Concorso docenti 2016: qualche riflessione sulle prove scritte di italiano /1
Oggi e la prossima settimana pubblicheremo due interventi sul concorso di selezione dei docenti 2016, a firma di due Presidenti di commissione. Oggi pubblichiamo l’intervento di Sabrina Stroppa, Presidente di commissione in Valle d’Aosta. La settimana prossima pubblicheremo l’intervento di Giuseppe Noto, Presidente di Commissione in Piemonte.
Vorrei fare qualche riflessione sulle prove scritte di italiano del concorso docenti 2016, a qualche mese di distanza, e in base alla mia esperienza di Presidente di commissione della classe AD4 e A11: strettamente e quasi naturalmente connessa, come per il collega Giuseppe Noto, a una lunga esperienza di insegnamento e di formazione docenti.
1. La prova scritta tra polemiche e struttura
Non sono state poche le polemiche e le discussioni sul compito – che, lo ricordo, era comune a tutte le classi di concorso umanistiche: dovevano svolgerlo anche i candidati che si presentavano per latino e greco. Ci sono state obiezioni anche ‘illustri’, come quella di Claudio Giunta, sulla difficoltà, quasi impraticabilità delle prove scritte (http://www.claudiogiunta.it/2016/08/i-cento-metri-di-italiano/). Giunta dice che lui stesso avrebbe avuto difficoltà a svolgere i temi: ma lui non li ha letti con lo spirito di dover affrontare un concorso pubblico, dopo aver studiato a questo fine, con le energie tutte concentrate sulla prova. Bisogna tenere conto anche delle condizioni materiali di esecuzione, per poter giudicare serenamente. Sono sicura infatti che Claudio, messo in quelle condizioni, avrebbe svolto brillantemente il compito, come hanno fatto non pochissimi dei nostri candidati: che hanno fatto bene le prove scritte, e bene gli orali, a testimonianza del fatto che di buoni insegnanti ancora ce ne sono, in Italia.
Che il compito fosse lungo è indubbio: ma qui entrava in gioco l’intelligenza e il buon senso delle Commissioni valutatrici, che non si aspettavano certo che per ogni domanda i candidati scrivessero tre pagine, bensì dieci o venti righe ben impostate. Questo è stato, in realtà, il vero problema, e la ragione delle bocciature: non la difficoltà del compito in sé, ma il modo di svolgerlo.
Vediamo da vicino i sei quesiti di italiano (gli ultimi due erano di lingua straniera). Il compito era a mio avviso bello e intelligente, perché misurava: la conoscenza della letteratura italiana e la capacità di analisi del testo (quesito 1); la capacità di impostare prove di verifica sensate (2); le letture degli insegnanti (3); la capacità di affrontare dal punto di vista storico, ma rendendolo accessibile agli studenti delle scuole medie, un argomento fondamentale come la Costituzione (4); la conoscenza dei fondamenti della geografia umana (5); una riflessione non banale sulla funzione della letteratura nell’orientamento formativo (6).
2. Letteratura e formazione
Parto da quest’ultimo punto: la frase di Leonardo Sciascia citata nel compito non dice affatto, come scrive Giunta, “quanto la letteratura è importante” (banalizzazione compiuta con prevedibile regolarità in tutti i blog che ho visto in rete). La citazione precisa è: «Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende». A parte il candidato che ha scritto che secondo Sciascia la letteratura insegna agli uomini le loro generalità (e mi astengo dal fare commenti), il più brillante ha notato quanto di provocatorio ci sia in questa frase, e ha risposto di conseguenza. Il problema infatti non era, genericamente, “quanto la letteratura sia importante al giorno d’oggi”, ma che nulla l’uomo sa di sé se la letteratura non glielo spiega. Ma i nostri futuri docenti ne sono davvero convinti? Davvero, nel profondo del cuore? Perché se fosse così, allora leggerebbero romanzi e opere letterarie: leggerebbero notte e dì. E invece dal quesito 3, sul tema dello straniero, emergeva non solo che a nessuno veniva in mente, putacaso, di riferirsi a Lo straniero di Remo Ceserani come quadro teorico, ma anche che l’ottanta per cento dei candidati citava lo stesso testo, Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda (anche nella versione “ci stanno i coccodrilli”), che viene distribuito agli insegnanti dai rappresentanti editoriali, come proposta di lettura per le medie. Pochissimi hanno letto davvero la traccia, che proponeva il tema dell’estraneità: potevano starci Le metamorfosi di Kafka, Dottor Jekyll e Mr Hide, Lo straniero di Camus, Cate, io di Matteo Cellini, o anche Mio fratello rincorre i dinosauri di Giacomo Mazzariol, per dire. Perché accentrarsi tutti quanti sul tema del profugo, se poi non si hanno gli strumenti culturali per affrontarlo?
