Nota di traduzione. Su Gianni Celati e “Ulysses”.
Una traduzione audace
Che fosse il profilo di un uomo grasso, quello che si stagliava dalla cima delle scale della torre di Sandycove, sembra un fatto unanimemente riconosciuto. Meno chiaro è se il nostro uomo si trovasse già al centro della scena all’apertura del sipario sullo scomodo palcoscenico verticale rappresentato dalla Torre Martello, oppure se proprio in quel momento «stava sbucando» fuori. Una licenza tanto veniale — che rende l’originale «came from the stairhead» con, appunto, «stava sbucando dal caposcala» — condensa perfettamente il senso complessivo dell’operazione di Gianni Celati nella sua recentissima traduzione dell’Ulisse di James Joyce. Plausi, più che botte, per una traduzione con molti limiti (e come potrebbe essere altrimenti quando si tratta di Joyce?) ma senz’altro audace da più punti di vista.
Senza apparati
Il primo motivo di interesse nell’operazione di Celati non passa facilmente inosservato, nemmeno per il più distratto lettore dell’Ulisse (romanzo eternamente “impossibile da leggere”): l’eliminazione totale di qualsiasi resoconto, sunto, apparato, commento, nota a piè pagina o bio-bibliografia. Un fatto sorprendente, tanto più se si guarda alle due ottime edizioni italiane che lo avevano preceduto (De Angelis nel 1960 per Mondadori e Terrinoni nel 2011 per Newton Compton) che non avevano esitato ad aiutare il lettore alle prese con «un libro la cui innegabile difficoltà è dovuta a fattori interni ed esterni al testo stesso» attraverso apparati critici e commenti (De Angelis 1960: 67). Il monumentale capolavoro di Joyce non è un romanzo qualsiasi. Si potrebbe forse sostenere, con una minima provocazione, che non è mai stato propriamente un romanzo. La conferma viene da Franco Moretti che, in apertura ad Opere mondo, lo inseriva in un elenco di «oggetti misteriosi» tra cui spiccano il Faust (naturalmente di Goethe, in particolare il secondo), La terra desolata e Cent’anni di solitudine. «Questi non sono libri qualsiasi», notava Moretti, «sono monumenti. Testi sacri: che l’Occidente moderno ha a lungo scrutato, cercandovi il proprio segreto» (Moretti 1994: 3). Testi, aggiungeva il critico, che non possono circolare da soli, ma che sembrano necessitare di un supporto che scuole e università occidentali hanno sempre offerto volentieri. L’Ulisse è sempre stato come un signore anziano incontrato sull’autobus: bisognava lasciarlo parlare per rispetto, così «lungo» e «noioso» come si presentava (Moretti 1994: 6). Torna alla mente un giudizio estremamente tranchant di Jameson, che non esitò a definire l’ultima parte del capolavoro joyceano «boring» (Jameson 2007: 137). Eccessi di critici a cui il successo ha preso la mano? Di sicuro, i giudizi poco lusinghieri di Jameson e Moretti coglievano nel segno quando consideravano simile capolavoro come dipendente dall’istituzione scolastica: un testo in crisi di identità e continuamente bisognoso di conferme.
Il merito della nuova traduzione di Celati è di aver trasformato l’Ulisse in quello che, almeno in Italia, non è mai stato: un romanzo. Privato dei suoi pesanti schemi e apparati — che suggerivano al lettore dove e cosa ricercare per superare quel simbolismo ininterpretabile che faceva inquietare persino un lettore paziente come Auerbach — e corredato di una minima (forse addirittura evitabile) nota di traduzione, quest’opera mondo così messa a nudo dimostra una indipendenza forse insperata.
La sfida al significante
Il secondo fattore di rischio, che conferma il coraggio del nuovo traduttore, è stato quello di accettare in pieno la sfida che Joyce lanciava al significante più che al significato. Convinto che l’Ulisse fosse «un libro scritto da qualcuno che doveva diventare tenore» (Celati 2013: IX), Celati calca la mano sulle ritmiche del testo, concedendosi licenze a cui né De Angelis né Terrinoni si erano abbandonati. Il risultato complessivo è quello di un testo alleggerito e risuonante di una musicalità che le precedenti traduzioni non riuscivano a riprodurre.
Nella prima parte del romanzo la traduzione Einaudi rispetta complessivamente la precedente di Mondadori, confermando come lo sforzo di quello “specialissimo dilettante” che l’aveva curata sia ancora oggi convincente, nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni dalla sua comparsa. Già nei primi episodi, però, man mano che Joyce si congeda dal naturalismo e si abbandona a qualcosa che nemmeno la modernista Virginia Woolf sembrava apprezzare fino in fondo, la traduzione di Celati si distingue per ritmo e freschezza. Vale comunque la pena di sottolineare come non siano rilevabili differenze notevoli, è solo un dipinto che riprende luce e brillantezza dopo un restauro conservativo che rispetta attentamente la tessitura originale:
Cameriere dal grembiule malmesso raccoglieva piatti untuosi che facevano un baccano da acciottolato. Rock, l’usciere, stando al bancone soffiava via lo strato di schiuma dal boccale. Ben mirata: sparse una macchia gialla vicino alla sua scarpa. Un cliente, coltello e forchetta voltati all’insù, gomiti sul tavolo, pronto per una seconda portata fissava il monta piatti che saliva, slumando al di sopra del rettangolo macchiato del giornale (Joyce 2013: 233).
