Le otto montagne di Cognetti, romanzo problematico. Replica a Paolin
Pubblichiamo questa recensione al romanzo di Paolo Cognetti, Le otto montagne (Premio Strega 2017), che si configura anche come una replica all’intervento sul medesimo libro di Demetrio Paolin (disponibile al link ) proponendone una diversa interpretazione.
Il successo del romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne, vincitore del premio Strega, ha portato molte persone che vivono in montagna, abitualmente non lettori, a leggerlo e a discuterlo: un fatto di per sé rilevante. Mi riferisco in particolare agli abitanti della Valle d’Aosta e, più specificamente, a quelli della val d’Ayas, che hanno avvertito curiosità verso un libro che parla di luoghi e di persone a loro note: in una delle valli laterali è ambientato il romanzo e in un’altra vive per alcuni mesi all’anno il suo giovane autore. Se poi, come egli sostiene, la storia narrata abbia un carattere universale perché affronta il rapporto dell’uomo con la montagna, sarà qualcosa di cui discutere. Resta il fatto che le reazioni dei lettori montanari con cui mi è capitato di parlare sono state diverse: per lo più di immedesimazione, di interesse, di empatia, ma talora anche di estraneità, di distanza o di freddezza. Una spia, a mio parere, delle contraddizioni implicite nel romanzo: quelle dello scrittore, che si proiettano al suo interno, e quelle dei suoi personaggi. Paolin lo considera invece privo di problematicità, dal carattere “moralmente edificante, perché quello che l’autore vuole profondamente comunicarci con il suo libro è che esiste una speranza, che esiste qualcosa di buono e consolante”. Se queste sono le intenzioni di Cognetti, che, rifacendosi alla sua esperienza, vede la salvezza nella montagna, credo tuttavia che il romanzo contenga uno spessore problematico e che sia utile separare i due piani che si intersecano tra di loro: quello della biografia e quello della scrittura.
La narrazione è condotta in prima persona e presenta numerosi riferimenti autobiografici, evidenti anche dalle molte, troppe, esplicitazioni dell’autore sulla sua esperienza di vita. Negli incontri con il pubblico, al festival della montagna da lui organizzato nel luglio scorso, in numerosi articoli e interviste, Cognetti ha infatti raccontato come intorno ai trent’anni, in un periodo di grave crisi esistenziale e politica, dopo avere visto il film Into the wild, tratto dall’omonimo romanzo di Krakauer, abbia scelto di andare a vivere in montagna e vi abbia ritrovato un equilibrio interiore. Il lettore ingenuo è portato perciò a identificare l’autore con il narratore/protagonista, nonostante gli scarti anche anagrafici tra i due (Cognetti è nato nel 1978; Pietro nel 1973), e a considerare vera la storia narrata, che naturalmente presenta invece una profonda elaborazione del vissuto, alternando realtà e finzione.
La scelta dell’autore di vivere in una baita a 2000 metri comporta necessariamente, come egli ha ricordato senza retorica, un adeguamento a una realtà non facile sul piano materiale (approvvigionamento di cibo, di legna e di acqua, pesanti condizioni meteorologiche ecc…) e su quello psicologico (solitudine, fatica, incontro con la mentalità delle persone che ci abitano da sempre). Il radicamento nel territorio del “nuovo montanaro” perciò non è totale: d’autunno egli lascia la montagna e ritorna in città per risalirvi in primavera. Fra l’altro con la neve ha un rapporto complesso (“mi fa sentire isolato, rende l’andare in paese difficile o a volte impossibile, e anche camminare nel bosco è faticoso, quando a ogni passo affondi fino al ginocchio”), il rombo delle valanghe così frequenti in quest’inverno è angosciante. È contento però per gli amici montanari che con la neve lavorano.