Ma torniamo all’ultimo quesito: la letteratura come “competenza per la vita” è moneta corrente nei TFA e PAS, e infatti i candidati sapevano tutti citare benissimo le disposizioni europee sul lifelong learning. Il problema, come dicevo, è a monte, ed è cruciale per un insegnante: quando entro in classe, davvero penso che i sedicenni che ho davanti non sanno niente di sé finché non leggono un’opera letteraria che li sveli a se stessi? davvero credo che il mondo di social asociali in cui sono immersi non li rappresenti veramente? davvero so come far capire loro che la vicenda della Gertrude manzoniana è di capitale importanza per la loro vita, e che non si può non farsi venire le lacrime agli occhi – ancora! – leggendo della madre di Cecilia che «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…», e pensando alla veste bianchissima ben accomodata dalla madre sul corpo della bambina morta, segno estremo d’un amore che in quel candore ripone ogni speranza? e che lì c’è, in nuce, tutto ciò che oggi posso pensare sul piccolo Aylan ripreso in mondovisione tra le braccia del suo vano soccorritore? Davvero lo penso?
Pochi candidati, lo si capiva benissimo, lo pensavano veramente. Avevano fretta di citare la legislazione, le normative, di esibire il linguaggio tecnico novellamente appreso (lifelong learning, appunto, per fare un esempio). Non si sono fermati a pensare. E NON perché non ne avessero il tempo: ma perché mai, prima di quel momento, si erano interrogati sul senso di ciò che stanno facendo, sulla necessità della letteratura per la vita. (Avrebbero potuto anche contestare la sentenza di Sciascia, e io personalmente li avrei apprezzati: invece no, tutti a dire ‘quanto è vero e quanto è giusto’…). Se io penso davvero che «nulla di sé e del mondo» sanno gli uomini, eccetera, non trasformo ogni brano che leggo in un odioso e inutile strumento di esercizi retorici. Non consento che gli studenti leggano una poesia solo per recitarmi a pappagallo chi ne sia l’autore, o per “sottolineare le figure retoriche del testo” – esercizio sommamente vuoto e senza scopo, che andrebbe bandito dai libri di testo e dalla mente degli insegnanti. E se in un quesito concorsuale mi viene posto il problema, magari mi fermo un attimo a pensare.
3. La didattica della poesia
Non posso passare in rassegna tutti i quesiti, ma vorrei dire qualcosa sul secondo – nel quale quasi tutti i candidati hanno dato prova di non saper veramente strutturare una verifica su un testo poetico in modo efficace e coerente – e soprattutto sul primo quesito, quello letterario: che proponeva – incredibile dictu – il sonetto 272 di Petrarca. Quando, tutti insieme, abbiamo aperto la prova sulla piattaforma ministeriale (ai commissari non era consentito accedervi in nessun modo: l’abbiamo intravista dietro le spalle dei candidati), dopo il primo istante di incredulità ho pensato a tutti i miei studenti di TFA e PAS, ai quali ho sempre proposto negli anni la lettura ragionata dei sonetti petrarcheschi, come momento inaggirabile – anche per le classi di concorso ex A043 e 50 – dell’addestramento alla lettura di un testo poetico, che passa soprattutto per l’evidenziazione dell’articolazione sintattica entro le strofe. La farò breve: l’ottanta per cento dei candidati ha svolto la prova senza mai citare una riga del testo proposto. Quasi tutti lo hanno collocato all’inizio di un percorso su Petrarca (o, peggio, di un percorso sulla letteratura “del 1300”, roba da far venire i brividi): cosa palesemente assurda, perché bastava leggere il numero d’ordine, 272 appunto, per rendersi conto che è assai difficile iniziare la lettura di un libro come i Rerum vulgarium fragmenta iniziando da lì. Chi inizierebbe un percorso su Dante iniziando dal canto trentesimo del Purgatorio? Ma Petrarca è Petrarca, ovvero il caos: i numeri non contano nel Canzoniere, no? I candidati non avevano tempo di soffermarsi su quisquilie, avevano fretta di squadernare la loro sapienza didattica: che consiste, generalmente, nel dividere la classe a gruppi e far rintracciare loro i temi portanti del sonetto. Uno dirà: ma non mi avevi detto che era la prima lezione su Petrarca? e allora questi disgraziati come fanno a rintracciare i temi portanti, se non sanno nemmeno che cosa sia il Canzoniere? Ah, già, l’insegnante l’ha spiegato nei primi dieci minuti. E allora, una volta rintracciati i “temi portanti” ed enucleata la poetica di Petrarca (beati voi… io non ci sono riuscita nemmeno in anni di lavoro…), che me ne faccio del sonetto in questione? La poetica di Petrarca posso anche leggerla su un manuale: davvero il sonetto serve solo a questo? E la sua struttura? le antitesi? i tre tempi iniziali che diventano due? i tre tempi tutti compresenti all’anima, con il presente che scompare in un punto quasi inavvertibile, secondo la lezione di Agostino? la “fortuna in porto”, che leva all’anima qualsiasi speranza riposta in quel futuro nel quale si sente trascinato?