Così Celati, che illumina con qualche sfumatura la già ottima (e più scolastica) traduzione Mondadori:
Un cameriere mal succinto raccoglieva i piatti acciottolanti vischiosi. Rock, capo uscire, ritto al bar, soffiava via la corona di schiuma dal boccale. Bene in alto: gialla ricadde vicino alla scarpa. Un cliente, coltello e forchetta inalberati, gomiti sulla tavola, pronto per una seconda portata, fissava il montacarichi al di sopra del rettangolo macchiato del giornale (Joyce 1960: 165-66).
Le differenze più marcate, ovviamente, emergono soprattutto nella terza sezione dell’opera, quando l’incontro tra Figlio e Padre è avvenuto e la notte inizia a calare sulle strade di Dublino. La complessità della nuova traduzione viene esaltata nelle scelte relative al visionario episodio Circe: in questo contesto notturno di bordelli e prostitute, i fischi e i cori dei personaggi sembrano dare ragione a chi, con estrema cura, ha lavorato molto sul timbro musicale di un romanzo polifonico:
Un piatto va in pezzi; una donna strilla, un bimbo frigna. Bestemmie d’un caio che ruggisce, barbuglia, poi smette. Tutt’intorno vagano sagome che s’appiattiscono, spiando dai loro cunicoli da conigli. In una stanza dove brilla una candela piantata sul collo d’una bottiglia, una battona disfa col pettine i nodi nei capelli d’un bimbo scofoloso. Voce di Cissy Caffrey, ancora giovane, canta a strillo da un vicolo. (Joyce 2013: 591)
Rime interne, allitterazioni, onomatopee e paronomasie rendono suggestivamente quella musica aritmica che Joyce cercava di riprodurre con ampio uso di figure di suono:
A plate crashes; a woman screams; a child waits. Oaths of a man roar, mutter, cease. Figures wander, lurk, peer from warrens. In a room lit by a candle stuck in a bottleneck a slut combs out the tats from the hair of a scrofulous child. Cissy Caffrey’s voice, still young, sings shrill from a lane. (Joyce 1992: 413)
Mentre De Angelis dimostra una minore propensione a sperimentare, soprattutto quando cerca di rendere il canto licenzioso e ridanciano di un’allucinata Cissy Caffrey,
A Molly l’ho pur dato
A quella mattacchina,
Del gatto lo zampino,
Del gatto lo zampin
(Joyce 1960: 417)
Celati, con pochi tocchi, rende più musicale (e letterale) il tributo alla canzoncina da postribolo:
Ne feci regalo a Molly
Bella con fianchi molli
Ma la gamba da papera
Ma la gamba da papera
(Joyce 2013: 591)
I gave it to Molly
Because she was jolly,
The leg of the duck
The leg of the duck
(Joyce 1992: 430)
Impossibile, o forse inutile, ripercorrere diffusamente il testo in cerca di differenze. Un’ultima menzione è da riservare al celebre monologo di quella Molly assente per quasi tutto il testo e solo per notare come in un simile luogo così impervio tutte le traduzioni (De Angelis, Terrinoni e Celati) si avvicinino molto fra di loro, come se le imbarcazioni dovessero navigare a vista per evitare scogli affioranti.
Aperto, come l’Ulisse, resta l’interrogativo suggerito dalla quasi contemporaneità delle due nuove traduzioni italiane di Joyce: a fronte della notevole versione pubblicata da Terrinoni e Bigazzi, era davvero necessario lo sforzo di Celati? Di certo i tanti anni impiegati dal romanziere italiano per dialogare con Joyce hanno prodotto un risultato rinfrancante, come la lettura di questo Ulisse, un po’ meno distante ed un po’ più romanzo.
NOTA
Testi citati
Celati, Gianni. 2013. Il disordine delle parole. Su una traduzione dell’«Ulisse» di Joyce. In Joyce 2013.
De Angelis, Giulio. 1960. Premessa. In Joyce 1960.
Moretti, Franco. 1994. Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine. Torino: Einaudi.
Jameson, Fredric. 2007. Ulysses in History (1980). In The Modernist Papers. New York: Verso.
Joyce, James. 1960. Ulisse. Trad. G. De Angelis. Milano: Mondadori.
Joyce, James. 1992. Ulysses. New York: The Modern Library.
Joyce, James. 2011. Ulisse. Trad. E. Terrinoni con C. Bigazzi. Roma: Newton Compton.
Joyce, James. 2013. Ulisse. Trad. G. Celati. Torino: Einaudi.
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