Pagine a prova di alunno. La letteratura e le scuole difficili
Volavano le sedie
Sono entrato in classe per la prima volta a ventisei anni non compiuti. Venni convocato a inizio ottobre in un istituto professionale statale per l’industria e l’artigianato (IPSIA) della provincia di Perugia, per una supplenza in Italiano e Storia che poi durò tutto l’anno. Ricordo bene il bacio di mia moglie prima di uscire di casa e il maglioncino di cotone morbido che ritenni adatto per il mio primo in assoluto giorno in cattedra. Poi venti minuti di macchina, durante i quali ascoltai un po’ di radio senza sentire nulla, ebbro della constatazione che finalmente il momento sognato fin dai tempi del liceo fosse finalmente arrivato. Parcheggiata l’auto nel grande piazzale gremito di motorini, per un attimo mi sentii felice e mi beai tra me e me: «prof. Contu, suona bene». Varcata la porta della scuola chiesi degli uffici a una signora in camice blu seduta in portineria. Venni accompagnato alla segreteria del personale da dove mi spedirono immediatamente in presidenza: il dirigente mi stava aspettando. Ovviamente non colsi l’anomalia che intesi invece come ineccepibile cortesia. Bussai alla porta, il preside mi fece accomodare all’istante. Ricordo il doppiopetto, la cravatta, gli occhialetti da ragioniere. «Benvenuto professore». In cinque minuti venni messo in guardia sulla «terribile I°E meccanica» che aveva già collezionato tre consigli straordinari in meno di un mese di scuola. Venni congedato con un «le auguro buon lavoro professore, vedo che è molto giovane, se la saprà cavare». Non mi resi conto del messaggio, salutai con un bel sorriso di circostanza e mi avviai verso il mio battesimo scolastico. Ricordo vagamente il percorso di avvicinamento alla classe, erano le circa undici di giovedì mattina, questo lo so per certo perché mi dissero che avrei dovuto tenere, mi dissero proprio «tenere», la I°E meccanica durante le ultime due ore di lezione. Ricordo invece perfettamente e mai lo dimenticherò l’istante successivo in cui ho aperto la porta dell’aula. Come potrei dimenticare. Vidi una sedia volare da una parte all’altra della classe, lanciata da uno studente contro un altro che per un pelo riuscì a schivare il colpo.
Così come l’ho detto. Un proiettile di ferro e legno scarabocchiato. Da un lato all’altro della classe. Un fracasso finale tremendo. Dell’immediatamente dopo ricordo solo che mi limitai ad acchiappare in malo modo il lanciatore e che lo trascinai in presidenza, con tutta la classe urlante al seguito. Poi lo sguardo stralunato del preside «professore, già qui, ma che succede?», qualche parola che tentai di blaterare. La vicepreside che si palesò, capì, salì di corsa al piano. Assicurato il reo lanciatore di sedie al tribunale scolastico dopo qualche minuto fui invitato a tornare in aula. Del poi ricordo davvero poco se non che furono le due ore assolutamente più interminabili della mia vita. A un certo punto ebbi pure la geniale idea di chiedere a quel ferino consesso se conoscessero «a grandi linee» la storia di Renzo e Lucia. Fu il caos, mi sentii assolutamente perso. Non ricordo come, ma il tempo nonostante tutto passò. Finalmente la scarica di sudore al suono della seconda e ultima campanella, affogata nel fracasso della fuoriuscita furibonda dell’orda dalla classe. Poi il silenzio. Mi guardai intorno ed ebbi come la percezione che i vetri stessero ancora tremando. Difronte agli occhi la devastazione dei banchi, delle sedie e delle cartacce ovunque, come dopo un’esplosione. Uscii da quel luogo infernale. Scesi lentamente le scale, un collaboratore mi scambiò per uno studente attardato e mi rimbrottò di filare via. Varcai il portone della scuola, senza salutare nessuno, mi accorsi che il maglioncino di cotone morbido era zuppo di sudore. Entrai in macchina, ricordo perfettamente di aver messo nel lettore un cd di Ludovico Einaudi. Venti minuti di viaggio in silenzio costernato, condito dalla lagna degli arpeggi. Varcata la soglia di casa mia moglie mi guardò stralunata e mi chiese immediatamente cosa fosse successo. Io mi lasciai cadere sul divano e dopo qualche buon minuto di mutismo le dissi sottovoce che mi ero sbagliato, che il sogno che avevo covato fin dai tempi del liceo non era quello giusto, che insomma forse non ero tagliato per fare l’insegnante, meglio la ricerca. Anzi, nessun forse, non avrei mai potuto fare l’insegnante e assolutamente meglio la ricerca, assolutissimamente meglio la ricerca.