Mi è sembrato evidente che i candidati – sempre parlando del numero relativamente piccolo che ho esaminato – non avessero mai seriamente ragionato su come si struttura un sonetto, né tantomeno come funzionano quelli di Petrarca. La cosa mi ha colpito, sia perché erano tutti in servizio a scuola da diversi anni, sia perché le antologie, oggi, sono diventati degli immensi e minuziosi meccanismi di analisi del testo poetico: non c’è quasi altro che esercizi di scomposizione e di analisi. Allora forse da soli non bastano? Forse i docenti non dovrebbero confidare troppo, o esclusivamente, negli strumenti di lavoro – che condividono con gli studenti, tra l’altro –, e magari mettersi a studiare? Nessuno dei candidati, va da sé, ha saputo citare un solo titolo di bibliografia critica su Petrarca (solo uno ha menzionato Contini). E sì che gli anni che ci separano dalle celebrazioni del centenario della nascita sono stati fittissimi di pubblicazioni. Ma nessuna sembra essere penetrata nel bagaglio culturale degli insegnanti. Loro obietteranno che badavano soprattutto alla didattica: ma che didattica è quella che, entro la misura della lezione di due ore (precisata nel quesito ministeriale), prevede un’introduzione generale a Petrarca e al Canzoniere, e poi, sempre nelle stesse due ore, fa lavorare a gruppi gli studenti su un sonetto petrarchesco? (senza nemmeno, poi, specificare il tipo di scuola alla quale questa pseudo attività didattica dovrebbe essere rivolta). Con quali strumenti dovrebbero lavorarci gli studenti? E a quali risultati dovrebbero arrivare? Per non parlare del fatto che l’attività era definita cooperative learning, mentre si trattava evidentemente di un semplice “lavoro a gruppi” (perché il cooperative è attività assai più complessa, che va preparata attentamente).
