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diretto da Romano Luperini

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Tra pedagogia e disciplina. Note critiche sulla formazione dei docenti

Questa relazione è stata presentata al convegno “La scuola italiana dopo la riforma: bilanci e prospettive”, che si è tenuto il 18 ottobre 2018 a Padova.

L’egemonia delle “tecniche didattiche”

Questo mio intervento intende sottoporre a una “critica dell’ideologia” l’odierno prevalere della tecnica pedagogica rispetto ai contenuti delle discipline nella formazione degli insegnanti. Le ideologie “sono contemporaneamente vere e false” (Adorno) e sembrano essere al contempo normative e non normative. Le ideologie sono il mezzo attraverso cui i rapporti di dominio penetrano nelle menti divenendo “violenza materiale” (Stuart Hall). La critica dell’ideologia è critica del dominio attraverso la critica del senso comune e della costruzione dell’ovvietà. Muove da paradossi e da contraddizioni interne al campo mediante l’uso di un’ermeneutica del sospetto (Ricoeur).

La formazione del ruolo dei docenti è parte importante della riproduzione dell’ideologia ma al contempo la funzione intellettuale dei docenti, come mediatori di cultura, dalla modernità in poi contiene in sé il mandato della critica dell’ideologia. Questa dialettica è apprezzabile anche sul piano delle procedure e delle pratiche di questa formazione e delle loro mutazioni. Dall’unità d’Italia alla fine del Novecento si diventava insegnanti nelle scuole secondarie con il possesso della laurea nelle discipline da insegnare. Nel 1990 (con la legge 341) viene istituita la SSIS: scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti, poi regolata con il DPR 31 luglio 1996. Chi è entrato a scuola come docente a partire dal 2012-13 mediante i TFA o i PAS (Tirocinio formativo attivo o Percorsi abilitanti speciali) ha dovuto seguire corsi di pedagogia e sostenere un esame nel quale le nozioni pedagogiche hanno avuto un peso determinante. Oggi con i FIT – Formazione Iniziale e Tirocinio istituiti con decreto legislativo n. 59/2017, – lo spazio delle tecniche pedagogiche è andato aumentando, non solo per semplice quantità di crediti ma per egemonia culturale, a detrimento dello spazio delle discipline e dei contenuti. La nuova normativa che regola la formazione degli insegnanti per la scuola secondaria prevede che chi vuole accedere al corso triennale post-laurea deve aver acquisito 24 crediti in «discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche».

Le resistenze a questo processo, anche nei casi più intelligenti (esenti cioè dal rimpianto per il passato), sono di solito arroccate su una retorica difensiva. A esempio, sulla Domenica del Sole 24 ore del 7 maggio 2017 Mario De Caro, professore di filosofia morale a Roma 3, e Pietro Di Martino, matematico pisano, hanno difeso la causa delle didattiche disciplinari nella formazione dei futuri insegnanti attestandosi su una linea del 50 per cento, destinata, temo,  a essere largamente inascoltata.

«È dunque indispensabile – scrivono – che almeno la metà dei 24 crediti didattici richiesti per accedere al triennio formativo riguardino le specifiche didattiche disciplinari (didattica della matematica, didattica delle lingue, didattica della filosofia, didattica della letteratura) e siano impartite dai docenti di quelle discipline che abbiano maturato conoscenze specifiche di didattica disciplinare».

Questa argomentazione, pur lucida e condivisibile, appare fragile perché la battaglia sui contenuti sembra a tutti conservatrice, ed è già una “causa persa” secondo il senso comune dominante. Conoscere la propria disciplina, infatti, è sempre meno considerato come primo requisito per chi dovrà fare l’insegnante perché quella conoscenza viene rappresentata come sapere “astratto”. Contro l’impostazione, avvertita come tradizionale (basata sui ‘vecchi’ contenuti) si accampa un argomento ‘nuovo’ e vincente: per chi andrà a insegnare nella scuola, conoscere la didattica assimilata alla tecnica – e intesa come il campo del come anziché del cosa – dovrebbe essere più opportuno di ogni altra conoscenza. La tecnologia, del resto, gode nella doxa, un credito sempre più largo rispetto alle discipline umanistiche e alle scienze pure. E la nuova normativa, quella implementata dal governo Renzi e che il “governo del cambiamento” mostra di non voler cambiare – fa appunto esplicito riferimento alle “tecnologie pedagogiche”. E dunque all’argomento forte e condiviso dell’oggettività tecnico-operativa.

