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Le suole basse di Celati

Lo ammetto e me ne scuso: ho conosciuto Celati da poco. Avevo letto qualche frammento, non ricordo dove. Il giorno dopo sono andata in libreria e ho comprato tutto quello che ho trovato: “Verso la foce”, “Passar la vita a Diol Kadd” e “Cinema all’aperto”. Quando sono arrivati i libri e i dvd sono andata a casa, ho spento le luci per incontrare un uomo di cui, se fossi nata prima, mi sarei innamorata: un viso da esploratore nordico, una scompostezza stranamente aggraziata in certe pose, una voce che mi ha fatto pensare a qualcosa di morbido che rotola lungo un pendio d’erba.

Di Celati ho amato subito la scrittura pacata e precisa, il suo raccontare usando le parole come passi lenti lungo una via; un andare a suole basse, in accordo con quello che c’è e con i fatti che non accadono. Lezione maestra in cui lo scrittore si svuota di bordi e appartenenze, in uno smembramento leggero in cui si compara a ogni cosa.

Quando ero piccola, mia madre voleva che io leggessi soprattutto romanzi, ma a me i romanzi non piacevano, e non mi piacciono nemmeno oggi. Dei racconti non mi sono mai fidata: troppa fatica nel costruire personaggi e storie. Perché? Niente ti viene incontro a mani vuote. La scrittura deve raccogliere, accompagnandoti alla scoperta di quello che non vedi per eccesso di presenza. La scrittura di Celati parla in fondo proprio di questo: della nudità di ogni incontro possibile solo se è l’accadimento puro a vincere sulle pretese della trama. Cura, attenzione, piano. Lasciare le cose l’una accanto all’altra, sfiorarle con le parole a lieve distanza. Più che le forme piene, considerare gli spazi vuoti: Celati invita a pensare l’intervallo come evento concreto. Sui gradini di una scala, sulle panchine di un parco, seduti su un marciapiede, lungo una strada qualsiasi di un posto qualsiasi, lo spazio si apre e respira, la vita è un’immagine di aria e pietra, di gesto e assenza. La sfocatura diventa definizione estrema, e l’intervallo cosa visibile. Tra l’albero e la pianura sullo sfondo, tra le case e i canali che si perdono in lontananza, ecco che tutto quanto si credeva disperso si trova riunito e vivo.

Nelle immagini di Celati le parole, frontali e senza trucco, nominano le cose, senza livelli né giudizi. Nomenclatura senza tassonomia in cui tutto diventa bianco, disponibile e vasto. Niente di utile e niente che non serva. Tocco perfetto dell’esserci dove tutto concorre, anche ciò che manca. Nelle scene di “Case sparse”, nei racconti di “Verso la Foce”, ritrovo il calore che prepara un travaglio e la pace che segue il parto, la speranza disperata che giace in fondo a ogni cosa, il nostro silenzio di passeggeri che non restano. E senza nostalgia: le parole e i luoghi stanno in una luce di giorno maturo, di bella stagione. Le rovine delle case sono un pane raffermo lasciato da qualcuno in strada, dietro un’erba sempreverde e una brezza senza nomi. Intanto il sole gira, e il tempo che passa è tutto ciò che resta.

Celati non racconta storie precise: i fatti evaporano. Non restano che percezioni in volo planare. Coi suoi personaggi puoi parlare del più e del meno, ma anche passargli accanto come fossero ciclamini in un bosco. Le loro attese non aspettano niente. Anche a Celati, ripreso con amici, operatori e passanti, stanno bene le ore vuote, il niente da dire, le spalle voltate, il poco da fare, i ritardi, le aspettative deluse, perché sa bene che l’imperfezione, la macchia, lo scarto, più che un’obiezione alla bellezza della vita, tante volte sono il palo a cui leghi l’aquilone.

Se mi fermo a pensare a tutte le cose che più amo della vita, mi accorgo che il vero talento della bellezza è di non averne in fondo alcuno. Sono brutti i giorni pieni solo di fretta, di luci accese senza scopo, di tutte le miserie dell’eccesso. Leggendo Celati, il rimedio è andare, respirare, fare sempre e ovunque. Operare una fede poetica che non è né rinuncia né preghiera, ma un lavoro lieto, attento e disponibile a ogni cosa della vita: viaggio plurale, viaggio senza ritorno.

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