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diretto da Romano Luperini

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La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»

 Quando su un autobus urbano lessi per la prima volta “personale per il servizio alla clientela”, capii che erano i vecchi “controllori” solo dopo molti viaggi e molte riletture. Credevo davvero che si trattasse di personale dedicato ai miei sacri diritti di cliente. 

L’hanno detto in tanti: l’Italia è un paese che ama l’opacità linguistica degli eufemismi, delle perifrasi, degli slittamenti semantici o delle vere e proprie sostituzioni. La ragione è sempre quella rappresentata amaramente da Ignazio Silone in Fontamara: fottere i cafoni parlando di “lustro” invece che di “cinque anni”. Prima che la coscienza avvertita della persona colta reagisse, anche io su quell’autobus sono stato un cafone.

Quando, però, su un treno ad alta velocità ho ascoltato un messaggio registrato che mi avvertiva, «il train manager è a vostra disposizione», ho compreso subito che si trattava di un fenomeno completamente nuovo e di dimensioni ben maggiori della vieta opacità del potere e della burocrazia italiani. 

Un train manager non è un volgare capotreno: non ne ha la ruvidezza, quella con la quale – ricordo – apriva la porta dello scompartimento in piena notte, accendendo brutalmente la luce ed esigendo “i biglietti!”. 

Il train manager non ha i polsini della camicia un po’ sgualciti e l’accento dialettale. Il train manager è customer-oriented e ha un tablet in mano. Se, poniamo, i suoi diritti di lavoratore vengono calpestati, lui molto probabilmente non si ribella come suo padre e suo nonno capitreno. Infatti non sa di essere un “lavoratore”: è stato educato in quella «cultura del nuovo capitalismo» di cui ha parlato Richard Sennett, nella quale gli hanno fatto credere di doversi considerare un “imprenditore di se stesso”.

 La lingua 4.0 del Ministero dell’istruzione

“Train  manager” è un esempio del linguaggio parlato dal nuovo capitalismo. Questa lingua è totalitaria. Arriva ovunque. Anche a scuola.

A gennaio il ministero ha steso un primo bilancio dei progressi del Piano nazionale per la scuola digitale (PNSD). Anche al Miur ormai parlano e scrivono così:

non esiste innovazione semplice. Se è semplice, non si tratta di innovazione. Innovare significa rompere barriere, modificare comportamenti, trasformare organizzazioni, investire in nuovi modi di lavorare e guardare al mondo e, in ultimo, generare comunità dove il cambiamento diventa irreversibile; 

è la logica dell’innovazione, di dinamismo da costruire invece che di status da raggiungere, ad essere in moto. E il motore della scuola è acceso.

I due passi citati sono, rispettivamente, l’inizio e la conclusione del documento di bilancio: le due parti nelle quali, come ben sapeva la retorica antica, occorre movere. Ma chiamare questo un banale “documento di bilancio” – lo si capisce bene – è ricorrere a un linguaggio ingessato, anzi da gessato anni Trenta. Questa prosa è giovanilista, irrequieta, vagamente cocainica.

Siamo lontanissimi dalla contorta ipotassi con cinque o sei subordinate del vecchio burocratese: vince la paratassi che mima l’onda incontenibile dell’innovazione. Questa lingua ha completamente abbandonato anche la ben nota ieraticità pomposa di uffici e ufficiali serissimi che non osavano scendere mai nella realtà dove si dice “fare” e non “effettuare” (l’antilingua del brigadiere di Calvino). È una lingua, al contrario, performativa, che sembra voler fare cose con le parole e abolire la distanza tra progetto e azione: un po’ trombonata futurista, un po’ action painting. Si veda la frase che conclude il documento, quasi un’ingiunzione a tracimare oltre il punto fermo obbligato della scrittura, a domare lo scalpitante cavallo della realtà: «e il motore della scuola è acceso».

Dalla lingua ai valori

Che cos’è tutto questo? È solo un tic linguistico? È solo mimesi del linguaggio-feticcio della nostra era, quello seduttivo e libidico della pubblicità? O c’è dell’altro? 

Leggiamo Richard Sennett:

In effetti, i cambiamenti istituzionali sul luogo di lavoro che qui descrivo valgono soltanto per i settori più avanzati dell’economia: l’alta tecnologia, gli operatori finanziari che agiscono su scala mondiale e le nuove imprese di servizi con più di tremila dipendenti. La maggior parte delle persone dell’America del Nord e dell’Europa occidentale non lavora in queste imprese. Eppure questo piccolo segmento dell’economia ha un’influenza culturale che va ben oltre la consistenza numerica. Queste nuove istituzioni prefigurano le nuove competenze e abilità personali; e la formula combinata di istituzione e qualifica modella la cultura del consumo; a sua volta, il comportamento nei consumi influenza la politica, in particolare la politica progressista. Se inferisco con tanta sfacciataggine la cultura della totalità da una piccola parte della società, è perché i fautori di un ben determinato genere di capitalismo hanno convinto tanta gente che la loro via è la via del futuro (La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, 2012, p. 14).

