Per un mutamento del paradigma educativo: dal neoliberalismo scolastico all’educazione democratica. Intervista a Christian Laval
LN si prende una pausa estiva. Nel prossimo mese e mezzo ripubblicheremo alcuni articoli usciti quest’anno. Auguriamo a tutti i nostri lettori e lettrici buone vacanze. Ci rivediamo i primi di settembre.
L’intervista è stata realizzata da Juana Sorondo (Universidad Autónoma de Madrid). Nella versione integrale essa compare come capitolo 10 del volume Regímenes de verdad en educación, a cura di Héctor Monarca (Editorial Dykinson, Madrid 2024, pp. 175-186. Il libro è scaricabile liberamente a questo indirizzo). L’intervista viene qui tradotta e riprodotta per gentile concessione degli autori ed è a cura di Davide Borrelli.
Juana Sorondo: La sua ricerca […] nel campo dell’istruzione – in particolare L’école n’est pas une entreprise (2004) e La nouvelle école capitaliste (2012) – si è concentrata sull’analisi delle mutazioni neoliberali nella scuola e ha lasciato un segno nell’approccio che la ricerca educativa dedica al tema. Pensa che il neoliberalismo sia un quadro concettuale sufficiente per gli studi sull’istruzione?
Christian Laval: No, di certo. È un “quadro concettuale” indispensabile per capire il cambiamento dei sistemi educativi sulla spinta globale di un nuovo paradigma educativo che, in una fase di maggior competizione economica, considera prioritaria la formazione delle “risorse umane” per gli apparati produttivi. Ci fa comprendere che le politiche neoliberali pretendono, ben al di là dell’ambito economico, di trasformare tutta la società e tutte le istituzioni secondo una logica normativa globale. Ciò significa che la razionalità capitalista va oltre la sfera economica in senso stretto, fino a diventare la norma universale delle attività e delle condotte, e che si trasforma anche in un modo di governare gli individui e le società. Evidentemente, questo non è sufficiente per gli studi sull’istruzione. Sarebbe estremamente riduzionista e, dunque, un grave errore epistemologico. Come sosteneva Max Weber, vanno rifiutate le spiegazioni “monocausali”. In primo luogo, perché i sistemi educativi sono il prodotto di sedimentazioni, modi di governare studenti e ideologie politiche molto diverse nel corso del tempo. La scuola neoliberale è l’ultimo sedimento, che modifica le forme precedenti ma senza annullarle del tutto. I riformisti neoliberali possono sognare di fare del passato una tabula rasa, ma ciò è impossibile. Prendiamo un esempio: i sistemi educativi si sono costituiti storicamente nel momento in cui gli Stati nazionali si stavano affermando e consolidando. Hanno mantenuto una dimensione nazionale – perfino nazionalista – nei loro valori, obiettivi e curricoli scolastici. Non possiamo studiare il campo dell’istruzione senza tener conto del principio di sovranità che ha permeato anche le “educazioni nazionali”. Potremmo risalire archeologicamente ancora oltre nella ricerca delle origini e interrogarci sull’impronta della Chiesa sui modelli pedagogici, anche nei sistemi educativi presunti laici, come nel caso francese… Né, d’altra parte, si deve pensare che gli educatori obbediscano a ordini come soldatini, dato che in realtà resistono per quanto possono alla realizzazione della “nuova scuola capitalista”.
J.S.: Il femminismo e le prospettive decoloniali sottolineano l’importanza di prendere in considerazione […] l’articolazione costitutiva e originaria tra capitalismo, patriarcato e colonialismo. Che pensa di tali prospettive? Potrebbero essere collegate o integrate negli studi sul capitalismo neoliberale, soprattutto nel campo dell’istruzione?