4. Insufficienza dei percorsi abilitanti?
Insomma: non parlo ovviamente per tutti i candidati d’Italia, ma per il campione (una sessantina di persone) che ho esaminato. Ripeto, non ci aspettavamo risposte chilometriche, ma semplicemente una risposta ben impostata. Nella maggior parte dei casi, ci siamo trovati davanti a risposte che denotavano scarsissima attitudine alla lettura e allo studio da parte degli insegnanti, e una insufficiente lucidità nel delineare percorsi didattici efficaci. Eppure erano, ovviamente, tutti passati per il TFA, o il PAS. Potrei avanzare due spiegazioni per questo sostanziale fallimento dei percorsi abilitanti: la loro eccessiva brevità (dai due anni delle SISS si è passati ai quattro mesi di corsi effettivi del TFA, con riduzione drastica e drammatica del tempod edicato alla formazione, alle letture, all’aggiornamento bibliografico), e forse la casualità con cui viene scelto il corpo docente dei corsi abilitanti. È facile registrare che l’impatto più forte l’hanno avuto i corsi ‘tecnici’, quelli di didattica generale e di docimologia, anche se la ricezione è spesso difettiva: i candidati menzionavano a ogni piè sospinto il brain storming (anche nella versione bread storming, che ci ha causato un accesso di ilarità), il cooperative learning, eccetera, ma non sembravano poi particolarmente capaci di dare effetto alle parole, e di progettare, per le classi, percorsi didattici che corrispondessero realmente a quelle metodologie. Impatto più debole hanno avuto, evidentemente, i corsi disciplinari, quelli di didattica della letteratura, che non sono riusciti a penetrare a fondo: forse perché richiedono ben altri tempi di metabolizzazione, e una disposizione personale allo studio e alla lettura continui. Un discorso autentico sulle competenze, ad esempio, non l’ho trovato in nessuna risposta: segno, forse, che le mappe troppo minuziose e spesso opinabili proposte da CompIta, articolate su una successione progressiva di singole competenze che dovrebbero allargarsi, nel triennio, dal testo all’opera all’autore – mentre il curricolo segue una scansione cronologica di storia letteraria, evidentemente in contrasto con questa impostazione –, non riescono a creare effettive “buone pratiche”; o che ancora la riflessione, una riflessione all’altezza dei compiti, non è penetrata fino alla platea degli insegnanti di italiano, considerata nella sua ampiezza.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2016, lettore.
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18 minuti a quesito
Gentile professoressa, ho vinto due concorsi in classi diverse da quelle da lei esaminate. Non entro, dunque, nel merito della qualità delle risposte date dai suoi concorrenti. Mi limito però a evidenziare un fattore che lei non ha considerato: il tempo. In 150 minuti dovevamo rispondere a 6 quesiti, più 2 di comprensione in lingua straniera. Tempo medio a disposizione per quesito: circa 18 minuti, nei quali condensare, con notevole abilità di sintesi, conoscenze e competenze disciplinari, metodologico-didattiche, valutative e normative. Non era un esame, ma una corsa contro il tempo. Non c’era modo di pensare, riflettere, ponderare. Le prime idee che affioravano, buone o mediocri che fossero, si dovevano trascrivere proseguendo il più celermente possibile, pena il rischio di non completare tutti i quesiti.
Le commissioni giudicatrici avrebbero dovuto simulare anch’esse la prova d’esame con tali modalità, prima di accingersi alle correzioni. Allora, forse, taluni giudizi a posteriori sarebbero un po’ meno tranchant.
Gentile Stroppa
Gentile Sabrina Stroppa,
l’effettiva impostazione regionale dei corsi abilitanti fa sì che le situazioni varino sensibilmente a seconda della sede di frequenza. Vorrei rispondere ad alcune delle sue critiche dalla prospettiva opposta, quella del concorsista. Io ho frequentato il TFA in Veneto, e come ho detto le cose possono variare da regione a regione.
Lei sostiene che le domande del concorso, al di là degli eventuali problemi tecnici, dello scarso tempo che avrebbe potuto creare difficoltà (ricordiamo: 2 ore e 30′ per 8 domande fa 15 minuti a domanda, al netto di 10′ per una revisione), erano non solo fattibili ma anche, in un certo senso, ben pensate. Su questo ci possono essere opinioni differenti, ma mi dico sostanzialmente in accordo. Partendo da questo, lei si stupisce dell’inconsistenza delle risposte concorsuali, della scarsa profondità critica, della ristrettezza di vedute – non degli strafalcioni, sui quali una ghignata con lei ce la faremo tutti noi lettori. Penso che in molti, decontestualizzando i testi, potrebbero avere simili reazioni. Il problema – ma la risposta, pur senza approfondire a sufficienza, la fornisce nella conclusione – è appunto il contesto.
Le sostiene in più punti: “mi sarei aspettata”, “ci aspettavamo” o simili. Permetta: dove era scritto che voi vi sareste accontentati di questo, o vi sareste aspettati quest’altro, o che i valutatori non fossero pedagogisti foucaultiani fuori dal mondo con il pallino del rifiuto dell’autorità, e insomma che vi sareste aspettati che i concorsisti ragionassero con la propria testa?
Su sei mesi di TFA, 3 sono stati occupati dalla pedagogia, 3 dalle materie di indirizzo, fra le quali un solo corso su 5 riguardava la didattica della letteratura; forse l’unico corso sensato.