Ecco cosa scrive Giunio Luzzatto, già ordinario di analisi matematica a Genova e membro Commissione sull’attuazione della didattica universitaria, sempre sul Sole 24 ore del 15 febbraio 2015:

Circa gli insegnanti in servizio, tutte le ricerche dimostrano che in loro è carente non la competenza sulla materia, ma la qualità pedagogica: non sono stati preparati a confrontarsi con le problematiche dell’età adolescenziale e con gli interessi dei giovani d’oggi.

Con un simile attacco argomentativo a tenaglia ben distribuito fra oggettivismo scientista (“Tutte le ricerche dimostrano…”) e giovanilismo (“gli interessi dei giovani d’oggi…”) – si mette a tacere qualunque resistenza trasformandola in una caricatura: cioè in una difesa corporativa di una vecchia casta. Simone Giusti, insegnante e free lance di didattiche del testo e della lingua – ha infatti attaccato duramente ogni argomento contrario all’egemonia del pedagogismo, con il ricorso all’etichetta del Populismo antipedagogico: dipinto come “atteggiamento nostalgico-classista che gli intellettuali italiani assumono nel parlare di scuola, con compiaciuto disprezzo per tutto ciò che odori di pedagogia, ossia di concretezza nella tecnica di trasmissione del sapere”.

Il cerchio si chiude: ogni opposizione alla “tecnica”, intesa in sé come fattiva, moderna, democratica, neutrale, è ricondotta – come ogni altra opposizione – allo spettro del populismo o all’elitarismo di casta, astratto e nostalgico.

La didattica come critica dell’ideologia

Chiunque abbia avuto a che fare con le  “tecnologie pedagogiche” così come sono state parcellizzate e erogate nei curricola dei TFA, nelle circolari, nelle ricadute quotidiane delle nuove leggi scolastiche, sa bene che esse non sono neutrali né innocenti ma sono viceversa – a partire dai concetti-termini ossessivamente prevalenti – sempre ispirate a una ideologia a volte suadente (l’inclusione) più spesso proterva, quella dell’oggettività e della formalizzazione: congelano il processo di apprendimento in una serie di grafi, tabelle e freccine, pseudoconcetti e slogan con verbi all’infinito (Imparare facendo! Passare dalle conoscenze alle esperienze alle competenze!). Agiscono prevedendo un consenso totale da parte dei docenti, in apparenza in forza del “fare” concreto, ma in profondità in forza della medesima ideologia che pretende, tautologicamente, il mercato come la sola forma di organizzazione infra-umana, l’individuo da formare come un imprenditore di se stesso e i diritti come inscindibilmente conseguenti alle libertà di mercato. La Buona scuola, divenuta legge dello Stato, è del resto interamente incentrata su dei nuovi “saper fare” degli insegnanti che solo restando molto in superficie possono sembrare al senso comune dominante oggettivi, come: integrare gli studenti con bisogni speciali; utilizzare le nuove tecnologie per la didattica, aumentare la connessione digitale e la logica del paradigma informatico, co-progettare insieme alle imprese. La legge 107 del 2015 ha imposto una scuola che scimmiotta l’azienda, esattamente come è accaduto all’Università, nel 2010, con la Legge 240, dopo la quale «la giornata d’un professore» assomiglia a quella di un operatore di «una consumer oriented corporation, soggetta a forme di valutazione più simili a quelle delle agenzie di rating che a quelle di una comunità scientifica», fino al predominio del “termine-ombrello eccellenza, segno vuoto senza referente» (Federico Bertoni, Universitaly). Eccellenza, valutazione e competenza è la triade concettuale e ideologica che consegue al nuovo modello di apprendimento, comune a scuola e a università.

