutto va nel migliore dei modi, nel migliore dei mondi possibili, non c’è proprio da farsi il sangue cattivo mettendosi a criticare tutto e tutti. Si vede che a Giunta piacciono la Tv e internet spazzatura, che non «istupidiscono» affatto «le masse», apprezza «i non-libri di Fabio Volo», il cibo che solum è suo, ama «i rapper», plaude all’Accademia di Svezia che assegna il Nobel a Bob Dylan, per cui naturalmente ritiene «scentrata» l’«analisi del presente» condotta dagli ipercritici apocalittici. Giunta certamente ha letto i francofortesi e il Pasolini “corsaro” (è docente universitario di letteratura italiana): sarebbe bene che li rileggesse e li meditasse a lungo. Il rifiuto di omologarsi a questo presente non è solo «frustrato bisogno di riconoscimento» da parte di intellettuali impotenti, come pretende Giunta, citando un’analisi mediocremente riduttiva di Richard Rorty («La nostra sete di visioni romantiche della storia universale e di teorie profonde sulle cause profonde del mutamento sociale è stata forse generata dalla nostra preoccupazione per le sofferenze umane? Oppure era, magari in parte, sete per un ruolo importante per noi stessi?»),[iii] ma un giusto e doveroso atteggiamento dinanzi a una realtà infame, atteggiamento che risponde a un’essenziale funzione storica degli intellettuali, avvertita dai più coscienti e onesti, dai meno disponibili ad asservirsi alla situazione data. Per cui alla domanda enunciata dal titolo del libro e ripresa in questo Epilogo si può rispondere risolutamente: sì, è davvero la buona battaglia.
A proposito degli insegnanti che credono di «combattere per una causa» Giunta osserva che non si dà combattimento che non sia contro qualcuno, contro un nemico. Effettivamente la sottocultura giovanile che trova alimento nella rete per certi aspetti è un nemico da combattere, per chi ha a cuore le sorti dell’intelligenza e della cultura. Contro la sconnessione fra gli interessi dei ragazzi e ciò che si trova nei libri di testo occorre che la scuola combatta per vari motivi: prima di tutto, naturalmente, per cercare di riguadagnare gli allievi all’interesse per il mondo della cultura, vale a dire per il passato e il suo patrimonio, che è una ricchezza che sarebbe terribile perdere, proprio per la completezza umana della persona. In secondo luogo la cultura umanistica può servire da terapia per gli effetti negativi prodotti da un dominio totalizzante del digitale: oggi l’uso costante e intensivo della rete e degli strumenti digitali, tipico dei giovani, induce a saltare rapidamente da un’informazione all’altra, tra loro non collegate, o a scrivere testi brevissimi, tweet e messaggi, e quindi abitua a pensare per semplice addizione, non per deduzione logica, spinge alla frammentarietà e alla casualità del pensiero, compromettendo l’organicità, la consequenzialità e la sistematicità del suo funzionamento. Per contro l’indugio critico sui testi latini, greci, dei classici italiani e su quelli dei filosofi, o la riflessione critica sui fatti storici, insegnano proprio l’organicità, la consequenzialità, la sistematicità. In terzo luogo l’immersione troppo assorbente nei social media isola i ragazzi dalla vita reale, li chiude in un mondo a parte, largamente fittizio, e spegne altri interessi vitali, che possono essere i rapporti con i libri come quelli diretti con le persone in carne e ossa: lo studio delle materie umanistiche può contribuire a disintossicarli da questa sorta di dipendenza, rimettendoli a contatto con il mondo reale; perché nei libri vive il mondo reale, se si è capaci di trovarvelo, cioè se l’insegnante è così bravo da mettere gli allievi in grado di trovarlo. L’idea che vi sia un abisso tra i libri e il mondo reale è una sciocchezza, che può dire solo chi non li sa leggere.
Secondo Giunta, oltre a essere «scentrata come analisi», un’opposizione critica agli aspetti più turpi dell’esistente «porta a confondere l’acculturazione con l’edificazione morale, le lezioni con le prediche». E qui veramente il Nostro, con queste definizioni rozze e riduttive, dimostra di non aver capito nulla della funzione critica, di opposizione al negativo, che è propria della scuola e del professore-intellettuale. Educare i giovani al rapporto critico con il presente non ha nulla a che vedere con l’«edificazione morale» e con le «prediche». Anzi, proprio le prediche e la pretesa edificazione sarebbero controproducenti e dannose, poiché offenderebbero e ottunderebbero il senso critico attraverso un’imposizione dall’alto di contenuti e valori già prestabiliti. Educare al senso critico è tutt’altra cosa, e meraviglia che un dotto docente non ci arrivi, è un lavoro maieutico per abituare i giovani a pensare con la propria testa, attraverso un autonomo e libero percorso di presa di coscienza; non consiste nel “predicare” certezze, ma nel seminare dubbi e inquietudini, nel suscitare problemi di cui i giovani stessi devono trovare le soluzioni. Quella di Giunta è una visione caricaturale del lavoro dell’insegnante nella scuola superiore, di cui evidentemente conosce poco (ma i problemi non dovrebbero essere analoghi all’università?).