Dentro e fuori il gorgo
Ma mi resi conto dopo pochi minuti che non avrei iniziato a fare ricerca e a essere pagato per farlo dall’oggi al domani. Per altro il giorno dopo sarei dovuto tornare a scuola. Proprio nella «terribile I°E meccanica» che in meno di due ore era riuscita a farmi cambiare vocazione. Passai così un intero pomeriggio nell’angoscia sul come sopravvivere alle due ore del giorno dopo. Non cavai un ragno dal buco. Il massimo del discernimento fu di andare letto presto per incamerare energie fisiche per resistere all’assedio imminente a poche ore e che ero certo sarebbe stato fatale. In quel periodo avevo sul comodino le Opere di Beppe Fenoglio e per caso lessi prima di addormentarmi Il gorgo. Racconto brevissimo e fulmineo. Incipit folgorante. Tensione dalla prima all’ultima riga. Due personaggi che dipingono un mondo emotivo in poche sequenze, un finale profondamente poetico. Un barlume nello sconforto mi suggerì che la mattina dopo avrei letto Fenoglio, del resto non ci avrei messo troppo a fare le fotocopie per tutta la classe. Tanto valeva soccombere con l’onore di averci almeno provato. La notte portò dunque fragilissimo consiglio e alle otto in punto di un venerdì di inizio ottobre entrai tremando per la seconda volta in un’aula, un po’ più motivato ma soprattutto con le mie venti fotocopie de Il gorgo in mano. In effetti fu un salto dalle stalle alle stelle in meno di ventiquattro ore. All’inizio feci un po’ la voce grossa, qualche cartaccia volò, qualche parolaccia pure, ma poi il racconto prese il sopravvento. L’incipit catturò la maggior parte degli studenti: «Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo». Dissi loro che si trattava di un annuncio di morte, il padre si andava a suicidare perché non ce la faceva più a reggere la situazione, se l’avesse fatto o meno lo avremmo scoperto nel giro di poche righe, l’unica speranza era il figlio di nove anni. Il miracolo avvenne. In un’ora lessi e commentai tutto il racconto. Divisi la narrazione in sequenze, intervallando la lettura con osservazioni che man mano scrivevo sulla lavagna e che loro iniziarono a copiare sul quaderno. Alla fine ebbi modo di parlare della guerra d’Abissinia, dell’indigenza durante il tempo di guerra, del dramma di una madre che prega perché la figlia muoia («ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella»). Ma non solo, parlai del padre, del figlio, del tempo del racconto e del tempo della storia, della focalizzazione e dello stile paratattico. Addirittura ci fu un momento in cui osai il nome Bergson sulla lavagna, per dire loro quanto si era dilatato il tempo durante l’inseguimento del figlio sul padre. L’ultimo appunto riguardò la distinzione tra linguaggio denotativo e connotativo e il Belbo con quell’ «acqua ferma che sembrava la pelle d’un serpente» mi permise di sperticarmi sulle infinite possibilità di una penna che sa fare il suo mestiere. Il tempo di chiudere l’analisi con il meraviglioso finale di ricomposizione sul pollice del padre ad accarezzare il figlio («ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo») e la classe, stremata da un’ora di silenzio riniziò a fare casino. Ma avevo incassato un primo risultato, loro mi avevano guardato con altri occhi. Tornato a casa potei dire a mia moglie che forse avevo una chance. Certo, le prime due ore non erano le ultime due. Gli alunni erano stati più tranquilli come accade sempre a inizio mattinata, eppure ero convinto che qualcosa fosse successo. Se non altro l’idea di battere in ritirata sembrava essere parzialmente rientrata. Mia moglie si mantenne diffidente, il giorno prima mi aveva visto troppo malconcio. Sospese il giudizio. Era venerdì e io sarei tornato a scuola il lunedì successivo. Naturalmente non mollai il mio salvatore delle Langhe, così dopo un fine settimana di letture e riletture decisi che mi sarei presentato in classe con il racconto di Fenoglio Un altro muro, tratto da I ventitré giorni della città di Alba. Si trattava di un testo decisamente lungo, nonostante il paziente lavoro di editing non riuscii a ridurlo a meno di otto pagine, ancora non sapevo come avrei fatto a giustificare tutte quelle fotocopie, ma il gioco valeva la candela: se Il gorgo mi era sembrato una rasoiata narrativa, Un altro muro era un vero e proprio epos di tensione. Trama semplice, due partigiani, un badogliano (Max) e un garibaldino (Lancia) che vengono catturati, portati e poi messi al muro, entrambi per essere fucilati. Alla fine la scarica che crivella solo Lancia perché Max era stato riscattato in un cambio di prigionieri, il tutto in una prosa che trasuda tensione dalla prima all’ultima riga. Anche in questo caso la narrazione in classe funzionò, stesso metodo della lettura intervallata ad appunti e spiegazioni sulla lavagna, rigorosamente da copiare per tenerli impegnati, anzitutto fisicamente. Un altro muro durò per ben due lezioni e il relativo coinvolgimento della classe fu direttamente proporzionale alla crescita della mia autostima. Incredibile a dirsi, stavo sopravvivendo.