La nuova vulgata didattichese essendo marcatamente ideologica, è falsa e vera a un tempo. Falsa perché incentrata su un’antilingua dittatoriale, autocentrata, tautologica e “staliniana” come si evince da un solo breve esempio, tratto da un libro diffuso nei TFA dal titolo A scuola di competenze:

La dialettica soggetto-contesto rappresenta il principale fondamento per concettualizzare la competenza quale traguardo di apprendimento scolastico: nel quadro di un’epistemologia socio-costruttivistica e situazionista, un apprendimento competente è tale in rapporto alla funzione che gli viene riconosciuta socialmente; in riferimento all’ambito scolastico, sono le attese sociali in termini di potenziale di trattamento autonomo di compiti e situazioni che si ritiene gli alunni debbano sviluppare a definire gli apprendimenti come competenti.

Vera perché, a differenza dell’astrazione idealistica della vecchia scuola classista (quella contro cui si scagliava nel 1967 la Lettera a una professoressa), collega ‘finalmente’ la scuola a uno dei mondi socioeconomici e produttivi esterni all’aula: ma a uno solo, quello raccontato e disegnato dal pensiero unico neoliberale.

I docenti disorientati dalla perdita di legittimità dell’insegnamento entro la più vasta crisi culturale di ogni “umanesimo”, non hanno più nulla da opporre all’aziendalizzazione del lessico scolastico. Anzi: molti di essi si rassegnano alla rinuncia di essere persone colte e critiche necessarie in un processo collettivo di rielaborazione dei saperi (da ogni parte avvertito non più legittimo) e collaborano attivamente e perfino ciecamente a una propria rilegittimazione come riproduttori di schemi semplificati e preconfezionati, dai nomi sempre più anglofoni, che l’alta tecnologia digitale può rendere mobili, diffusi, intercambiabili e visualizzabili in un’app.

Ai docenti, più o meno consapevolmente, è chiaro che il mandato educativo in quanto funzione è stato ormai interamente revocato: che il loro ruolo più riconosciuto dal senso comune – quello in base al quale possono ottenere senza vergogne sociali un salario – è di preparare il capitale umano di cui le imprese necessitano. Per la sopravvivenza del pensiero critico è dunque necessaria una didattica intesa come opposizione e disobbedienza. Non si tratta semplicemente di opporre i contenuti delle vecchie discipline al didattichese ideologico inteso come pura tecnica autonoma. Non si tratta di contrapporre la nostalgia del vecchio disciplinarismo al nuovo che avanza: occorre inventare una terza via fra mugugno rassegnato e accettazione del nuovo modello.

Bisogna tentare di trasformare la didattica delle discipline nel momento più alto del pensiero critico e della ricerca dialogica. Fare ciò non vuol dire applicare il lessico tecnico delle competenze a matematica, filosofia, lingue o italiano, ma viceversa porre “in situazione” ciascuna disciplina. I saperi non sono un dato ma un processo, non si comunicano piattamente ma si trasformano nelle loro complessità con un continuo processo di interrogazione critica e di conflitto interpretativo. Si rielaborano, cioè, in modo comunitario e non si comunicano piattamente: in tal modo la ricerca critica è didattica indocile. La didattica non è ricerca rimasticata, addomesticata e semplificata.  Ripeto: non si tratta di lanciare la difesa corporativa del disciplinarista che teme che la Letteratura venga insidiata dalla Didattica della letteratura o dalla Didattica generale. Imparare a insegnare non dipende affatto dalle tecniche delle «discipline antropo-psico-pedagogiche». Va fondata invece una nuova didattica delle discipline, interdialogica, critica, capace di storicizzarle e di attualizzarle, verificandone assieme agli studenti la tenuta sociale, i riusi nei dispositivi di dominio, le potenzialità di libertà che i saperi aprono o chiudono.