Christian Laval: […] È necessario combinare gli approcci, senza escluderne nessuno, non foss’altro perché il reale è un complesso eterogeneo, storicamente costituito da modalità di potere precedenti al capitalismo o specifiche delle regioni del mondo che hanno sofferto il giogo coloniale. Il fenomeno del “colonialismo”, ad esempio, può illuminare anche il modo in cui lo Stato centrale ha colonizzato culturalmente, soprattutto attraverso la Chiesa e la scuola, le sue periferie interne, cioè tutte le province e regioni che avevano lingue, costumi e culture proprie. È evidente che nei sistemi educativi si ritrovano tutte le divisioni sociali, tutte le disuguaglianze di classe, di razza, di genere, e che è necessario un approccio “intersezionale” proprio per evitare una lettura unilaterale. Ma è interessante anche vedere come una logica normativa dominante come il neoliberalismo assuma, estendendole e modificandole, le linee di divisione di classe, razza e genere. In Francia, come altrove, si osservano fenomeni di segregazione etnica molto profondi nelle scuole. La logica della competizione relativa ai “mercati scolastici locali” ha accentuato il fenomeno. Potremmo anche chiederci che cosa produce la competizione in termini di disuguaglianze di genere nel campo dell’istruzione.
J.S.: Nelle sue analisi delle trasformazioni neoliberali nella scuola […] Lei insiste sull’importanza di considerare la capacità del neoliberalismo di adattarsi a principi già esistenti nei contesti locali, dove la logica competitiva si reinventa e assume forme particolari. Che posto deve avere questa eterogeneità nella teoria e nelle analisi empiriche? Come si declina l’interpretazione della “nuova scuola capitalista” nei diversi contesti socioculturali? In che modo le singolarità di tali contesti possono contribuire a rendere visibili alcune controversie o contraddizioni?
Christian Laval: Nostro obiettivo principale era mettere in evidenza che c’era un nuovo paradigma mondiale in educazione. Venti o anche solo dieci anni fa questo era il punto importante in prospettiva teorica e politica, semplicemente perché i sistemi educativi si presentano come realtà nazionali, fortemente legate alle specificità di ogni Paese. Era necessario in qualche modo rendere visibile ciò che era celato in ogni Paese: una certa trasnazionalità delle politiche neoliberali (cfr. il libro pubblicato nel 2010 con Isabelle Bruno y Pierre Clément, La Grande mutation, néolibéralisme et éducation en Europe).
I libri che da solo o in collaborazione ho dedicato all’educazione si riferiscono alla situazione francese, tuttavia abbiamo sempre tentato di stabilire paragoni con altre situazioni. […] Si tratta di tener conto insieme del quadro generale – l’imposizione universale di un nuovo paradigma– e delle particolarità sociali, politiche e culturali di ogni situazione nazionale. Ad esempio, ci siamo chiesti come i governi di uno Stato come la Francia che si dichiara repubblicano, oltre che addirittura un modello di laicità, siano riusciti, nonostante questa particolarità politico-culturale, a introdurre progressivamente uno spirito di redditività e di efficienza, in altre parole, lo “spirito del capitalismo”. Il discorso dell’”occupabilità” come forma di integrazione nella “comunità nazionale” ha giocato un ruolo fondamentale, così come il nuovo modo di concepire la conoscenza come fattore di innovazione economica e tecnologica, piuttosto che come vettore di emancipazione.
Una delle questioni calde è la strumentalizzazione delle “nuove pedagogie” nel paradigma neoliberale. Si tratta di un vero e proprio terreno di scontro, che richiede, per essere affrontato, una deviazione nell’antropologia politica: a quale tipo di individualità si rivolgono le pratiche e le dottrine pedagogiche? Ciò richiederebbe ai sostenitori delle cosiddette “nuove pedagogie” uno sguardo riflessivo sulle loro stesse teorie. In generale, l’imposizione del nuovo paradigma neoliberale costringe a rivedere le posizioni critiche, in quanto esso ha ripreso le critiche alla “scuola tradizionale” per metterle al servizio di una riforma capitalista dell’educazione.
J.S.: Potrebbe approfondire quest’ultima idea sulla necessità di una revisione delle posizioni critiche della “scuola tradizionale”? Ci imbattiamo spesso nell’idea di un modello istituzionale scolastico “tradizionale”, “oppressivo”, “disciplinare”, ecc. che viene posto come principio esplicativo fondamentale dei problemi del settore – concepiti, soprattutto dalle posizioni “progressiste”, in termini di inclusione/esclusione da e nel sistema educativo. Quali sono, a suo avviso, la portata e i limiti di questi approcci?