Ripiombare a Diomira
Terminato il racconto di Fenoglio, ormai convinto di aver liberato l’insegnante modello che da sempre abitava in me, il giovedì mattina volli osare. Durante gli anni universitari mi ero innamorato della prosa visionaria de Le città invisibili. A una settimana dal mio catastrofico esordio scolastico mi presentai in aula con questo passo:
Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh! gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.
Risultato: in meno di un quarto d’ora le sedie riiniziarono a volare e il caos in classe fu ben peggiore del primo giorno, una vera e propria apoteosi della barbarie studentesca. Ovvio. A dire il vero l’esperienza fallimentare di provare a portare quella classe a Diomira fu più utile dell’aiuto fornitomi da Fenoglio. Capii all’istante e sulla mia pelle che se avessi voluto fare Letteratura in quella scuola (e io volevo fare Letteratura, su questo già dopo quei pochi giorni non avrei concesso nulla) avrei avuto bisogno di un certo tipo di Letteratura. E la Letteratura nelle scuole difficili era, per via del tutto empirica: paratattica, realistica, diretta, asciutta. I voli pindarici di Calvino non avevano cittadinanza in quel contesto. L’anno scolastico andò avanti tra alti e bassi, io imparai molto sulle modalità di gestione della disciplina. A riguardo mi convinsi empiricamente di come, al di là di qualsiasi percorso formativo iniziale, ogni insegnante dovrebbe sperimentare a inizio carriera almeno un anno in un istituto professionale o in una scuola comunque connotabile come difficile. Soprattutto lessi tanto in classe. Fenoglio, Calvino (ovviamente il primo Calvino, specie i racconti di Ultimo viene il corvo), Pavese, Hemingway. Lessi Buzzati e Bilenchi, Tozzi e anche Pasolini. Boccaccio e Galileo, Manzoni e Nievo. Ricordo con emozione un’ora perfetta sulla pagina in cui Carlino Altoviti vede, a nove anni e per la prima volta, il mare. Non fu solo la scelta delle pagine giuste però a salvarmi. Con il tempo, tra giornate in cui sognavo a occhi aperti l’ultimo giorno di scuola e giornate in cui tornavo a casa ringalluzzito da una lezione indovinata, misi da parte tante constatazioni. In ordine sparso capii che i libri di testo, specie quelli del biennio, erano pieni zeppi di brani scelti dall’autore e non da me. La riprova scottante fu il fiume di fotocopie che produssi clandestinamente al riparo di arcigni collaboratori addetti alla fotocopiatrice. Capii l’importanza di creare un proprio archivio letterario di pagine a prova di alunno, in cartelle ad hoc nel mio Pc, che tutt’ora a quindici anni di distanza ancora rimpinguo settimanalmente. Capii l’importanza di leggere personalmente i testi in classe a voce alta: tra il sacrificio a lungo termine delle mie corde vocali e l’inefficacia assoluta del fare leggere gli studenti mi immolai alla prima opzione. Capii l’importanza non scontata di leggere e conoscere bene il testo prima di arrivare in classe. Soprattutto capii la necessità lapalissiana di trovarci, io per primo, interesse e bellezza in quel testo, pena il fallimento scontato della prova dell’aula. Capii l’importanza per me di stare in piedi e dominare la situazione, la necessità di delimitare bene il setting di lavoro (orari, tempi di attività e tempi di pausa) e la centralità del saper dosare momenti di attenzione con momenti di uso della lavagna o di coinvolgimento attraverso il dialogo guidato. Come spesso accade, pur non negando l’essenzialità di tutto il patrimonio formativo cui siamo sempre debitori, era stata l’esperienza sul campo a darmi la prima e decisiva impronta dell’insegnante che sarei stato. Tale impronta, dal rischio di essere segnata inizialmente da una sediata in testa, a conti fatti fu determinata proprio dalla possibilità della Letteratura, anche in un contesto dove nei primi istanti il solo pronunciare quella parola mi era sembrato oggettivamente folle.
