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diretto da Romano Luperini

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Concorso docenti 2016: qualche riflessione sulle prove scritte di italiano /1

 Oggi e la prossima settimana pubblicheremo due interventi sul concorso di selezione dei docenti 2016, a firma di due Presidenti di commissione. Oggi pubblichiamo l’intervento di Sabrina Stroppa, Presidente di commissione in Valle d’Aosta. La settimana prossima pubblicheremo l’intervento di Giuseppe Noto, Presidente di Commissione in Piemonte.

Vorrei fare qualche riflessione sulle prove scritte di italiano del concorso docenti 2016, a qualche mese di distanza, e in base alla mia esperienza di Presidente di commissione della classe AD4 e A11: strettamente e quasi naturalmente connessa, come per il collega Giuseppe Noto, a una lunga esperienza di insegnamento e di formazione docenti.

1. La prova scritta tra polemiche e struttura

Non sono state poche le polemiche e le discussioni sul compito – che, lo ricordo, era comune a tutte le classi di concorso umanistiche: dovevano svolgerlo anche i candidati che si presentavano per latino e greco. Ci sono state obiezioni anche ‘illustri’, come quella di Claudio Giunta, sulla difficoltà, quasi impraticabilità delle prove scritte (http://www.claudiogiunta.it/2016/08/i-cento-metri-di-italiano/). Giunta dice che lui stesso avrebbe avuto difficoltà a svolgere i temi: ma lui non li ha letti con lo spirito di dover affrontare un concorso pubblico, dopo aver studiato a questo fine, con le energie tutte concentrate sulla prova. Bisogna tenere conto anche delle condizioni materiali di esecuzione, per poter giudicare serenamente. Sono sicura infatti che Claudio, messo in quelle condizioni, avrebbe svolto brillantemente il compito, come hanno fatto non pochissimi dei nostri candidati: che hanno fatto bene le prove scritte, e bene gli orali, a testimonianza del fatto che di buoni insegnanti ancora ce ne sono, in Italia.

Che il compito fosse lungo è indubbio: ma qui entrava in gioco l’intelligenza e il buon senso delle Commissioni valutatrici, che non si aspettavano certo che per ogni domanda i candidati scrivessero tre pagine, bensì dieci o venti righe ben impostate. Questo è stato, in realtà, il vero problema, e la ragione delle bocciature: non la difficoltà del compito in sé, ma il modo di svolgerlo.

 

Vediamo da vicino i sei quesiti di italiano (gli ultimi due erano di lingua straniera). Il compito era a mio avviso bello e intelligente, perché misurava: la conoscenza della letteratura italiana e la capacità di analisi del testo (quesito 1); la capacità di impostare prove di verifica sensate (2); le letture degli insegnanti (3); la capacità di affrontare dal punto di vista storico, ma rendendolo accessibile agli studenti delle scuole medie, un argomento fondamentale come la Costituzione (4); la conoscenza dei fondamenti della geografia umana (5); una riflessione non banale sulla funzione della letteratura nell’orientamento formativo (6).

2. Letteratura e formazione

Parto da quest’ultimo punto: la frase di Leonardo Sciascia citata nel compito non dice affatto, come scrive Giunta, “quanto la letteratura è importante” (banalizzazione compiuta con prevedibile regolarità in tutti i blog che ho visto in rete). La citazione precisa è: «Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende». A parte il candidato che ha scritto che secondo Sciascia la letteratura insegna agli uomini le loro generalità (e mi astengo dal fare commenti), il più brillante ha notato quanto di provocatorio ci sia in questa frase, e ha risposto di conseguenza. Il problema infatti non era, genericamente, “quanto la letteratura sia importante al giorno d’oggi”, ma che nulla l’uomo sa di sé se la letteratura non glielo spiega. Ma i nostri futuri docenti ne sono davvero convinti? Davvero, nel profondo del cuore? Perché se fosse così, allora leggerebbero romanzi e opere letterarie: leggerebbero notte e dì. E invece dal quesito 3, sul tema dello straniero, emergeva non solo che a nessuno veniva in mente, putacaso, di riferirsi a Lo straniero di Remo Ceserani come quadro teorico, ma anche che l’ottanta per cento dei candidati citava lo stesso testo, Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda (anche nella versione “ci stanno i coccodrilli”), che viene distribuito agli insegnanti dai rappresentanti editoriali, come proposta di lettura per le medie. Pochissimi hanno letto davvero la traccia, che proponeva il tema dell’estraneità: potevano starci Le metamorfosi di Kafka, Dottor Jekyll e Mr Hide, Lo straniero di Camus, Cate, io di Matteo Cellini, o anche Mio fratello rincorre i dinosauri di Giacomo Mazzariol, per dire. Perché accentrarsi tutti quanti sul tema del profugo, se poi non si hanno gli strumenti culturali per affrontarlo?