Christian Laval: Le riforme neoliberali sono state sostenute da studi che hanno mostrato i fallimenti del sistema educativo rispetto all’ideale universalistico ed egualitario che professava. In questo senso si sono usate le prove PISA OCSE per sottolineare il bisogno di cambiamento. I neoliberali volevano ottenere una sorta di monopolio della critica per presentare il loro modello competitivo come the one best way, a scapito delle proposte progressiste più tradizionali, che chiedevano, al contrario, una maggiore regolamentazione del reclutamento scolastico per rafforzare la coeducazione o un aumento del sostegno pedagogico agli studenti. I neoliberali hanno soprattutto cercato di sfruttare tutto ciò che nelle “nuove pedagogie” andava in direzione dell’individualismo e dell’utilitarismo. Ad esempio, le categorie di “interesse”, “progetto” o “competenza” sono state integrate nella dottrina neoliberale di un’educazione incentrata sul “capitale umano” e sull’”occupabilità”. Perciò, mi pare che le diverse correnti dell’“Educazione Nuova” avrebbero dovuto differenziarsi maggiormente da questa nuova ortodossia, e valorizzare il primato della cooperazione, la democrazia e l’uguaglianza nelle pedagogie che sostengono. Perché tali pedagogie sono “democratiche” solo se mettono in discussione l’”individualismo competitivo” che è l’ideologia dominante delle nostre società.
C’è bisogno dunque di un vero e proprio lavoro critico sulle nuove retoriche e sulle misure che ne derivano. L’”inclusione”, ad esempio, è una questione che è stata interpretata in maniera distorta. La scuola dovrebbe essere “inclusiva” nel senso che la sua funzione sarebbe quella di preparare l’integrazione di tutte e di tutti nel mercato del lavoro, ai diversi livelli gerarchici dell’economia data. Ma un’educazione autenticamente democratica deve aspirare all’uguaglianza reale di accesso ai beni della cultura, in vista di una società più egualitaria possibile, senza conformarsi dunque alla gerarchia di posizioni e di livelli imposti dal capitalismo.
J.S.: Nelle sue risposte lei fa riferimento all’intreccio specifico del contesto tra la logica normativa globale e transnazionale del neoliberalismo, da un lato, e i diversi principi sedimentati nei sistemi educativi e nelle posizioni progressiste o critiche, dall’altro. Possiamo pensare a questa molteplicità normativa di fatto come a una delle condizioni di possibilità dell’egemonia neoliberale?
Christian Laval: Non credo sia così semplice. La scuola – così come lo Stato – non è un blocco omogeneo. È importante rendersi conto che una scuola puramente capitalista è un “idealtipo” sul piano teorico e, nello stesso tempo, un orizzonte normativo per i riformisti neoliberali guidati dai principi di una “economia dell’educazione”, per la quale ci sarebbero attori economici che “investirebbero” negli studi per accumulare capitale umano. Non sono ancora riusciti a fare tabula rasa del passato. È proprio nel passato che gli educatori di oggi trovano ideali e modelli per un’educazione non capitalista. In Francia, l’ideale repubblicano, tuttora in vigore, afferma che la scuola dovrebbe formare “cittadini” piuttosto che consumatori o “imprese di se stessi”. Il neoliberalismo sta gradualmente erodendo tali linee di difesa ereditate dal passato. Per questo abbiamo bisogno di un progetto per il futuro che sia un’alternativa democratica al paradigma neoliberale.
J.S.: […] Nel libro Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà (Novalogos, Aprilia 2022) Lei e Francis Vergne proponete una difesa dell’istruzione come servizio pubblico – più precisamente, come servizio del comune – contro la sovranità dello Stato. In questo modo, si oppone alla “sinistra statalista”, che non riflette sui principi e sugli interessi alla base dei servizi che richiede. Ciononostante, il “diritto all’istruzione” e la denuncia delle esclusioni da e all’interno del sistema educativo rimangono tratti distintivi per coloro che si oppongono – almeno discorsivamente – al neoliberalismo. Quali sono, secondo lei, la portata e/o i limiti di questi discorsi che danno forma alle lotte educative? È possibile evitare una naturalizzazione dello Stato educatore nella richiesta di istruzione obbligatoria come servizio pubblico fondamentale? […]
Christian Laval: Quando parliamo di Stato, stiamo parlando di differenti realtà che si sono intrecciate nel corso del tempo. Lo Stato si è costruito sul pilastro del potere sovrano, cioè sull’idea che in un determinato territorio non vi sia nessun potere superiore ad esso. Alla fine del XVIII secolo, questo sovranismo assunse un’aria più democratica, con l’idea che la sovranità fosse ora del “popolo”. Ma la democrazia rappresentativa, legata a un’amministrazione burocratica, non ha messo gli organi dello Stato sotto il reale controllo del popolo. Ci sono volute molte ardue lotte perché lo Stato ampliasse il suo campo di intervento e diventasse lo Stato sociale ed educativo che conosciamo oggi. Ma questo Stato non è indipendente dal sistema di dominio capitalista e burocratico, ne rimane uno dei fulcri, anche se ha dovuto negoziare con le richieste popolari e le aspirazioni democratiche. Dobbiamo lottare affinché i servizi pubblici siano veramente al servizio della popolazione e rispondano ai bisogni fondamentali; per questo è necessario cambiare il modo in cui sono governate non solo le scuole, ma anche gli ospedali, le case di riposo e i trasporti pubblici.