Il TFA è organizzato su tempi ristrettissimi ed esige un cedimento a riflessi pavloviani: loro ci chiedono pedagogia, noi gliela diamo. Vogliono tabelle, fiumi di cooperative learning, oceani di brain storming, bulimie di jigsaw, ecc? Bene, li accontentiamo. A parte pochi patetici pasdaran della pedagogia, nessuno ci crede, ma non ci sono dati né tempi né spazi di autogestione della discussione, dei contenuti ecc. La strada è tracciata, le scadenze sono fittissime, quotidiane: non si sgarra.
Il meccanismo ha una sua complessità: nel momento in cui un soggetto è messo sotto pressione, in cui i tempi di reazione sono ristretti, si è costretti a ricorrere alle scelte più economiche. Le decine e decine di scritti richiesti durante il TFA, che per sei mesi hanno rubato le notti dei partecipanti (la mattina a scuola, il giorno libero al tirocinio a scuola, i pomeriggi a lezione TFA, sera e notte per preparare le lezioni e scrivere pagine e pagine di boiate, che a leggerle adesso ti viene da piangere per la vergogna), devono essere svolte nel minor tempo possibile, e devono corrispondere ai pattern richiesti: no al contenuto sì alla forma; che la forma poi risulti non solo vuota, ma pure inapplicabile, non solo non è un problema di nessuno, ma ci viene esplicitamente richiesto.
La stessa cosa vediamo, ma è solo uno degli esempi fra i molti, nel rimbombo che alcune parole vuote – creatività, innovazione, riforme, industria 4.0, visionari, ecc – hanno nella stampa: scribacchini da 8 articoli al giorno a 1100 al mese, appunto sotto pressione, fra cui tanti amici copywriter, riempiono di simili forme vuote pezzi e pezzi: non per stupidità ma per oggettiva mancanza di tempo. Sotto pressione, si intuisce qual’è la direzione ideologica che viene pretesa, e la si asseconda, basta arrivare a fine giornata, o fine mese. Altrimenti non si ha la pagnotta.
Nel momento in cui si deve affrontare il concorso, la strada più sensata sarebbe quella di ragionare lucidamente sulla situazione nella quale si sta entrando e ricalibrare la prospettiva. Se tutti l’avessero fatto, probabilmente lei non avrebbe dovuto scrivere questo articolo. Assieme a pochi altri colleghi, mi sono speso in tutti i modi per cercare di convincere gli altri concorsisti a mettere da parte la legislazione e i manuali di pedagogia e a fare un bel ripasso generalizzato di contenuti, affrontando con serenità una prova che, come poi si è rivelato, e come dice lei, non era poi malaccio. I pochi che hanno seguito questa strada hanno infatti ottenuto ottimi risultati. Però, permetta, a monte non è necessaria solo un’ottima preparazione letteraria, che secondo me molti di quelli che lei giudica male sotto sotto hanno; quanto una consapevolezza, che non può essere che politica, del fatto che la schizofrenia che abbiamo vissuto – prima ci dicono di seguire in tutto e per tutto una via, altrimenti non si passa; poi lei ci viene a dire che, insomma, siamo stati un po’ stupidotti, a esserci bevuti tutte quelle pedagogerie – non è che un’espressione minima, nell’ordine: di una burocratizzazione dell’esistenza sotto l’egida del neoliberismo; del contrasto che questo conflitto incontra in determinati ambienti, come la scuola, nella quale le tendenze ‘riformatrici’ (in senso renziano, per capirci) si scontrano con altre, convinte ad esempio che la letteratura non sia solo un modo di insegnare la lingua, ma anche qualcosa d’altro, forse più inattuale ma proprio per questo carico di futuro; dell’incapacità dello stato di seguire una propria via nella pianificazione dell’istruzione, tirandosene fuori e appaltando – parlo dal punto di vista ideologico – un simile rovello ai think tank d’oltreoceano.
Le conclusioni cui si dovrebbe giungere, allora, non sono quelle di una scarsa preparazione o di disinteresse rispetto alla disciplina, sul quale non posso dirmi davvero d’accordo; piuttosto, di un’incapacità di decostruzione dell’ideologia e di applicazione di una pratica critica alle situazioni del quotidiano. Ma qui mi fermo, dato che si giunge al famoso muro del rischio.
Un cordiale saluto,
Filippo Grendene
Cosa si voleva valutare davvero?