Ma torniamo all’ultimo quesito: la letteratura come “competenza per la vita” è moneta corrente nei TFA e PAS, e infatti i candidati sapevano tutti citare benissimo le disposizioni europee sul lifelong learning. Il problema, come dicevo, è a monte, ed è cruciale per un insegnante: quando entro in classe, davvero penso che i sedicenni che ho davanti non sanno niente di sé finché non leggono un’opera letteraria che li sveli a se stessi? davvero credo che il mondo di social asociali in cui sono immersi non li rappresenti veramente? davvero so come far capire loro che la vicenda della Gertrude manzoniana è di capitale importanza per la loro vita, e che non si può non farsi venire le lacrime agli occhi – ancora! – leggendo della madre di Cecilia che «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…», e pensando alla veste bianchissima ben accomodata dalla madre sul corpo della bambina morta, segno estremo d’un amore che in quel candore ripone ogni speranza? e che lì c’è, in nuce, tutto ciò che oggi posso pensare sul piccolo Aylan ripreso in mondovisione tra le braccia del suo vano soccorritore? Davvero lo penso?

Pochi candidati, lo si capiva benissimo, lo pensavano veramente. Avevano fretta di citare la legislazione, le normative, di esibire il linguaggio tecnico novellamente appreso (lifelong learning, appunto, per fare un esempio). Non si sono fermati a pensare. E NON perché non ne avessero il tempo: ma perché mai, prima di quel momento, si erano interrogati sul senso di ciò che stanno facendo, sulla necessità della letteratura per la vita. (Avrebbero potuto anche contestare la sentenza di Sciascia, e io personalmente li avrei apprezzati: invece no, tutti a dire ‘quanto è vero e quanto è giusto’…). Se io penso davvero che «nulla di sé e del mondo» sanno gli uomini, eccetera, non trasformo ogni brano che leggo in un odioso e inutile strumento di esercizi retorici. Non consento che gli studenti leggano una poesia solo per recitarmi a pappagallo chi ne sia l’autore, o per “sottolineare le figure retoriche del testo” – esercizio sommamente vuoto e senza scopo, che andrebbe bandito dai libri di testo e dalla mente degli insegnanti. E se in un quesito concorsuale mi viene posto il problema, magari mi fermo un attimo a pensare.

3. La didattica della poesia

Non posso passare in rassegna tutti i quesiti, ma vorrei dire qualcosa sul secondo – nel quale quasi tutti i candidati hanno dato prova di non saper veramente strutturare una verifica su un testo poetico in modo efficace e coerente – e soprattutto sul primo quesito, quello letterario: che proponeva – incredibile dictu – il sonetto 272 di Petrarca. Quando, tutti insieme, abbiamo aperto la prova sulla piattaforma ministeriale (ai commissari non era consentito accedervi in nessun modo: l’abbiamo intravista dietro le spalle dei candidati), dopo il primo istante di incredulità ho pensato a tutti i miei studenti di TFA e PAS, ai quali ho sempre proposto negli anni la lettura ragionata dei sonetti petrarcheschi, come momento inaggirabile – anche per le classi di concorso ex A043 e 50 – dell’addestramento alla lettura di un testo poetico, che passa soprattutto per l’evidenziazione dell’articolazione sintattica entro le strofe. La farò breve: l’ottanta per cento dei candidati ha svolto la prova senza mai citare una riga del testo proposto. Quasi tutti lo hanno collocato all’inizio di un percorso su Petrarca (o, peggio, di un percorso sulla letteratura “del 1300”, roba da far venire i brividi): cosa palesemente assurda, perché bastava leggere il numero d’ordine, 272 appunto, per rendersi conto che è assai difficile iniziare la lettura di un libro come i Rerum vulgarium fragmenta iniziando da lì. Chi inizierebbe un percorso su Dante iniziando dal canto trentesimo del Purgatorio? Ma Petrarca è Petrarca, ovvero il caos: i numeri non contano nel Canzoniere, no? I candidati non avevano tempo di soffermarsi su quisquilie, avevano fretta di squadernare la loro sapienza didattica: che consiste, generalmente, nel dividere la classe a gruppi e far rintracciare loro i temi portanti del sonetto. Uno dirà: ma non mi avevi detto che era la prima lezione su Petrarca? e allora questi disgraziati come fanno a rintracciare i temi portanti, se non sanno nemmeno che cosa sia il Canzoniere? Ah, già, l’insegnante l’ha spiegato nei primi dieci minuti. E allora, una volta rintracciati i “temi portanti” ed enucleata la poetica di Petrarca (beati voi… io non ci sono riuscita nemmeno in anni di lavoro…), che me ne faccio del sonetto in questione? La poetica di Petrarca posso anche leggerla su un manuale: davvero il sonetto serve solo a questo? E la sua struttura? le antitesi? i tre tempi iniziali che diventano due? i tre tempi tutti compresenti all’anima, con il presente che scompare in un punto quasi inavvertibile, secondo la lezione di Agostino? la “fortuna in porto”, che leva all’anima qualsiasi speranza riposta in quel futuro nel quale si sente trascinato?