C’è dell’altro, quindi. Si tratta di una complesso gioco di azione e retroazione tra vertice della piramide e sua base: come nella moda, le nuove tendenze del vertice si propagano sotto specie di valori desiderabili per tutti, informando comportamenti e habitus mentali di massa, così che al vertice, dove si prendono le decisioni politiche, ci si convince di essere la punta più avanzata di un’esigenza collettiva e storicamente necessaria. Di qui i passaggi esplicitamente biopolitici della prosa 4.0 del Miur:

una politica “vivente”, che cresce organicamente al crescere delle energie di chi nella scuola, ogni giorno, innova organizzazione e didattica, rinnovando se stesso;

diverse aree del PNSD non possono permettersi anche un solo rallentamento. L’innovazione non attende, e la società chiede a gran voce una scuola che stia al passo o, meglio ancora, che la aiuti ad interpretare il cambiamento.

È il linguaggio dei corsi di motivazione che si tengono dentro le aziende, quelli che Paolo Virzì ha rappresentato in Tutta la vita davanti forse senza nemmeno doverne fare la caricatura.

Ma il punto più importante pertiene alla politica, non all’organizzazione del lavoro. Si lascia intendere che non esista più alcuna verticalità gerarchica, nessun rapporto di forza o di potere, nessuna contrapposizione tra soggetti: una parodia della società democratica, orizzontale, non ascrittiva. 

Si tratta di un strumento dalle potenzialità di connessione e contaminazione elevatissime che, una volta aperto a tutta la scuola, permetterà di consolidare l’idea del PNSD come movimento di innovazione, più che di politica pubblica

Il concetto stesso di “politica pubblica” va superato, in quanto processo che dall’alto cala sulla popolazione: si tratta, invece, di un “movimento” collettivo, spontaneo, dal basso. 

Certo, in altre parti del documento non si nega che questo movimento vada guidato e che si debbano superare delle resistenze; ma quelle resistenze vanno amorevolmente – paternalisticamente – ammorbidite, creando sinergie e fiducia: le parole d’ordine, infatti, sono perfettamente progressive. Bisogna «sviluppare spazi comuni innovativi e avere tecnologia, preferibilmente portabile, per avere in ogni classe strumenti leggeri per collaborare»; è necessario favorire «creatività e laboratorialità diffusa negli spazi della scuola, che si aprono al il [sic] territorio»; «serve dare importanza a periferie e plessi di provincia, come anche suggerito da ANCI […] in modo che l’investimento in ambienti innovativi diventi fattore di inclusione in ogni territorio e grado di scuola»; si tratta, infine, di realizzare il sogno di sempre, quello che ci accompagna come utopia irrealizzabile da quando esiste la “gabbia d’acciaio” della burocrazia e del lavoro sotto il capitalismo: «la trasformazione digitale dell’amministrazione […] può rappresentare una strategia di semplificazione essenziale per “liberare” il personale dalla burocrazia e concentrare l’attenzione su offerta formativa e didattica» (tutti i corsivi sono miei).

Se io dicessi che, al contrario di questi esperti ministeriali di policies, sono favorevole alle ubbie personali contro la collaborazione, al silenzio indisponibile del singolo contro la creatività e la laboratorialità diffusa, al chiudersi nella propria cameretta contro l’apertura al territorio (addirittura, protervamente, all’esclusione contro l’inclusione), mi condannerei alla risibilità storica. Eppure, davanti alle trombonate futuriste, sarebbe quasi una necessaria provocazione surrealista o dada. 

L’avanguardia, o la testa di ponte, di questo “movimento” sono gli “animatori digitali”: «una comunità sempre più ampia di decine di migliaia di innovatori, per trascinare grazie a investimenti universali il resto della scuola»; «la scelta di puntare sulla legittimazione di un “presidio” che potesse essere il punto focale dell’innovazione in ciascuna scuola è stata unanimemente considerata come una decisione chiave. Proprio per questa ragione, portare finalmente a compimento una prima parte degli investimenti a favore degli animatori digitali è stato fondamentale per riattivare e rinforzare la motivazione di una comunità di innovatori che sta già facendo tantissimo per il sistema educativo». 

Fuori da questa cattiva letteratura da strapazzi, gli animatori digitali non sono altro che colleghi di buona volontà disponibili a occuparsi di bandi, finanziamenti, miglioramento dell’offerta formativa. Questi colleghi a gennaio sono stati invitati a partecipare a un convegno a Bologna. Eccone il programma:

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È difficile persino commentare un’iniziativa del genere, che sembra una parodia della fantascienza e invece è realtà, la nostra realtà. 

I nuovi esperti del Miur

Ma chi, materialmente, scrive queste cose? Chi immagini i tecnici del Miur come grigie teste d’uovo della burocrazia statale d’antan si sbaglia. Non si spiegherebbe un cambiamento linguistico e di valori così radicale. Dalle Linee guida della Buona scuola (qui una breve affresco dei giovani e rampanti yuppies che vi hanno lavorato) al Piano Digitale, ormai i nostri destini sono in mano a esperti di public policies con curricula anglofoni e una formazione in un settore disciplinare difficile da definire, perché non appartiene nemmeno più al vasto ambito delle scienze sociali o a quello specifico dell’economia o dell’informatica. 