Gentile professoressa Stroppa,
ho letto volentieri e con grande interesse il suo intervento, che in larga parte però non condivido, e vorrei spiegarle perché.
Mi sembra che il punto centrale da cui partire sia questo: che cosa si voleva valutare davvero con quella prova scritta? L’allora ministra Giannini, nell’imminenza del concorso, fu molto chiara in diverse dichiarazioni la cui sintesi potrebbe essere: “Vogliamo capire se i candidati sono in grado di stare in aula”. Apparentemente la prova è coerente con questa linea: nessun nozionismo fine a se stesso, riferimenti a autori e brani molto conosciuti (i due testi proposti nei quesiti 1 e 2 sono antologizzati da tutte le letterature del pianeta) e una impostazione marcatamente didattica delle richieste. Il tentativo, in sé sensato, di riprodurre in una prova scritta l’operatività didattica del docente è però naufragato di fronte al fattore-tempo, che ha finito per diventare la vera discriminante: sia perché 18 minuti sono appena sufficienti per raccogliere le idee e iniziare a pianificare la struttura di una lezione o di una verifica ma non certo per confezionare il prodotto finale, sia, soprattutto, perché un buon docente, almeno per come la vedo io, non vive di improvvisazione (se anche a volte è costretto da tanti fattori a usare anche quella strategia), ma lavora piuttosto per approssimazione, nel senso che parte da un prodotto grezzo e poi lo rielabora progressivamente, equilibrandone le parti, revisionando i contenuti, modificando molti aspetti che a prima vista potevano magari apparire affascinanti ma che a una più attenta valutazione potrebbero risultare inefficaci in classe, se non addirittura dannosi. Così, quella che in linea di principio era una buona idea, cioè una prova orientata a valutare la capacità didattica di un insegnante, è diventata un test di velocità (“I cento metri di italiano” di cui ha parlato Giunta), in cui ciò che davvero era decisivo è stato, nell’ordine:
1) avere subito delle idee ragionevoli e scegliere una strada che a un certo punto del percorso non presentasse intoppi;
2) trovare rapidamente le parole per esprimere la propria idea in modo decente;
3) saper gestire il tempo e l’ansia;
4) possedere un’anzianità d’aula che permettesse di pescare a piene mani nel proprio patrimonio di esperienze di insegnamento;
5) saper scrivere rapidamente con una tastiera.
In buona sostanza, elementi radicalmente diversi da quelli che volevano essere i fattori valutati nelle intenzioni del MIUR.
Esclusi casi clamorosi, infatti, io penso che moltissimi candidati avrebbero saputo fare molto meglio se messi in condizione di operare diversamente, aggiungendo probabilmente anche alcuni dei riferimenti che lei opportunamente cita, e sono convinto che parecchi avrebbero corretto da soli errori di impostazione causati dalla fretta e dalla tensione.
Anziché tentare di ricostruire in modo artefatto l’operatività dell’insegnante, creando a tavolino condizioni lontanissime dalla realtà (e tralascio il fatto che ogni proposta didattica dovrebbe essere modulata sulla classe in cui verrà proposta, anche se questo aspetto era davvero impossibile da simulare), sarebbe bastato proporre meno quesiti e valutare poi con maggior rigore gli elaborati, senza, oltretutto, costringere le commissioni a una flessibilità mentale che senza dubbio è stata esercitata con intelligenza e criterio ma che altrettanto indubbiamente lascia spazio a interpretazioni soggettive e disomogenee tra regione e regione (e in questo senso la mancanza di una griglia di correzione condivisa a livello nazionale resta, a mio avviso, una clamorosa mostruosità).
La controprova è l’esperienza personale. Se ripenso al mio scritto (che è stato poi valutato con un ottimo punteggio) io non ne sono per nulla soddisfatto: e sono certissimo del fatto che, mutatis mutandis, avrei fatto scelte diverse e molto più opportune dal punto di vista di quella didattica che doveva essere il punto chiave della valutazione. So che mi ha salvato la mia familiarità con il pc, so di aver utilizzato molte idee maturate negli anni di insegnamento che ho alle spalle e sono consapevole di aver avuto la fortuna di imbroccare due o tre intuizioni che devono essere piaciute alla commissione, ma so anche perfettamente che se non mi si fossero accese in quel momento quelle lampadine non sarei certo un docente peggiore, perché magari ci avrei semplicemente pensato dopo qualche ora. Tanto per dire: io ho interpretato il tema dell’estraneità dal punto di vista sociale, ma il terzo titolo da inserire nel percorso di lettura, “Le stagioni di Giacomo” di Mario Rigoni Stern, mi è venuto in mente – si direbbe sulla Gazzetta dello sport – a 6 minuti dallo scadere; resto dell’idea che sia un’ottima scelta per la secondaria di primo grado, ma se non ci avessi pensato in quegli attimi convulsi sarei stato meno degno di superare la prova?
