La lettura ad alta voce: il recupero dell’oralità
È uscito, per i tipi di Giovanni Fioriti editore, nella collana “naviganti” diretta da Anna Angelucci, La Lettura, il Corpo, la Voce. Fondamenti linguistici e neurali della lettura ad alta voce di Paolo S. Sessa. Il libro si muove tra didattica, critica letteraria, linguistica, neuroscienze e indaga i presupposti della lettura ad alta voce. L’estratto che segue si intitola “Il recupero dell’oralità” e proviene dal primo capitolo. Ringraziamo l’autore e l’editore per averci concesso la pubblicazione.
Solo la lettura ad alta voce ci consente di recuperare l’oralità presente in un testo, attraverso un percorso ad ostacoli lungo il quale non solo i segni grafici, ma in alcuni casi anche gli spazi bianchi che li delimitano e li contornano, riacquistano alcune delle loro originarie caratteristiche che li contraddistinguevano in quanto suoni, pause e silenzi. Che un testo scritto sia stato pensato soprattutto per l’ascolto, come tanta poesia, dalla Commedia di Dante alle Foglie d’erba di Whitman, o anche tanta prosa d’arte, o che molto più semplicemente si tratti di testi destinati (ma quanto, poi!) a una degustazione solitaria, la scrittura conserva tracce più o meno consistenti della voce dell’autore che, prima di scrivere o nell’atto stesso della scrittura, ha fatto passare dalla sua bocca una parte dei suoi pensieri, quelli che sentiva più strettamente aderenti alla sostanza fonica che li esprimeva. “Le grand secret est là: la pensée se fait dans la bouche”[i], scriveva Tzara, e dalla bocca del lettore può riprendere vita. Si tratta di compiere, come Alice, un viaggio dentro lo specchio al quale la voce del poeta ha consegnato, appunto, la sua parola parlata e i suoi silenzi, ricevendone in cambio una sorta di ricevuta per avvenuta consegna, che è, appunto, il testo scritto. La lettura di un testo richiede alla nostra immaginazione la capacità di convertirlo in suoni, compiendo un percorso a ritroso che ci consente di recuperare dalle parole scritte la loro sostanza e, dagli spazi bianchi, gli indugi dell’anima; si tratta di rivitalizzare quella densità semantica che la cristallizzazione dei fonemi in grafemi ha disperso: tutto questo è reso miracolosamente possibile, per vie spesso misteriose e complesse, dalla nostra voce, dal nostro corpo, dal nostro gesto, come in un magico intreccio. Ad alta voce, naturalmente, e senza chiedere permesso perché, dice bene Pennac, la lettura ad alta voce è fra i dieci diritti imprescrittibili del lettore[ii].
La quantità di densità semantica dispersa nel passaggio dall’oralità alla scrittura varia da testo a testo e soprattutto in relazione alla tipologia di testo. Appare scontato che un discorso scientifico, nella sua trasposizione scritta, non perda assolutamente nulla – spesso ne guadagna in chiarezza –, tranne l’emotività del relatore, al momento della conferenza, e i suoi correlati acustici (tremore della voce, enfasi su alcune parole etc.). Diverso è il caso della barzelletta, un genere che si ciba avidamente della gestualità, della mimica, dell’intonazione, della voce di chi la racconta[iii]; come diverso è il caso degli scambi dialogici in un romanzo, o di un testo letterario espressamente costruito sulla funzione che chiamiamo poetica. Nel passaggio dal parlato allo scritto, a livello di semplice significazione, la trasmissione di un messaggio non comporta difficoltà eccessive e neanche una perdita consistente di senso; ma la questione cambia, “a livello di manipolazione artistica. Il suono di un fonema e la forma di un segno scritto non hanno assolutamente lo stesso valore”[iv].
A ogni tipologia di registro corrisponde una diversa densità semantica del materiale fonologico/lessicale e una diversa quantità di dispersione nel processo di trasposizione dall’orale allo scritto. Insomma, si perde solo ciò che si ha: la scrittura di una ricetta culinaria perderà meno di quanto accada alla scrittura dell’Addio ai monti di Manzoni e ancor meno (se possibile) di quanto accada alla “trasposizione” del dialogo fra Renzo e Don Abbondio nel capitolo secondo dei Promessi sposi. Il testo letterario, a differenza della ricetta culinaria, nella quale i piani dell’espressione e del contenuto stabiliscono rapporti quasi biunivoci, rimanda sempre ad altro perché i personaggi incarnano situazioni che hanno i loro referenti al di fuori del testo, nella complessità della vita reale e dell’esperienza del lettore. Nel testo finzionale, l’autore offre al lettore le esperienze dei suoi personaggi in modo diretto, nella mimesi, e indiretto, nella diegesi. Entrambe le modalità narrative, non solo veicolano le emozioni reali dell’autore, ma anche quelle immaginarie che emergono dalle relazioni fra i personaggi e quelle che i personaggi intessono col loro mondo finzionale.