Mi è sembrato evidente che i candidati – sempre parlando del numero relativamente piccolo che ho esaminato – non avessero mai seriamente ragionato su come si struttura un sonetto, né tantomeno come funzionano quelli di Petrarca. La cosa mi ha colpito, sia perché erano tutti in servizio a scuola da diversi anni, sia perché le antologie, oggi, sono diventati degli immensi e minuziosi meccanismi di analisi del testo poetico: non c’è quasi altro che esercizi di scomposizione e di analisi. Allora forse da soli non bastano? Forse i docenti non dovrebbero confidare troppo, o esclusivamente, negli strumenti di lavoro – che condividono con gli studenti, tra l’altro –, e magari mettersi a studiare? Nessuno dei candidati, va da sé, ha saputo citare un solo titolo di bibliografia critica su Petrarca (solo uno ha menzionato Contini). E sì che gli anni che ci separano dalle celebrazioni del centenario della nascita sono stati fittissimi di pubblicazioni. Ma nessuna sembra essere penetrata nel bagaglio culturale degli insegnanti. Loro obietteranno che badavano soprattutto alla didattica: ma che didattica è quella che, entro la misura della lezione di due ore (precisata nel quesito ministeriale), prevede un’introduzione generale a Petrarca e al Canzoniere, e poi, sempre nelle stesse due ore, fa lavorare a gruppi gli studenti su un sonetto petrarchesco? (senza nemmeno, poi, specificare il tipo di scuola alla quale questa pseudo attività didattica dovrebbe essere rivolta). Con quali strumenti dovrebbero lavorarci gli studenti? E a quali risultati dovrebbero arrivare? Per non parlare del fatto che l’attività era definita cooperative learning, mentre si trattava evidentemente di un semplice “lavoro a gruppi” (perché il cooperative è attività assai più complessa, che va preparata attentamente).

4. Insufficienza dei percorsi abilitanti?

Insomma: non parlo ovviamente per tutti i candidati d’Italia, ma per il campione (una sessantina di persone) che ho esaminato. Ripeto, non ci aspettavamo risposte chilometriche, ma semplicemente una risposta ben impostata. Nella maggior parte dei casi, ci siamo trovati davanti a risposte che denotavano scarsissima attitudine alla lettura e allo studio da parte degli insegnanti, e una insufficiente lucidità nel delineare percorsi didattici efficaci. Eppure erano, ovviamente, tutti passati per il TFA, o il PAS. Potrei avanzare due spiegazioni per questo sostanziale fallimento dei percorsi abilitanti: la loro eccessiva brevità (dai due anni delle SISS si è passati ai quattro mesi di corsi effettivi del TFA, con riduzione drastica e drammatica del tempod edicato alla formazione, alle letture, all’aggiornamento bibliografico), e forse la casualità con cui viene scelto il corpo docente dei corsi abilitanti. È facile registrare che l’impatto più forte l’hanno avuto i corsi ‘tecnici’, quelli di didattica generale e di docimologia, anche se la ricezione è spesso difettiva: i candidati menzionavano a ogni piè sospinto il brain storming (anche nella versione bread storming, che ci ha causato un accesso di ilarità), il cooperative learning, eccetera, ma non sembravano poi particolarmente capaci di dare effetto alle parole, e di progettare, per le classi, percorsi didattici che corrispondessero realmente a quelle metodologie. Impatto più debole hanno avuto, evidentemente, i corsi disciplinari, quelli di didattica della letteratura, che non sono riusciti a penetrare a fondo: forse perché richiedono ben altri tempi di metabolizzazione, e una disposizione personale allo studio e alla lettura continui. Un discorso autentico sulle competenze, ad esempio, non l’ho trovato in nessuna risposta: segno, forse, che le mappe troppo minuziose e spesso opinabili proposte da CompIta, articolate su una successione progressiva di singole competenze che dovrebbero allargarsi, nel triennio, dal testo all’opera all’autore – mentre il curricolo segue una scansione cronologica di storia letteraria, evidentemente in contrasto con questa impostazione –, non riescono a creare effettive “buone pratiche”; o che ancora la riflessione, una riflessione all’altezza dei compiti, non è penetrata fino alla platea degli insegnanti di italiano, considerata nella sua ampiezza.


 

Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2016, lettore.

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