Perciò, nella lotta al neoliberalismo è necessario combinare una difesa dell’eredità progressista del “servizio pubblico” con proposte radicali per la democratizzazione di tali servizi. Non basta difendere la “scuola pubblica” contro la “scuola di mercato”, perché la scuola pubblica esistente, burocratica, nazionalista e diseguale, riflette molto poco i valori progressisti e offre poca resistenza alla logica dell’educazione capitalista. I sistemi educativi devono essere trasformati in “istituzioni del comune”, il cui principio è che ciò che viene messo in comune deve essere deciso e controllato democraticamente dal popolo, dagli utenti e da chi ci lavora.
J.S.: Nella posfazione del 2012 a La nouvelle école capitaliste, e poi in Educazione democratica, Lei insiste sul carattere strategico delle lotte sociali nel campo dell’istruzione. Allo stesso tempo, pone in evidenza l’errore dei discorsi incentrati sulla scuola, che richiedono una trasformazione della scuola che non cerca una trasformazione dell’ordine sociale capitalista. Quali sono per lei le condizioni perché le lotte educative possano realmente condurre a una messa in discussione del capitalismo? Qual è il ruolo della ricerca in tale contesto?
Christian Laval: Nel nostro ultimo libro, Educazione democratica, critichiamo la sostituzione dell’obiettivo di trasformare la società in senso socialista con un obiettivo molto più limitato di conseguire l’uguaglianza sociale attraverso il sistema scolastico. In sintesi, […] il socialismo è stato abbandonato a favore dello scuolacentrismo. È un’ideologia che vuole farci credere che il progresso dell’uguaglianza sociale può derivare solo da una riforma della scuola, il che è del tutto illusorio. E poiché non è possibile una scuola egualitaria in una società diseguale, tale ideologia contribuisce a una valutazione costante della scuola e dei docenti. Se è vero che esiste un margine di manovra per i docenti, che possono e devono usare la loro relativa libertà per sviluppare pratiche il più possibile democratiche, è sempre bene ricordare che non sono loro a scegliere le condizioni economiche, sociali e culturali in cui vivono i loro studenti. Qualsiasi lotta nel campo dell’istruzione deve quindi cercare di articolarsi con altre lotte, per i salari, gli alloggi, la pianificazione urbana, le condizioni e gli orari di lavoro, l’accesso alla cultura, ecc. I ricercatori hanno una grande responsabilità in questo senso. Troppo spesso una certa tendenza alla specializzazione accademica ha portato a trascurare il quadro generale della società e tutti i legami tra il campo dell’istruzione e le altre dimensioni della vita sociale. I ricercatori devono recuperare il vero senso del lavoro sociologico, che consiste nel mettere in relazione ciò che si presenta come separato nelle rappresentazioni sociali. Pertanto, una “sociologia dell’educazione” non dovrebbe mai chiudersi in se stessa, credendosi indipendente da una sociologia economica o urbana.
J.S.: In Educazione democratica Lei e Vergne vi rifate a una tradizione che tende a ridefinire la funzione socializzatrice della scuola come produzione di soggetti trasformativi. Quali mediazioni ritiene necessarie per avanzare collettivamente verso questa “rivoluzione della scuola” in un contesto in cui il neoliberalismo si impone nella produzione delle istituzioni, dei vincoli sociali, delle identità e delle soggettività? Come pensare collettivamente le “pratiche trasformatrici”a cui si riferisce in questo libro, per evitare che restino limitate al livello della micropolitica?