Un delirante fermento
Sopravvissi a quell’anno indimenticabile e indimenticato: con molti degli alunni di quella classe continuo a sentirmi periodicamente dopo quindici anni. A settembre cambiai scuola, così come capitò ogni anno dei dieci anni di precariato che mi sarebbero toccati. Dopo qualche anno in scuole decisamente migliori tutti iniziarono a complimentarsi con me per l’ottima gestione della disciplina, mentre a fronte di gruppi classe assolutamente più facili, ero semplicemente tarato a fuoco sul livello di un professionale. Poi, per una combinazione nemmeno troppo strana, mi ritrovai a settembre di qualche anno dopo nello stesso istituto professionale dove avevo iniziato, questa volta assegnato anche a una seconda classe. Nel biennio generalmente si affronta il testo in prosa nel primo anno e il testo poetico nel secondo. Mi trovavo dunque difronte alla sfida di provare a fare poesia in una classe di nuovo dell’indirizzo meccanico, con la consapevolezza che alunni che avevano a che fare con tolleranze, bielle e pistoni, difficilmente si sarebbero inchinati alla lucente bellezza di qualche fulmineo settenario. Avendo avuto questa volta il privilegio di iniziare dal primo giorno di scuola e non di subentrare a programma avviato, potei pianificare la mia strategia didattica. Il libro di testo presentava un’impostazione che da subito mi parve discutibile, ma che di fatto ricalcava la falsariga di gran parte dei testi tutt’ora in commercio. Una parte iniziale di introduzione teorica (significato-significante, strutture, figure retoriche, metrica etc.) alcuni percorsi tematici trasversali a epoche e letterature (amicizia-amore-adolescenza-dolore) e infine due monografie (Leopardi e Pascoli). L’idea di affrontare la poesia in quel contesto, partendo dalla distinzione significato-significante o dalla storiella del verso un tempo legato alla musica, rievocava all’istante in me i fantasmi di Diomira sotto un bombardamento di sedie. Decisi quindi che anche in questo caso la Letteratura mi sarebbe venuta in soccorso: per definire cosa fosse la poesia avrei letto ex abrupto poesia, nel caso specifico avrei letto Ungaretti per un mese di fila. Poi e solo poi avrei ricostruito un impianto teorico di riferimento. La scelta fu dettata da un’idea che tutt’ora sostengo, non solo in ambito scolastico. La conoscenza dei meccanismi che reggono una qualsiasi forma di espressione letteraria o artistica, presuppongono il riconoscimento del valore e della bellezza di quel determinato linguaggio. Tale assunto banale a scuola viene sistematicamente disatteso. Si impara l’esametro e forse poi si legge Virgilio, si impara l’endecasillabo e forse poi si legge Leopardi, ci sfinisce sulla nascita della prosa e forse poi si legge Boccaccio. In quel contesto non mi sarei potuto permettere tanto. La scelta di Ungaretti come Virgilio del linguaggio poetico fu dettata da diverse considerazioni. In primis l’oggettiva e da tutti conosciuta spendibilità de L’allegria in ambito scolastico. La biografia e il contesto di riferimento di quelle poesie, facilmente arricchibili in senso trasversale, grazie all’approfondimento storico ma anche alla disponibilità di un ricco apparato multimediale sulla prima guerra mondiale, erano un valore aggiunto. Infine la presenza di due poesie (Il porto sepolto e Commiato) che nella breve misura risultavano per me essere due veri e propri trattati sull’essenza stessa del linguaggio poetico. Questi due testi fornirono alla mia classe le prime tre definizioni di poesia che appuntammo su lavagna e quaderno per rispondere a una domanda semplice e diretta: «che cos’è la poesia?». Le risposte ce le forniva il poeta. La poesia per me e la mia classe era «quel nulla / d’inesauribile segreto», «il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola», «la limpida meraviglia / di un delirante fermento». Ungaretti ci diceva inoltre che la poesia è di tutti ma non è per tutti, che solo il poeta arriva nel mitico porto sepolto e la porta a galla, («Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»), che quando ci riesce il peso della parola è enorme («Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso»). A posteriori ripenso a quell’ora passata a discutere sulla poesia come un delirante fermento: continuo a essere convinto di come sia stato più efficace e produttivo del partire dalla canonica