Penosa e al tempo stesso esilarante è quindi la serie di esempi che il docente propone di questa edificante “predicazione”:
Non lo studio bensì la difesa retorica e moralistica della Costituzione nelle ore di «Cittadinanza e Costituzione»; di qui lo studio della storia come collezione di exempla dei quali si invitano gli studenti ad apprezzare il significato morale; di qui anche, nello studio della letteratura, la preferenza per la poesia “buona”, per i romanzi e i saggi che abbiano un contenuto edificante o nobilmente civile: Se questo è un uomo di Levi e, in Se questo è un uomo, la pagina dolciastra e artefatta sul canto XXVI dell’Inferno recitato ad Auschwitz, l’ultima pagina delle Città invisibili di Calvino; e poi, da Gomorra in giù, qualsiasi libro che contenga un messaggio virtuoso riassumibile in cinque righe: che è quasi la definizione di ciò che un libro non dovrebbe essere.
Ma quando mai! C’è da chiedersi come Giunta si sia fatta una simile idea ridicola della scuola. Lo studio della Costituzione punta a mettere in rilievo i principi fondamentali su cui si regge la convivenza civile, perché i giovani vi si possano inserire in modo maturo, e a far capire l’organizzazione dello Stato, le sue regole e il suo funzionamento, in vista del fatto che i ragazzi voteranno o già, negli ultimi anni, possono votare, altro che «difesa retorica e moralistica»: quella è semmai dei politici nei discorsi ufficiali. Ancor più ridicola è l’idea di un insegnamento della storia come collezione di exempla di cui si devono apprezzare i significati morali: un simile insegnamento era semmai quello impartito nelle scuole religiose dei secoli passati; in quelle di oggi si insegna ad analizzare criticamente, sulla base dei documenti e delle varie interpretazioni, le forze politiche, sociali, economiche, ideologiche che operano nel corso storico, e i processi per cui hanno portato al presente. Giunta dovrebbe aggiornarsi un poco: ha mai esaminato qualcuno dei manuali di storia oggi più diffusi e più usati?
E per quanto riguarda la letteratura, altro che poesia “buona” e romanzi di contenuto edificante: l’unico criterio che guida le scelte dei testi da leggere è il valore, che in buona parte dei casi coincide, proprio al contrario, con scelte di opposizione e di rifiuto da parte degli scrittori, che danno vita a opere stimolanti, inquietanti, che inducono a pensare e ad assumere una prospettiva sulla realtà diversa da quella comune, a smontare certezze acquisite. Ha idea Giunta di come oggi si presentino Leopardi, Verga, persino Pascoli? Non il Pascoli “buono” e “fanciullesco”, ma il Pascoli torbido e inquieto, che sa portare alla luce l’«oscuro tumulto» che si agita nella psiche moderna. Ma anche i poeti novecenteschi più letti a scuola, Ungaretti e Montale, fanno di tutto tranne che poesia “buona”. Di nuovo Giunta scambia la scuola attuale con le scuole dei preti del Sette e Ottocento. Anche in questo caso ha idea di come sono impostati i testi di letteratura italiana più usati nelle scuole? E poi definire Se questo è un uomo opera edificante è un grave infortunio interpretativo: l’opera di Primo Levi è un’analisi lucidissima, di scientifica, spietata precisione sociologica e antropologica, delle leggi che regolano l’universo concentrazionario, congegnato per distruggere l’uomo; un’opera che quindi risulta preziosa proprio nella direzione dello stimolo ad assumere una coscienza critica, su cui si insisteva. E qualificare come «dolciastro e artefatto» l’episodio del canto di Ulisse genera seri dubbi sulla sensibilità di Giunta come critico (ma forse in tal caso gioca solo a fare il Franti della classe). Anche l’ultima pagina delle Città invisibili è tutto tranne che edificante: anche in questo caso è un lucido stimolo ad assumere un atteggiamento critico verso il negativo dell’esistente. Ma già, scordavamo che è ciò che dà fastidio al panglossismo di Giunta. Persino Gomorra, con tutte le riserve che sono doverose sul suo valore letterario, non pare proprio edificante e nobilmente civile, è un reportage agghiacciante su una realtà nota solo approssimativamente. Esaminando gli esempi proposti da Giunta, appare che non è affatto vero che la scuola offra «un ideale consolatorio e terapeutico». In alternativa a queste letture Giunta propone «scrittori grandissimi ma pieni di dubbi e di ironia» come Savinio, Flaiano, Brancati, perché «senza messaggio». Sono indubbiamente scrittori molto interessanti e stimolanti, ma sul «grandissimi» avrei dei dubbi: e purtroppo la scuola, con la sua penuria di tempo, non può concedersi lussi. E anche sul fatto che siano «senza messaggio» ho forti dubbi: esistono opere di valore davvero senza messaggio? E perché avere un messaggio sarebbe un disvalore? Allora la Commedia?