Io credo invece che un passaggio così importante per la carriera professionale e la vita di molti aspiranti docenti si sarebbe dovuto svolgere in ben altro clima, senza costringere professionisti comunque già formati (perché abilitati) a un diventare protagonisti di un circo degradante dal punto di vista intellettuale, realizzando una prova che ben poco diceva della loro capacità di insegnare; mi è sembrata molto più sensata, in questo senso, la prova orale, che prevedeva tempi più lunghi, dava la possibilità di consultare materiali e si svolgeva poi “in presenza”, simulando davvero una lezione.
Che i quesiti fossero belli e intriganti non c’è alcun dubbio: ma le modalità hanno rovinato tutto, trasformando il concorso 2016, secondo la mia opinione, in una gigantesca occasione perduta.
Un’ultima considerazione a margine, proprio riguardo alle discipline oggetto delle prove.
La scelta di fare un unico scritto per l’ambito AD04 e AD08 è stata a mio avviso disastrosa. Non solo perché la didattica dell’italiano nella secondaria di primo e secondo grado è radicalmente diversa (senza parlare delle differenze tra gli istituti tecnici/professionali ed i licei, come ribadito in modo evidente anche dai riferimenti normativi), ma soprattutto in virtù del fatto che le proporzioni tra ciò che si chiedeva e ciò che i vincitori avrebbero poi insegnato sono clamorosamente saltate. Classe di concorso A11 (italiano e latino nei licei): su due prove scritte il candidato rispondeva a 6 quesiti sul latino (prova scritta specifica della c.c. A11), 1 su geografia umana, 1 sulla Costituzione; poi c’erano 3 quesiti generalisti di italiano e solo 2 sulla storia della letteratura (e tralascio, visto che ne ha già parlato l’Accademia della crusca che è molto più titolata di me, la mancanza di un quesiti sulla lingua), cioè su quella disciplina che poi va a impegnare, facendo una media approssimativa, più o meno il 50% delle sue ore di lavoro. Cose che però al MIUR sembrano non essere in grado di capire. Alcune commissioni (poche per la verità, ma tra queste c’era quella che ha valutato me) hanno poi deciso di ingarbugliare ulteriormente la matassa, facendo la media dei due scritti (AD04 e A11) anche nella graduatoria di italiano, dimenticandosi che il latino non si insegna più alle scuole medie dal 1979.
Ciò detto, bisogna riconoscere che strutturare una prova che funzionasse era impresa ardua, e che alla fine molte commissioni hanno agito con ragionevolezza; tuttavia più passa il tempo e più mi convinco che, più che bravo, sono stato abile e fortunato, e che se saprò dare qualcosa ai miei studenti lo dovrò a molte cose che ho fatto (corso abilitante compreso), ma non certo alle qualità che il concorso ha finito, suo malgrado, per valutare.
RE: Concorso docenti 2016: qualche riflessione sulle prove scritte di italiano /1
…”lo spirito di dover affrontare un concorso pubblico, dopo aver studiato a questo fine, [u]con le energie tutte[/u] concentrate sulla prova.”
…”se fosse così, allora leggerebbero romanzi e opere letterarie: [u]leggerebbero notte e dì[/u].”
ma davvero vogliamo che il mestiere degli insegnanti ci totalizzi sino a questo punto?
il buon insegnante è quello che concentra le energie tutte nello studio e che dedica notte e dì alla lettura?
vogliamo che gli insegnanti siano persone che sanno stare nel mondo o degli alienati che si chiudono nella loro disciplina?
l’insegnante è uno che non può avere altro da fare che leggere notte e dì e studiare con le energie tutte? non può avere famiglia, non può avere amici non può avere altre passioni che l’insegnamento?
i buoni insegnanti che ho avuto e che conosco non sono certamente così