D’altra parte il microcosmo nascosto, fuori dai flussi turistici, idealizzato luogo di protezione confligge con la storia di vita dello scrittore, si scontra con il suo passato e con altri mondi conosciuti, si amplia in una vastità di orizzonti: la squallida periferia milanese dove vive da bambino e da ragazzo; la sua infanzia solitaria e il conflitto con il padre che desiderava per lui un avvenire da scienziato; la sua “vocazione all’impegno sociale e politico” che lo portano a condividere le idee anarchiche e a partecipare ai centri sociali; il periodo vissuto a New York, dove svolge i lavori più diversi ed entra in contatto con la letteratura americana; il Nepal, dove si reca per fare documentari su realtà di montagna ben diverse da quella valdostana. Polarità e contrasti dunque nella sua esperienza di vita: città e luoghi selvaggi, modernità e primitivismo, occidente e oriente, ricchezza e povertà, solitudine e socialità. Ed anche da un punto di vista psicologico energia e vitalità da un lato, dall’altro senso di morte e di catastrofe: il ritrovamento dei corpi di alpinisti, che i ghiacciai sciogliendosi restituiscono in questi anni sempre più frequentemente, genera in lui il convincimento che la morte in montagna sia non solo messa in conto da coloro che la sfidano ma sia anche per tutti coloro che la amano quella più desiderabile; la vera tragedia è piuttosto la futura scomparsa dei ghiacciai. Da qui anche la sua difesa dell’ambiente montano. Con un articolo in prima pagina sulla Repubblica del luglio scorso, Cognetti faceva sua la battaglia per la salvaguardia di un vallone che collega la val d’Ayas a Cervinia, minacciato da un devastante progetto funiviario, condiviso per lo più dalla gente del posto: invitava i montanari, sedotti dal miraggio di un profitto economico, a riflettere sul fatto che la salvezza della montagna anche per i loro figli vale ben di più della sua distruzione. Un esempio questo del suo impegno, ribadito in una recente intervista: “non credo che andare in montagna sia ritirarsi dalla vita pubblica, dall’impegno, dalle cose che cerchi di fare nel mondo. Non è il luogo dell’eremita, ma dove io mi trovo meglio e più adatto a lavorare politicamente.”
Tale problematicità si riflette sulla scrittura sia nella rappresentazione dei temi che in quella dei personaggi.
La montagna non costituisce lo sfondo della narrazione, ma il fulcro intorno a cui ruotano e prendono corpo temi diversi.
Il paesaggio non viene stilizzato: non è né il locus amoenus, né il locus horridus della tradizione. È rappresentato nella varietà e concretezza dei suoi aspetti contrastanti e trasmette perciò sentimenti contraddittori:
(…) ogni valle possedeva due versanti dal carattere opposto: un adret ben esposto al sole, dove c’erano i paesi e i campi, e un envers umido e ombroso, lasciato al bosco e agli animali selvatici. Ma dei due era l’inverso quello che preferivamo. (p.51)
(…) anche in una mattinata del genere riuscivo a cogliere la bellezza di quel posto. Una bellezza cupa, aspra, che non infondeva pace ma piuttosto forza, e un po’ d’angoscia. La bellezza dell’inverso. (p.94)
Il topos letterario città/campagna si coniuga nella polarità Milano/Grana vissuta da Pietro bambino e adolescente, e nel conflitto pianura/montagna del padre, con cui il protagonista deve fare i conti. Nella dinamica tra il negativo del basso e il positivo dell’alto, nel suo processo di formazione Pietro arriva a scoprire che anche la vita di montagna nasconde aspetti ostili e inquietanti: il carattere selvaggio dell’ambiente si riverbera talora in inimicizie, rancori, comportamenti indecifrabili e difficoltà di comunicazione dei montanari. Non è insomma un mondo idillico.
Così il tema dell’amicizia maschile, centrale nel romanzo, pur in una certa idealizzazione, non è esente da scarti e aporie: quella di Pietro e Bruno è una storia di condivisioni e allontanamenti, di sintonie e divergenze profonde, di accettazione e non accettazione dell’altro. Pietro è colui che parte, ritorna e cerca in montagna il suo ubi consistam; Bruno è colui che resta perchè da sempre alla montagna appartiene.
Anche il tema, ugualmente centrale, del rapporto di Pietro con il padre si situa all’interno di complesse dinamiche genitoriali: il mondo materno, improntato all’affettività e alle relazioni umane, e il mondo paterno, caratterizzato da rigore e durezza, due mondi in antica tenzone di sabiana memoria. Ne è spia il diverso modo di vivere la montagna da parte dei genitori: la madre ama il paesaggio di bassa quota, dove si cammina e crescono i fiori; il padre le rocce, la conquista delle vette e i ghiacciai. Egli è modello da seguire per Pietro bambino, rifiutato in blocco nell’adolescenza; il riconciliarsi con lui e il riappropriarsi interiormente della sua figura avvengono gradualmente solo dopo la sua morte, quando egli scoprirà i segreti e i sentimenti nascosti del padre e acquisterà consapevolezza del valore dell’educazione ricevuta. Bruno invece ha avuto un padre assente e anaffettivo e in qualche modo il padre di Pietro supplisce a questa mancanza.
Sul piano tematico quindi le contraddizioni non mancano; sono anzi alla base dell’impianto strutturale del romanzo, frutto di un’attenta costruzione, in cui talora si può se mai riscontrare un certo schematismo.