Nel caso del nostro documento, i due redattori sono Donatella Solda e Damien Lanfrey. Il loro curriculum vitae sul sito del Miur è istruttivo, ma forse ancor più interessante è l’autopresentazione di Lanfrey. Consiglio di leggere almeno quest’ultima, se volete avere un’idea della “cultura” che promuove le ultime riforme scolastiche. Ci si renderà conto che la polemica contro la “burocrazia ministeriale” è ormai roba d’archivio.

Nel bilancio del Piano digitale, a un certo punto, si legge questo passaggio:

i numeri raccontano di una scuola in grandissimo movimento, come testimoniato da una fascia sempre più ampia di docenti che, nonostante le difficoltà, si è ingaggiata con il Piano abbracciando le sue molteplici azioni (corsivo mio).

Lanfrey, nonostante il nome straniero, ha studiato in Italia. Quell’anglismo – “si è ingaggiata” (to engage) – è un residuo familiare? Un anglismo di chi poi si è perfettamente acclimatato ai proprio studi a Oxford, Londra, Hong Kong? O un neologismo consapevole e ardito, a superare l’incapacità dell’italiano di tenere dietro all’esplosione di nuove idee del “movimento”? Non so. Ma ciascuno pensa nella propria lingua, come sappiamo. Evidentemente chi ha scritto quella frase non pensa in italiano. È ormai “ben oltre”. Noi che pensiamo alla scuola ancora con la lingua di Dante e Petrarca siamo probabilmente dei morti viventi. 

Dai valori al governo della scuola

Chi usa le parole con il tono sovreccitato e futuribile di quel documento dovrebbe apparirci come un alieno calato non si sa come né perché dentro un luogo, la scuola, dove le parole della nostra lingua vanno preservate, tenute in buon uso, tramandate con amore e pazienza. Esiste un intero ambito di saperi che interviene costantemente nelle nostre vite e la nostra lingua patria non ha nemmeno le parole per nominarlo: policies, decision-making, stakeholders, …

Non è questione di sensibilità filologica e poetica, di purismo linguistico, di diffidenza verso l’inglese, che resta pur sempre la lingua di Shakespeare e T. S. Eliot. Si tratta di una radicale questione di egemonia culturale e politica. 

La guida dei processi di trasformazione della scuola sembra essere ormai delegata a una casta sacerdotale di esperti, i policy makers, che pretendono di possedere un sapere tecnico in grado di dettare l’agenda alla politica, quella forma della praxis che da Aristotele alla Arendt ha definito la quintessenza dell’animale umano. Questi esperti parlano un linguaggio che sembra l’applicazione extra-letteraria dello stile oracolare da centro commerciale di Coelho e Baricco:

l’impegno di fare policy, soprattutto se interpretato to the fullest, è sempre quello.

A partire da 3 condizioni.

Lo devi fare velocemente, perché il Paese non è certo in una situazione facile, e la crisi non aspetta;

Devi conquistarti le finestre politiche, quelle non le regala nessuno, a maggior ragione in una situazione di frammentazione;

Devi costruire soluzioni efficaci e molto sostenibili, perché chi lavorava 10, 20 anni prima di te, con cinque volte le risorse, non si esattamente è [sic] posto il problema. (autopresentazione di Lanfrey)

La scuola, però, non è un’incubatrice di futuri start-upper:

i laboratori sono il luogo in cui si allineano scuola e Impresa 4.0, scuola e industrie culturali e creative, scuola e rivoluzione digitale. 

A partire da gennaio 2018, tutto questo sarà portato a sistema per raggiungere il 100% delle scuole su 4 direttrici chiave: pensiero computazionale, educazione civica digitale (cittadinanza digitale), STEM e imprenditorialità. Si tratta di una scelta precisa, che unisce l’importanza di creare le basi definitive per una piena consapevolezza del cambiamento tecnologico (digital awareness) attraverso media, information e data literacy; lo sviluppo di competenze digitali centrali alla crescita degli studenti in produttori creativi di soluzioni digitali attraverso pensieri computazionale e STEM; la conversione di queste competenze in vera capacità di generare cambiamento attraverso l’educazione all’imprenditorialità. 

La scuola non è un’incubatrice di futuri start-upper: semplicemente perché il mito della Silicon Valley, e di Steve Jobs, e dell’imprenditorialità cocainica, è un mito di classe, che viene spacciato a chi, assai più probabilmente, finirà a lavorare per Foodora o per uno dei molti Mcjobs oggi offerti. 

Davanti a tutto ciò, prosaicamente, il nostro compito è molto modesto: nel nostro futuro prossimo, abbiamo da impedire l’«inserimento strutturale nelle indicazioni nazionali, a partire dal primo ciclo» di queste proposte post-politiche ed economicistiche.

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