Mi è comodo trarre brevi esempi operativi dal mio campo disciplinare: la critica letteraria, la teoria della letteratura, le letterature comparate. La ricchezza semantica di un testo letterario del passato o del presente, sia che si tratti de La Gerusalemme liberata di Tasso o di Pastorale americana di Roth, è tale da rovesciare e problematizzare ogni univocità ideologica: l’impero cristiano e  controriformista di Tasso o l’impero novecentesco e statunitense in Roth dopo ogni lettura escono storiograficamente straniati perché irradiati dalla luce sghemba delle contraddizioni dell’eros e del conflitto. Perché un grande testo letterario, suo malgrado, e perfino malgrado le idee dello stesso autore, – come accadeva alla Commedia umana di Balzac, – lascia la parola contemporaneamente alla ragione e al torto, ai vinti e ai vincitori. Verificarlo in classe con gli studenti è un’impresa critica cruciale e entusiasmante, che si rinnova a ogni lettura. E che allena le menti alla complessità e, in definitiva, alla libertà.

Ma questo processo di verifica controfattuale rispetto alla neutralità delle tecnologie può avvenire anche per le matematiche, che il senso comune considera opposte alle discipline umanistiche. A esempio ciò accade nel libro recentissimo di Cathy O’Neill Armi di distruzione matematica (Bompiani, 2018). L’autrice è una matematica, con dottorato ad Harvard e postdottorato al Mit, che ha insegnato al Barnard College di New York, prima di passare a lavorare nel settore finanziario privato come analista quantitativa. Con O’Neil ci possiamo porre la domanda radicale che occorre proporre a ogni didattica della matematica: “Chi fa ricorso allo strumento matematico ha chiaro il metodo usato per modellizzarlo (le finalità dello strumento, il fatto stesso che sia stata operata una modellizzazione, l’algoritmo, ovvero le regole, alla base della modellizzazione)? Se non c’è questa consapevolezza, allora siamo di fronte a un’Arma di Distruzione Matematica (ADM)”.

Le ragioni per le quali spesso il metodo di modellizzazione possono diventare oggetto di didattica critica. La sedicente neutralità dell’algoritmo, applicato all’economia politica, riguarda infatti quella cosa sedicente oggettiva, così potente e attuale, che viene chiamata spread. E, per restare al campo della didattica, in Italia riguarda anche i dati di INVALSI o l’algoritmo per il trasferimento dei docenti della legge 107. Un buon modo di studiare criticamente le matematiche all’altezza del presente è verificarne insomma – docenti e studenti unitamente – la non neutralità delle applicazioni, la tendenziosità degli algoritmi che tanto influenza le odierne vite umane e i “destini generali”.

La domanda di senso che gli studenti rivolgono ai docenti può essere intercettata e valorizzata e scaturisce dalle reazioni individuali in un processo sociale. L’esperienza interpretativa è, in classe, una delle ultime occasioni istituzionali per un’ipotesi che il pensiero dominante non condivide: che l’essere è l’essere sociale e che è preferibile la gestione collettiva delle contraddizioni, che è meglio ciò che unisce e rende uguali di ciò che divide e fomenta sopraffazione e diseguaglianza. Per questo, per frammenti o per schegge, quell’esperienza va praticata in quanti più luoghi educativi sia possibile, nei modi della guerriglia culturale e controcorrente rispetto alle disposizioni e ai linguaggi non neutrali delle istituzioni formative medesime. Se sarà ancora possibile una “buona battaglia”, nei mesi e negli anni avvenire, credo sarà quella che ci permetterà di ideare e praticare una didattica indipendente come critica dell’ideologia, con alti prezzi, non rinunciando a destrutturare la tradizione dei vincitori e ad indicare linee alternative: nei vuoti stessi che ancora si presentano nel disegno di applicazione della “didattica dominante”, e non solo.

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