distinzione significante/significato. La classe dunque rispose, in modo chiassoso ma rispose. Nei giorni successivi leggemmo, commentammo e analizzammo I fiumi, che servì per raccontare la vita e le vicende del poeta. Leggemmo, commentammo e analizzammo Soldati, San Martino del Carso, Sono una creatura, Veglia, Allegria di naufragi, Fratelli, Risvegli. Leggemmo, commentammo e analizzammo In memoria e posso testimoniare come in una classe dove il numero di studenti di altre nazionalità era molto alto, la riflessione poetica sulla vicenda di Moammed Sceab si rivelò il più efficace tra i tanti progetti sull’integrazione che poi a scuola negli anni mi sarei trovato a gestire («Fu Marcel / ma non era Francese / e non sapeva più vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano / gustando un caffè / E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono»). Alla fine di quel mese in balìa dei versi di Ungaretti, senza mai pronunciare le parole metafora, analogia, enjambement, distico, mi ritrovai con una classe acclimatata, non oso dire appassionata, ma di certo incuriosita, al linguaggio poetico. Solo a questo punto introdussi un primo gruppo di tre lezioni da un’ora ciascuna sul piano del significante e del significato: verso, scelte fonetiche, rime, scelte lessicali, parole chiave, concetti chiave, in cui ricomposi in un quadro di riferimento teorico quanto letto. Decisi anche che per tutto l’anno avrei svolto monografie di poeti della nostra letteratura, intervallate da approfondimenti metodologici. Nel documento di fine anno del programma svolto, ritrovo che in quell’anno leggemmo, commentammo e analizzammo oltre a Ungaretti testi di Cavalcanti (Voi che per li occhi mi passaste ‘l core; Perch’io non spero di tornar giammai), di Petrarca (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; Solo et pensoso i più diserti campi; Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Pace non trovo, et non ò da far guerra; O cameretta che già fosti un porto; La vita fugge, et non s’arresta una hora), di Leopardi (L’infinito; A Silvia; Le ricordanze; Il passero solitario; Il sabato del villaggio; Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), di Saba (Amai; A mia moglie; Mio padre è stato per me l’assassino; Ulisse; La capra; Tre poesie alla mia balia; Goal). Tra un autore e l’altro inserii le altre unità di apprendimento teoriche. Affrontammo a modo nostro la versificazione italiana e le figure metriche. Provammo a percepire gli accenti ritmici, i tipi di rime, le strofe e i componimenti metrici. Sfidammo la comprensione delle figure retoriche, dei loro significati e utilizzi. Volutamente scelsi solo autori della Letteratura italiana e previsti dal programma del triennio. In parte ciò si discosta da quanto si registra nella maggior parte dei testi del biennio in commercio, dove sono presenti spesso autori di altre letterature in traduzione, oltre ad altri generi espressivi. La scelta di utilizzare autori poi in programma nel triennio ebbe a che fare con ragioni pratiche di ottimizzazione del lavoro in senso verticale e dalla persuasione di poter spendere l’anno dei cinque più incentrato sul testo poetico sulla nostra tradizione letteraria, per poi lasciare più spazio nel triennio a un approccio più comparatista. Anche in questa nuova esperienza dunque fu la prova sul campo a indicarmi una strada produttiva per fare Letteratura in un contesto problematico. Il bilancio fu positivo e oggi, a distanza d’anni, legato al ricordo di una verifica orale fatta a maggio a uno degli alunni più problematici. Alban, in un Italiano stentato a fronte delle sue origini albanesi, colse brillantemente uno a uno tutti i concetti chiave della poesia I fiumi e terminò dicendo che «sta poesia è davero bela». A pensarci bene forse furono proprio le parole di Alban che mi convinsero definitivamente che avrei continuato a fare quel mestiere, il più bello di tutti, per molti anni.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
pagine a prova di alunno
Geazie per questo racconto appassionante! La passione mi sembra infatti il filo conduttore: per il docente e per gli alunni (a volte “difficili”) che incontra.
È fantastico “vedere” come in tanti anni di insegnamento il desiderio di trasmettere curiosità, interesse e amore per la Letteratura non sua mai venuto meno.
Complimenti al prof anche per la sua preparazione