A un livello più profondo aspetti contrastanti emergono nella rappresentazione dei personaggi, che rivelano inattese sfaccettature: la sensibilità del padre burbero di Pietro, la sofferenza silenziosa della madre di Bruno, che lavora come un automa nei campi. In particolare poi le contraddizioni si manifestano in tutta la loro evidenza nella storia di vita proprio del coprotagonista Bruno. Da un lato egli è per Pietro l’altra parte di sé, quello che avrebbe voluto essere, e appare per questo in qualche modo idealizzato: in lui c’è “qualcosa di assoluto”, “qualcosa di integro e puro”. Dall’altro però è perdente sul piano degli affetti e della vita comune: chiusura, introversione, incapacità di parlare di sè e di fare i conti con le emozioni, disinteresse per il guadagno lo portano all’autodistruzione. Bruno fallisce nella sua impresa di allevare mucche e vendere formaggio e la sua compagna, di fronte alle difficoltà economiche e nonostante fosse disposta a sacrificarsi con grande generosità, lo lascia. E soprattutto fallisce come padre, lasciando a lei la bambina che hanno avuto e abbandonando il suo ruolo paterno, come se in lui si riproducesse il destino di suo padre, incapace di essere tale. Il periodo felice della famiglia che lavora nell’alpeggio con alacrità, l’armonia che faceva ipotizzare al lettore un finale da vissero felici e contenti, svanisce per sempre: la storia precipita nella tragedia della morte di Bruno, che scompare nel nulla della neve.
A questo punto si dischiude il conflitto di interpretazioni sull’intero romanzo: montagna come terapia e via di salvezza o come morte e distruzione? Se Paolin lo considera un libro lieto, altri l’hanno avvertito angosciante proprio per la morte di Bruno, esattamente come avviene per quella del protagonista di Into the wild, altro romanzo per nulla consolatorio. Viene da chiedersi allora se questa morte in montagna abbia la funzione di santificare il personaggio, di farne un eroe vittima della forza della natura, oppure, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, non sia la necessaria materializzazione della morte interiore del personaggio, la tragica conclusione del suo fallimento.
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Editore
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quell’aspetto non realistico
Questo libro per me è stato uno di quegli eventi che uniscono i puntini della tua vita, dando loro un senso più grande e vero: l’ho amato, perché mi ha fatto capire quanto (e perché) io ami la montagna e quanto questo amore faccia da legante con il mio compagno di vita.
C’è però qualcosa che succede, o meglio che non succede, nel racconto, che mi sembra una forzatura dei “fatti reali” e dell’indole dei personaggi, volta solo a creare l’effetto sorpresa nel lettore: per com’è fatta la madre di Piero è impossibile che non lo informi per anni della prosecuzione del rapporto fra lei, ma soprattutto il padre, e Bruno. È normale che l’autore pieghi la storia per creare gli effetti drammatici che ha in mente, ma in questo caso il gioco è troppo evidente e – se ci si fa caso – è impossibile chiedersi: “Ma perché non gli ha detto nulla?”, anche perché poi nel periodo successivo lo farà (tornando finalmente ad essere sé stessa), anzi sarà lei l’unico contatto fra i due.
Una domanda che viene fuori naturalmente e che però non trova risposta all’interno della storia (avrebbe potuto scrivere che la madre aveva iniziato a scrivergli di Bruno, ma lui stesso per qualche motivo che Cognetti sicuramente avrebbe trovato le aveva chiesto di lasciar perdere), ma solo appunto all’esterno, come modo per creare la sorpresa narrativa (ma la realtà non funziona propriamente così…).
La morte
Troppa lirica intorno al tema della morte. E’ semplice, la montagna è il redentore, l’espiazione di ogni peccato. Il fatto è che cercarlo nei personaggi disorienta il lettore perchè i personaggi non sono il vero obiettivo della redenzione. E’ l’autore che crede in questo ruolo ctonio-montano. In realtà la montagna è la fredda espiazione dei peccati dello scrittore. Semplice e consolatorio ci dice che ciò che non sa fare in vita lo risolve nel gelido destino che la montagna gli offre. Vita se deve essere o morte se sopraggiunge. Cognetti ci dice che non conosce altro metodo per parlare dei suoi errori se non attraverso la coscienza di natura che nel suo caso è l’aspra roccia di montagna. Cognetti vuole che la montagna si pronunci su di lui. La sentenza sarà accettabile perchè è il linguaggio che ha scelto per essere codificato e raccontato agli altri uomini. La montagna ci dirà che uomo è stato. A lui questa consacrante durezza fa comodo perchè gli permette di affrancarsi dai dubbi del grigio che invece la vita riserva agli altri uomini. Essere sicuro di un bianco o di un nero. Essere meritevole di non scadere nella banalità delle vite degli altri. Morire in montagna nobilità il suo percorso, lo rassicura sulla scelta fatta e lo rende immortale tra i banali mortali.
In fondo è un modo come un altro per non sentirsi uno stronzo qualunque. L’importante è crederci.
Riferimenti inesatti
Ho appena iniziato la lettura del libro, e nelle prime pagine l’ autore fa riferimento ad una zona di Milano dove sono nato e cresciuto dal 68 in poi: si informi meglio prima di scrivere facendo riferimenti a situazioni reali.