A chiudere l’esame del primo punto proposto, il rapporto fra la scuola e il mondo di fuori, Giunta afferma:
L’educazione estetica, che in altre epoche mirava a formare il buon cristiano e il fervido patriota, mira oggi – spesso senza saperlo, obbedendo all’aria del tempo più che alle indicazioni ministeriali – a formare il cittadino virtuoso e benpensante; mentre non dovrebbe essere né più né meno che educazione estetica wertfrei.
A parte che la formazione del «cittadino virtuoso» non è poi un obiettivo così da disprezzare (a meno che Giunta non apprezzi l’evasore fiscale, il concussore e il corruttore, lo stalker, lo stupratore, il ginecocida, il truffatore dell’assicurazione, il picchiatore di immigrati, il killer mafioso e via dicendo), è ovvio che il compito principale dell’istruzione umanistica non è l’educazione alla virtù, secondo l’immagine al solito caricaturale offerta dal Nostro, ma formare il cittadino critico, come ho già ribadito fin troppe volte. Per Giunta invece l’educazione estetica dovrebbe essere del tutto wertfrei, svincolata da ogni sistema di valori e quindi da ogni funzione allotria, dovrebbe puntare solo a far gustare la bellezza nella sua assoluta purezza, libera da ogni legame con l’impura e contaminatrice sfera della realtà pratica. Duole comunicarlo a Giunta, ma nessuna manifestazione artistica, e tanto meno la letteratura, si può mai staccare del tutto dalla realtà materiale che sta alla sua base, alla quale è legata da mille fili, tramite il suo creatore, il quale è un essere sociale che nella realtà pratica è inscindibilmente immerso. Quindi accostarsi alla letteratura, nella ricerca e nell’insegnamento, senza tener conto di questi legami infligge all’opera una forma di mutilazione, induce a una sua lettura parziale e incompleta, incapace di dare ragione della molteplicità dei suoi livelli di senso. Senza contare che si priva l’opera letteraria delle sue feconde possibilità didattiche ed educative, perché senza portare alla luce i rapporti con la realtà ad essa esterna è impossibile quella formazione dello spirito critico a cui si deve tendere. L’idea di educazione puramente estetica di Giunta tradisce il suo debito nei confronti di uno stantio crocianesimo, se non di una forma di estetismo, che rimandano a una scuola ormai felicemente scomparsa. Sorprende allora trovare una concezione così passatista nell’implacabile accusatore del carattere obsoleto dell’istruzione umanistica tradizionale, della sconnessione tra la vecchia scuola e la nuova realtà vissuta dai giovani. Senza contare la contraddizione che nasce tra questa apologia di un’educazione puramente estetica e la svalutazione della cultura umanistica «che non serve» alla pratica.
Giunta passa poi al secondo dei punti da lui enunciati, i risultati attuali dell’istruzione umanistica. Il quadro che traccia è ineccepibile, e naturalmente sconfortante. Anche il quadro offerto dell’università, che il docente conosce meglio, e in particolare degli studi letterari, non è contestabile ed è egualmente negativo. Ma dopo aver dimostrato con tutti gli argomenti che non vi sono remore al cambiamento, il discorso resta sospeso e inconcluso. Ci si sarebbe aspettata qualche indicazione su come l’educazione umanistica andrebbe cambiata, per ridarle un senso e una funzione, su quale sia il suo futuro, come promette il sottotitolo del libro, Sul futuro dell’istruzione umanistica. Concediamo che sarebbe un discorso estremamente difficile, complesso e impegnativo, ma dopo tanto impegno nella pars destruens, dopo aver demolito con tanto accanimento l’edificio dell’istruzione umanistica attuale, qualche indicazione anche sommaria sulla direzione che dovrebbe assumere la sua riforma sarebbe stata doverosa.
[i] C. Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, il Mulino, Bologna 2017.
[ii] Su una mentalità del genere Raimo, nel suo Tutti i banchi sono uguali (Einaudi, 2017), ha considerazioni incisive: «Si cerca di validare l’idea che siano i ragazzi stessi a esprimere un’ideologia aziendalista. Quando si legge che i ragazzi vogliono imparare il problem solving e le soft skill, ci si è già arresi al fatto che le nuove generazioni non potranno modificare in nulla il mondo che si trovano davanti e che il valore più grande che gli si possa trasmettere è l’adattabilità» (p.133). Osserva poi che l’alternanza scuola-lavoro «fa crescere nei ragazzi solo la coscienza della necessità di adattarsi al mondo del lavoro, eliminando qualunque consapevolezza e spirito critico» (ivi, p. 135).
[iii] R. Rorty, Verità e progresso. Scritti filosofici, trad. it. Feltrinelli, Milano 2003, p. 213.
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