Christian Laval: La situazione dei docenti non è facile, sempre più privati di libertà e autonomia nel loro lavoro. E tuttavia non è senza speranza. Credo fortemente nel potere del “collettivo” e nel suo carattere ciclico. Stiamo vivendo un periodo di “privatizzazione” degli individui, per citare Castoriadis. Però può cambiare all’improvviso, la tendenza non è irreversibile, come dimostrano i movimenti educativi degli ultimi anni in Francia e in molti altri Paesi. Il libro Educazione democraticasi rivolge a lettori individuali, ma anche a collettivi, associazioni, sindacati. Ricordiamo il messaggio di Célestin Freinet ai suoi allievi: “non restatevene da soli”!
Quello che volevamo sottolineare era, innanzitutto, l’importanza di darsi un progetto alternativo di società e, in questo quadro, di formarsi una prima idea dell’educazione auspicabile che vorremmo realizzare. Non basta essere consapevoli della necessità di una rottura nei modi di produrre e di vivere. Dobbiamo fare in modo che le persone vogliano cambiare per un “altro mondo possibile”. Dobbiamo anche chiederci fin da ora come educare i bambini e le bambine che saranno i cittadini e le cittadine di domani, e che avranno il pesante fardello di riparare il più possibile le rovine che il capitalismo lascia dietro di sé. Quello che abbiamo voluto fare è stato, inoltre, contribuire a riflettere sul legame tra le pratiche concrete che possiamo mettere in atto ora, anche in modo molto modesto e marginale, e l’obiettivo generale della rivoluzione sociale e scolastica. Il possibile di oggi è già la prefigurazione del reale di domani.
Ancora non ci sono le “mediazioni” come le chiama lei. I sindacati devono mettersi in discussione e, con un piccolo gruppo di colleghi, abbiamo avviato una vasta riflessione sulla rifondazione dei sindacati, che deve integrare la prospettiva di rottura di cui abbiamo parlato. È giunto il momento di dotarci di strumenti professionali radicali, che portino avanti un progetto globale di trasformazione della società e dell’educazione. […]
Sono un forte sostenitore degli scambi “transnazionali”, sia dal punto di vista scientifico che pratico. Così come il paradigma neoliberale trascende le frontiere, anche le lotte contro questo modello e per un modello alternativo devono essere “transnazionali”.
J.S.: Come vede questi scambi “transnazionali” per combattere il modello neoliberale? Come prefigura un modello alternativo di scambio nella produzione scientifica in un contesto in cui i criteri di “eccellenza accademica” che regolano la produzione di conoscenza rafforzano non solo la logica della competizione, ma anche quella della colonizzazione?
Christian Laval: Al momento osservo che ci sono iniziative isolate di accademici che formano reti scientifiche alla ricerca di alternative, ma senza che si sia ancora formato un grande movimento internazionale; che invece avrebbe potuto avere luogo sulla scia dell’alterglobalizzazione. Si tratta infatti di un problema generale: la transnazionalizzazione della ricerca, della resistenza e delle alternative è difficile da attuare perché i “costi di transazione”, per dirla con gli economisti, sono piuttosto elevati, e i ricercatori sono sottoposti a una pressione competitiva per l’”eccellenza accademica”, come lei giustamente dice. Ma, allo stesso tempo, credo sia possibile sovvertire uno dei criteri di questa “eccellenza accademica”, ovvero l’”internazionalizzazione delle fonti e delle opere”. La circolazione internazionale di ricerche, traduzioni, interviste e conversazioni è anche un passo verso la condivisione globale di analisi critiche e proposte alternative. Ma qual è l’obiettivo finale da raggiungere, che può servire da bussola universale? In Educazione democratica avanziamo una proposta piuttosto audace e, in verità, utopica: una federazione mondiale dell’istruzione. Non si capisce perché l’educazione debba continuare a essere una prerogativa esclusivamente statale-nazionale. È tempo che l’umanità costruisca le proprie istituzioni sovrastatali, o cosmopolite se preferite, su questioni fondamentali come il clima, la salute, la finanza, le migrazioni e molte altre questioni centrali, tra cui l’istruzione. Le Carte e i Patti delle Nazioni Unite hanno definito principi importanti che la grande maggioranza degli Stati ha sottoscritto, ma questi testi non hanno forza giuridica vincolante. È quindi necessario reinventare una cosmopolitica dell’educazione.
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