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La scuola italiana dopo la riforma: bilancio e prospettive

 Pubblichiamo una riflessione di Stefania Giroletti sulla giornata di studi “La scuola italiana dopo la riforma: bilancio e prospettive”, che si è tenuta il 18 ottobre a Padova. Lunedì abbiamo già pubblicato l’intervento che in quella occasione ha tenuto il nostro collaboratore Emanuele Zinato.

“Il pensiero segue le difficoltà e precede l’azione”: questa frase è scritta sui muri del Catai, un’associazione politico-culturale che ha sede a Padova: spazio di dibattito, approfondimento e aggregazione. Non è un caso che la frase sia stata ripetuta al Convegno che si è tenuto nella stessa città martedì 17 ottobre 2018, intitolato La scuola italiana dopo la riforma: bilancio e prospettive. La giornata di studio, nata all’interno dell’iniziativa Appello per la scuola pubblica e in collaborazione con l’associazione nazionale Per la scuola della Repubblica, è stata organizzata grazie al contributo attivo di una serie eterogenea di soggetti: associazioni di Padova (Formalit, Catai) e Verona (Diritti per le nostre strade), professori universitari e docenti dei vari gradi di scuola, il Cesp (Centro studi per la scuola pubblica afferente ai Cobas).

Prima di arrivare alla programmazione di questa giornata, la rete aveva iniziato a intrecciarsi proprio all’interno del Catai organizzando un gruppo di inchiesta sull’alternanza scuola-lavoro e un ciclo di seminari intitolato Che ne è della scuola?, la cui finalità era riaprire e diffondere il più possibile un dibattito sulla situazione dell’istituzione pubblica a seguito dell’ultima riforma, ma anche (o forse soprattutto) fare in modo che ci si incontrasse. Di incontri ce ne sono stati effettivamente molti e hanno permesso la realizzazione di una giornata di studi come quella dello scorso martedì, le cui fondamenta poggiano su un dibattito già in corso e che prevede di continuare, coinvolgendo sempre nuovi soggetti: per elaborare un pensiero critico sulla normativa scolastica attuale e in generale sull’idea di scuola da essa veicolata; per costruire una proposta alternativa, rimettendosi nel solco aperto quasi un anno fa dall’Appello per la scuola pubblica

Il convegno si è concluso infatti rilanciando un’altra iniziativa di due giorni presso il monastero dei beni comuni di Sezano (VR), durante la quale sarà possibile partecipare a tavoli di lavoro in cui il momento di analisi e decostruzione delle retoriche e dell’ideologia che informa il modello attuale di scuola, sappia affiancarsi a una fase costruttiva.

Pensiero e azione quindi, e prima ancora aggregazione, riconnessione di un tessuto: quello fra università e scuola da una parte, fra insegnanti dall’altra. L’obbiettivo è sentirsi una comunità, percepire le possibilità di crescita insite nel confronto, affinché sia recuperata l’auto-percezione (prima del riconoscimento esterno) dell’insegnante come intellettuale e non come burocrate o esecutore di “indicazioni” calate dall’alto, sotto ispirazione del Think tank aziendale (cfr. il significativo libello Le competenze. Una mappa per orientarsi pubblicato per Il Mulino dalla Fondazione Agnelli). Sentirsi una comunità, inoltre, dà una forza di resistenza maggiore: sia nel contrastare una colonizzazione del pensiero da parte del discorso egemonico; sia attivando pratiche di opposizione effettiva ad alcune “innovazioni” ritenute deleterie. Ma per fare tutto ciò è necessario organizzarsi e il convegno rappresenta solo una prima tappa.

Perché studiare la scuola e in che modo farlo? Come porsi di fronte ai “cambiamenti” e come elaborare una nuova concezione e pratica di scuola? Queste le domande che hanno attraversato tutti gli interventi della giornata. La scuola è stata paragonata a una cartina tornasole della realtà in cui è calata: studiandola, quindi, possono essere comprese alcune dinamiche e direzioni del presente; in più, però, è stato sottolineato come, se davvero si vuole capire il microcosmo scolastico, sia necessario interrogare e comprendere i dispositivi economico-politici che lo circondano e influenzano. Questa è stata una delle considerazioni su cui più si è insistito: la scuola non rappresenta un universo a se stante; è nel mondo e porta il mondo dentro di sé. Non le si addicono quindi i caratteri di purezza e distanza da quella che è la realtà; non è neutra, ma al suo interno si consumano tensioni fra visioni del mondo e emergono egemonie.

È evidente che, dagli ultimi vent’anni, la scuola sia stata orientata ad assecondare e riprodurre una concezione neoliberista della società. La cosiddetta buona scuola ha rappresentato la ciliegina sulla torta di questo processo, nonché il requiem (insieme al jobs act) di una sinistra che ha collocato più a destra della destra la propria politica economica. Ma questa è un’altra storia, che ci racconta, ad ogni modo, come a livello di governo non esista una vera opposizione all’unico modello economico e sociale imperante: quello neoliberale e neoliberista.