Le emozioni originarie dell’autore e quelle immaginate dei personaggi, senza le quali non esiste alcuna storia, passano nel testo attraverso una serie di artifici linguistici e stilistici che rendono più o meno esplicita la loro presenza, e più o meno facile la loro individuazione da parte del lettore. Le emozioni in un testo possono presentarsi sotto forma di tracce che richiedono da parte del lettore procedimenti inferenziali e processi cognitivi alti; oppure, possono essere esplicitamente nominate e/o descritte nei loro correlati; o ancora, rivelarsi attraverso lo scambio dialogico nelle parti mimetiche. In tutti i casi, poiché nella scrittura parte della tensione originaria che l’ha prodotta si perde sempre, specialmente nelle parti mimetiche, il compito del lettore è di individuare quelle tracce fra le quali si annidano le emozioni originarie, e di riprodurle attraverso gli stessi canali di cui fa uso nella vita reale: la voce e i gesti. La lettura è il momento in cui si ricostruisce la relazione fra la scrittura e il linguaggio: “non è un terzo fenomeno… bensì è ciò che li lega l’una all’altro”[v] e che riscrive a ogni occasione una nuova storia in questa relazione.
Di fronte allo stesso testo, ogni lettore, o addirittura ogni lettura (anche dello stesso lettore), recupera attraverso la voce tratti significativi diversi e fornisce, quindi, del testo, quella che chiamiamo interpretazione. In analogia con quanto accade nella musica, la lettura si rivela nell’esecuzione, nella performance cioè di una sensibilità personale che ha smontato e ricostruito il testo per l’ascoltatore. Quando la voce media fra scrittura e oralità, interpreta e compie delle scelte, che materializza nell’atto esecutivo, lasciando filtrare alcuni significati e celandone altri. Nello stesso momento in cui un testo rivive, dunque, alcuni suoi significati originari vengono alla luce, altri si mimetizzano, senza tuttavia mai scomparire, pronti a rivestire il ruolo di protagonisti in un’altra esperienza di lettura. E il lettore non si limita solo a una selezione di tratti distintivi del testo che più lo intrigano, ma con la sua esecuzione strappa inevitabilmente alla storia il testo, per attualizzarlo nella sensibilità sua personale e del tempo.
Quando si fa parola, la voce rivela tutte le sue potenzialità di congegno in grado di incantare e catturare, accendere e trascinare; e tuttavia, questi effetti della voce non sono scontati, ma il risultato di un’azione vocale consapevole, organica, pregnante, che si accompagna, senza eccessi, ai gesti, allo sguardo. In questo percorso, occorre, innanzitutto, che la voce riacquisti la sua corporeità, che venga sentita, insomma, come un oggetto solido al quale riconosciamo la capacità di stabilire e regolare relazioni interpersonali, e del quale siamo in grado di controllare gli effetti. Si tratta di quella voce cui Galimberti si riferisce come “parola parlante, con la sua efficacia fascinatrice, la sua integrale gestualità”[vi]. Perché la voce recuperi questo corpo, è indispensabile ascoltarla e percepirla come lo strumento naturale col quale proiettiamo sul mondo la nostra coscienza. Se vogliamo imparare a leggere, dobbiamo considerare la nostra voce come uno strumento musicale col quale “suonare” il nostro testo, con gli stessi registri, timbri, volumi, toni, ritmi sui quali è stato costruito.
[i] T. Tzara, Œuvres complètes (1920, 1975), p. 379. “Ecco il grande segreto: il pensiero si forma nella bocca” (TdA).
[ii] D. Pennac (2010), p. 116.
[iii] L’esempio della barzelletta è altamente esemplificativo: essa scarsamente sopporta la trascrizione perché la sua vita è nell’oralità. Di essa, più frequentemente di qualsiasi altro testo orale, si dice: “Non l’hai saputa raccontare”, tali e tanti sono gli artifici linguistici e non su cui è strutturata. Per un’analisi strutturale della barzelletta, cfr. V. Morin, (1969), pp. 179-204.
[iv] R. Escarpit (1976), pp. 12-13.
[v] H.-G. Gadamer (1981, 2005), p. 48.
[vi] U. Galimberti (2005), p. 189.
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