Ebbene questo modello pare agire sulla nuova concezione di insegnante, di studente, sull’organizzazione delle materie e sui metodi di insegnamento. È stato fatto notare, ad esempio, che all’interno della nuova retorica l’“insegnante-facilitatore” è inteso come un burocrate dedito all’atto meccanico di trasmettere le competenze, le quali, essendo state identificate dal legislatore e calate su ogni scuola di ogni ordine e grado, limitano o annullano la libertà di insegnamento. Lo studente è a sua volta considerato come “capitale umano”, quindi come materiale da posizionare sul mercato; è stata condotta un’analisi sull’alternanza scuola lavoro nel suo intrinseco riprodurre una concezione neoliberale dell’uomo, che compete sul ring di un mercato del lavoro precario e in continua mutazione. Soprattutto si è insistito sulla non neutralità di un lessico che si atteggia oggettivo e naturale, quando invece è orientato al compito di radicare – indifferentemente in docenti e discenti – l’ideologia del presente: competenze, compiti di realtà, soft skills, innovazione tecnologica dicono che è necessario adeguarsi ai tempi, dare un fine di utilità al proprio percorso di formazione che potrà considerarsi di successo quando avrà saputo rendere lo studente ben disposto e malleabile alle esigenze di mercato. Ma che fare per contrastare un tale modello del tutto egemonico? Già abituarsi a non concepirlo come a-storico, naturalmente determinato e fatalisticamente caduto fra capo e collo sugli insegnanti, vuol dire metterlo in discussione; è utile inoltre l’esercizio di un’ermeneutica del sospetto nei confronti di parole o provvedimenti introdotti dalla nuova riforma, di cui va decostruita quell’aura di ovvietà attraverso cui passano e determinano un immaginario. È stato proposto anche di lavorare sulle proprie discipline, non da difendere corporativamente, ma da mettere in discussione, da utilizzare come campi su cui esercitare e trasmettere la critica dell’ideologia, mostrando la complessità e non neutralità dei saperi.

Dai numerosi interventi è stata avanzata la possibilità di organizzare all’interno o fuori dalle scuole momenti di autoformazione indipendenti che non si adeguino ai corsi standardizzati proposti dalla piattaforma Sofia, ma che siano in grado di rispondere a domande o spunti critici nati in seno alla prassi didattica. Si è espressa profondamente l’esigenza di vedersi, parlarsi di più, confrontarsi fra docenti in modo da non assumere un atteggiamento passivo di fronte alle modifiche del concetto e modo di fare scuola. Si è sottolineata parallelamente l’importanza che gli stessi studenti ricomincino a dialogare e organizzarsi attraverso assemblee di istituto o altri metodi, che permettano loro di immaginarsi più come una comunità e meno come competitors.

Si è fatto accenno infine ai percorsi di formazione dei nuovi docenti, all’interno dei quali il confronto fra posizioni pedagogiche differenti viene totalmente livellato a favore di un’unica versione, la quale – più o meno consapevolmente – suona in chiave con il modello proposto dal ministero dell’istruzione.

Ovviamente, nell’elaborare una critica radicale all’idea di scuola attualmente egemone, non bisogna cadere nella retorica del rimpianto: un progetto alternativo nasce da un dialogo con il nostro tempo e non sorvola sul profilo degli studenti di oggi, differente rispetto a quello del passato; detto ciò è in grado comunque di integrare i necessari ripensamenti all’interno di una visione del mondo che non collimi con quella dominante, anzi che vi si opponga come alternativa, la quale, mostrando agli studenti la possibilità di più punti di vista differenti, li aiuti a emanciparsi: a non subire passivamente (o riprodurre meccanicamente) il modello umano a cui adattarsi. Un’altra idea di scuola può ad esempio puntare sull’essere sociale dell’individuo; sulla costruzione di una comunità ermeneutica che si interroghi sui significati; su una concezione profonda della storia, che sappia collocare il presente e comprenderlo nelle sue tensioni; su un soggetto in grado di mettere in dubbio tutto ciò che gli venga presentato come vero-neutro e naturale.

Proprio per questo serve una comunità di docenti che studi, si interroghi, interagisca sempre di più, e che pensi il proprio lavoro a cavallo fra scuola e società. In un intervento è stato giustamente detto che “un insegnante deve agire a scuola, ma a un certo punto deve anche uscire dalla classe” per fare bene il suo lavoro. E con buona pace di Salvini, a scuola si fa politica, se con questo termine si intende un’idea di polis e la dialettica (e il conflitto) fra visioni del mondo differenti.

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